2024-12-15
Le pillole di galateo di Petra e Carlo: come si serve il panettone
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Giovanna Rei è un’attrice che ha conosciuto la grande notorietà, senza inseguirla, spesso quasi per caso, ma non hai mai avuto paura di fare un passo indietro pur di difendere se stessa e la sua vita. È appena apparsa nella serie tv Noi del Rione Sanità di Luca Miniero, trasmessa da Rai 1 con ottimi riscontri di pubblico. Una buona occasione per fare il punto sulla sua carriera.
Noi del Rione Sanità è stata un’esperienza che l’ha toccata nel profondo.
«Mi piacciono tantissimo le storie di rivalsa sociale e l’idea della gratitudine, anche se un mio amico mi dice sempre che è più facile incontrare Dio che la riconoscenza. Essendo napoletana, già conoscevo la storia di don Antonio Loffredo. La mia vicina di casa era un’assidua frequentatrice della parrocchia e andava ad aiutarlo nelle varie faccende. Il rione era abbandonato, lui è arrivata e ha sradicato la mentalità arrendevole, per cui ha salvato tanti ragazzi. È stato come un segno del destino ricevere questa parte».
Lei ha cominciato la sua carriera a Napoli, con Renato Carpentieri, straordinario attore.
«Il mio insegnante di recitazione del liceo mi portò a vedere uno spettacolo teatrale, in cui c’era Renato. Dopo averlo visto, ho detto: “Basta, faccio l’attrice e voglio cominciare con lui”. Renato fu carino, mi disse di andare a uno dei successivi casting e mi diede delle indicazioni. Io mi presentai come Mirandolina, tutta carina, loro furono molto dolci e alla fine mi scelsero. La sua grande idea fu di abbinare al teatro l’architettura, rispolverando la bellezza delle ville vesuviane, come Villa Bruno a San Giorgio a Cremano e Villa Campolieta a Ercolano, per cui facevamo un percorso teatrale e accompagnavamo gli spettatori nelle varie stanze. Io, tra l’altro, ero iscritta alla facoltà di Archittettura, quindi c’era una comunanza di interessi con Renato».
Quando ha deciso di intraprendere definitivamente la carriera d’attrice?
«Nonostante fossi estremamente timida, sentivo che recitare per me era catartico, mi aiutava a stare meglio. Io ero una ragazza che non esprimeva le emozioni, osservavo, ma tenevo tutto dentro. Invece grazie al teatro ho imparato a dire: “Bello, grazie, complimenti…”, tutte cose che sembrano scontate, ma non è semplice esprimere i propri sentimenti».
È una difficoltà che aveva fin da piccola?
«Avevo difficoltà a comunicare fuori dal mio microcosmo. In famiglia mi conoscevano come una nerd che stava sempre chiusa in stanza, mentre a scuola ero un capobranco, facevo delle cose pazzesche. C’era una dicotomia così evidente che la testa mi diceva: “Ma chi sono delle due?!”».
Quindi il percorso dell’attrice l’ha aiutato a ricomporre le due anime?
«Sì, esatto».
Poi ha lasciato l’università?
«Sì, a un certo punto l’ho dovuta mollare. La fortuna è stata che subito dopo quell’esperienza, siccome avevo un faccino molto carino, mi chiamarono molte produzioni e cominciai a lavorare tantissimo».
Ha esordito con L’ultimo Capodanno di Marco Risi, diventato nel tempo un film di culto.
«Un flop incredibile, fu smontato, rimontato, rismontato, rimontato ancora, ogni tanto lo riproponevano, ma era troppo moderno per l’Italia. Sarei curiosa di vedere il film per ogni montaggio. Poteva andare bene in America, dove erano abituati a Tarantino, non qui da noi”.
Ha ricordi del provino?
«Marco Risi mi osservò e mi disse: “Ma che bei capelli che hai!”. Io lo guardai incredula perché per me era una cosa normale, sono lì da sempre! Ero una ragazzina. Suo padre, Dino Risi, mi voleva coinvolgere in un progetto, ma io non capivo niente lì per lì».
Un altro incontro importante è stato con Carlo Vanzina.
«C’erano stati due incontri con Carlo, uno a Capri e l’altro quando mi vide ne L’ultimo capodanno e mi convocò per incontrarmi perché lui e Marco Risi erano molto amici».
A Capri dove l’aveva incontrato?
«Sono cresciuta a Capri, avevo la famiglia lì, e Carlo veniva spesso in vacanza. Io ero proprio la classica ragazzina caprese che gironzolava con il vestitino a fiori e il caratteristico sandalo. Ci incontrammo quando lui stava cercando una ragazza del posto per Anni ’50».
È stata la svolta della sua carriera?
«Assolutamente, però non l’ho saputa cogliere fino in fondo perché tra la fiction e il cinema preferii la prima, che all’epoca veniva quasi vista come una cosa di serie B, quindi difficilmente poi riuscivi a fare il cinema, dove infatti ho lavorato meno. È molto importante creare una rete di conoscenze, un gruppo nell’ambiente, mentre io lavoravo sul set e poi basta».
Non frequenta il mondo del cinema?
«Sono sempre stata molto amante delle mie cose, delle mie abitudini, e sono costantemente alla ricerca di ciò che mi fa stare meglio».
Malgrado non abbia coltivato le amicizie, ha sempre lavorato con continuità.
«Quasi sempre. Quando feci per quattro anni Camera Café, rimasi tagliata fuori da ogni altra cosa perché era un lavoro quotidiano che mi ha tolto anni preziosi, però sono contenta di averlo fatto. All’epoca avevo un fidanzato francese e quindi, frequentando Parigi, già conoscevo il programma. Lì era un fenomeno culturale, ne parlavano di tutti».
Ha avuto un grande successo anche in Italia.
«Per il pubblico giovanissimo ero Giovanna Caleffi di Camera Café, per il pubblico adulto, che lo seguiva meno, era quella sparita improvvisamente dalla circolazione. Con l’autore Christophe Sanchez avevo già fatto un programma pazzesco tra Truman Show e Scherzi a parte…».
Il protagonista.
«Sì. Facevo credere a un ragazzo della mia età di essere innamorata di lui. Ho vissuto una vita fittizia per un mese: era una commistione tra la realtà e immaginazione, non si capiva più cosa fosse vero e cosa fosse finto».
Quindi avevate sempre le telecamere che vi riprendevano?
«Sempre, tant’è che temevo che fossi anch’io vittima di questa storia, finché non l’ho visto montato. Pensavo: “Non è che staranno fregando anche me?”».
Com’era stata individuata la vittima?
«Avevano messo un annuncio sulle reti Mediaset: “Se hai un amico al quale vuoi fare uno scherzo, chiamaci”. Lui fu tirato dentro dal suo miglior amico. Era un insegnante di tennis e l’amico gli fece credere che era stato chiamato a Courmayeur per fare la stagione estiva in un hotel, pagato profumatamente. L’amico lo accompagna, durante il viaggio fanno un incidente e nella macchina con cui avviene il tamponamento ci sono ovviamente io. Poi ci incontriamo allo stesso hotel, più o meno per caso. Da lì parte una spy story che tu non hai idea! Io facevo una fatica terribile perché mi veniva talmente da ridere…».
Le davano una parte ogni giorno?
«C’era un canovaccio e poi avevo un piccolo microfono nell’orecchio, come quello che portava Ambra a Non è la Rai. Grazie ai capelli lunghi non si vedeva».
Ha avuto successo?
«Sono rimasta in mente a tantissime persone per anni perché, appena mi vedevano, ridevano».
E poi com’è finita?
«Ero uno scherzo terribile e la vittima c’è rimasta malissimo. Per molto tempo era arrabbiato con me, anche se aveva capito che io non avevo fatto niente».
Un altro grande successo al quale ha partecipato era Elisa di Rivombrosa.
«Non si poteva uscire di casa. Gente di tutti i livelli culturali, dal notaio alla signora snob, non ti aspettavi che venissero a dirti: “Io amo Elisa di Rivombrosa2. Io rimanevo così perplessa».
Parallelamente alla tv ha continuato a fare teatro?
«Quando non avevo impegni televisivi, ho sempre fatto teatro. Fino al Covid stavo nella compagnia di Maurizio Casagrande, una persona molto divertente che crea una bella atmosfera tra gli attori».
Per lei è molto importante l’ambiente di lavoro…
«Allora ti dico la verità: io amo il mio lavoro, mi ha dato tanto e ha fatto sì che diventassi la persona che sono, però lo amo di più quando sto bene. Quando ci sono troppe tensioni, sto talmente male che sono disposta a rifiutare».
Le è mai capitato di andarsene da un set?
«Sì, mi è capitato. Sicuramente non l’ho fatto per un colpo di testa, ma dopo una serie di difficoltà, per cui mi dicevo: “Scelgo la salute o la crisi mentale?”. Ho scelto la prima. Amo il mio lavoro, lo ringrazio, però è più importante la mia vita».
Quindi a un certo punto si ferma?
«Sì, quando la mia vita diventa meno importante».
E non le fanno scontare questi periodi di assenza?
«Poi, sì, la paghi e per rientrare ce ne vuole. Devi accettare le regole del gioco: anche se sei abituato a fare dei ruoli importanti, ti offrono dei ruoli più piccoli».
Sogna di lavorare con un regista?
«Con Ozpetek. L’ho sfiorato perché feci uno spot pubblicitario con lui per le Poste. Penso che sarebbe affascinato dai racconti della mia vita».
Nella sua carriera trasversale ha condotto un programma con Maurizio Costanzo su Rai Premium, Memory.
«Condurre è un parolone. Ero lì accanto a lui e gli facevo un po’ da supporto, davo un po’ di colore».
Come l’ha chiamata?
«Ci conoscevamo. Avevo girato uno spot in Sudafrica, in cui ero una mondina che schiacciava l’uva e quello spot mi aveva fatto diventare “nazional-popolare”, per cui Costanzo mi chiamò per andare nel suo salotto. Da lui iniziò una lunga lista di inviti per una serie di puntate più leggere in cui invitava i comici del momento e io ero la presenza femminile. Quando parlo di Carlo Vanzina e Maurizio Costanzo, mi viene da piangere perché per me erano veramente come dei parenti, oltre ad essere stati due punti di riferimento fondamentali nel lavoro. Al funerale di Carlo ho pianto come al funerale di mio nonno».
Un legame molto forte.
«Per me non esiste il rapporto freddo, professionale, poi certo sono una che sa stare al posto suo e non mi piace invadere gli spazi altrui, però dentro di me accadono delle cose così profonde. Sono fatta così, un po’ sentimentale!».
Se pochi giorni fa qualcuno avesse sottovalutato lo storico riconoscimento che l’Unesco ha accordato alla cucina italiana, da quest’anno patrimonio culturale immateriale globale, è il ministro del Turismo Daniela Santanchè, a bordo del Gourmet Bus, a spiegare cosa significhi: «Non è soltanto una questione di immagine, che pur è importante, ma di numeri, perché aiuta e fa crescere il valore delle nostre aziende, dei nostri ristoratori e si traduce in posti di lavoro stabili. Nel settore del turismo abbiamo ancora molti lavoratori stagionali che vorremmo stabilizzati. Grazie a riconoscimenti come questo potranno lavorare di più, anche 12 mesi l’anno». Non solo: secondo le associazioni di settore il titolo riconosciuto dall’Unesco potrà determinare nell’arco di due anni un incremento dei flussi turistici fino all’8%, pari a circa 18 milioni di pernottamenti aggiuntivi.
Il Gourmet Bus è un progetto di Enit Spa dedicato alla cucina italiana e alle eccellenze del Made in Italy. La prima tappa del bus, che ha coinvolto circa 430 partecipanti tra istituzioni ed esperti del settore accolti dai miglior chef italiani, è stata Parigi, a seguire Bruxelles, Londra, Berlino, Stoccolma, Monaco e Vienna. L’altroieri è arrivato a Roma mettendo in vetrina la nostra cucina e le tipicità regionali attraverso degustazioni a bordo, seguendo un percorso panoramico e un’esperienza itinerante di enogastronomia e cultura.
«Roma è la tappa simbolica di un percorso che celebra la nostra tradizione. Ribadiamo così il valore universale delle nostre eccellenze, espressioni dell’identità nazionale. Iniziative come questa di Enit sono fondamentali per rafforzare il legame tra tradizione e innovazione», ha proseguito Santanchè. Secondo Ivana Jelinic, ad di Enit che ha lanciato l’iniziativa, «il turismo enogastronomico negli ultimi anni è diventato un vero traino. I viaggiatori internazionali sono disposti a investire per scoprire le tipicità italiane, creando valore, occupazione e crescita economica a beneficio delle comunità locali. Il Bus Gourmet Italia è nato proprio con la volontà di esportare le eccellenze Made in Italy nel mondo».
In effetti, nel 2024 il mercato globale della ristorazione italiana ha raggiunto un valore pari a 251 miliardi di euro, corrispondente al 19% del mercato mondiale della ristorazione. Nello stesso anno i soggiorni motivati dall’interesse per cibo e vino sono cresciuti del 176% rispetto agli anni precedenti. L’enogastronomia è dunque un fattore decisivo nella scelta dell’Italia come destinazione turistica internazionale: Enit ha rilevato circa 2,4 milioni di presenze riconducibili al turismo enogastronomico. Quanto all’impatto economico diretto, la spesa dei turisti stranieri per esperienze, prodotti e servizi legati al food & wine tourism è stimata in 363 milioni di euro e l’export agroalimentare ha raggiunto il record storico di 69,1 miliardi di euro, segnando una crescita dell’8% rispetto all’anno precedente. Con buona pace dei francesi? «Rispetto alla Francia che non ha tantissime destinazione turistiche, noi siamo l’Italia dagli ottomila campanili, abbiamo le aree interne, le isole più belle, i 5.600 borghi dove si produce il 95% delle nostre eccellenze enogastronomiche», ha spiegato Santanchè. «Sa qual è la differenza tra l’Italia e la Francia? I francesi. Perché i francesi si stringono sempre intorno alla loro bandiera, non parlano mai male della loro nazione: dovremmo farlo anche noi. Io un po’ li invidio».
Messaggio in bottiglia da Bruxelles: per boicottare il vino ci occupiamo del vetro, così come suggerito dai tedeschi. Cancellare le bottiglie scure in vetro pesante vuol dire impedire che in Europa si producano spumanti, a cominciare dallo Champagne, e olio extravergine di oliva. Vuol dire sottrarre all’Ue un ammontare di esportazioni che vale circa 11 miliardi (8 dagli spumanti, 3 dall’extravergine). Tutto perché nella nuova direttiva sugli imballaggi, figlia del Green deal (che è durissimo a morire), c’è scritto: «Entro il 2030 un imballaggio o una bottiglia costituiti per più del 30% del proprio peso da materiale non riciclabile non può più essere messo in commercio». È il seguito del regolamento sugli imballaggi che si pensava fosse stato accantonato: prevede che il vuoto a perdere sia riciclato al 90%, però si continua a discutere se debba invece essere del tutto abolito (si fa fatica a pensare che uno vada - tanto per restare nel vino - a Beaune a farsi rabboccare La Tâche o da Antinori a chiedere di fare il pieno di Solaia), e ancora se debbano andare fuori commercio le bottiglie che pesano più di 700 grammi.
L’allarme sul nuovo capitolo - quello che riguarda le bottiglie da spumante o da vini da invecchiare e l’olio extravergine d’oliva (che teme come la peste la luce del sole) - è stato lanciato dal presidente del Coreve, il consorzio italiano per il riciclo del vetro che detiene il record europeo, con l’81% di vetro «circolare», pari a 2,1 milioni di tonnellate nel 2024 (ben sei punti sopra le quote massime richieste da Bruxelles). Che dice: vogliono cancellare le bottiglie scure per il Prosecco. Spiega il presidente Gianni Scotti che tutto nasce dall’idea di Germania e Danimarca d’imporre in Ue solo le bottiglie da birra. S’attaccano al fatto che i lettori ottici, quando devono selezionare una bottiglia scura, la scambiano per ceramica e non la mandano alla fusione, abbassando il tetto delle quantità riciclate. «Abbiamo dimostrato», spiega Scotti, che le nostre macchine arrivano a scartare meno dell’1% del vetro. Speriamo di convincere l’Europa che le indicazioni che vengono da loro sono obsolete». E anche Assovetro, il cui presidente è Marco Ravasi e che usa il rottame di vetro, si dice preoccupata per la piega che sta prendendo Bruxelless. La speranza è l’ultima dea, ma la concorrenza interna all’Ue può molto di più. Gli attacchi al vino da parte dei Paesi del Nord, che lamentano il fatto che sulla birra c’è una (minima) accisa e sul vino no, si ripetono a ondate. Prima l’Irlanda ha imposto le etichette con scritto «il vino fa male», violando i trattati, ma Ursula von der Leyen ha dato loro ragione; poi la Commissione ha approvato il Beca (documento anti cancro che deve passare dall’Eurocamera) per ipertassare il vino, restringerne la vendita e abolirne la promozione; ora si passa dal vetro. Tutto a danno dei Paesi mediterranei, ignorando che in premessa, nel regolamento sugli imballaggi, c’è scritto: «Imballaggi appropriati sono indispensabili per proteggere i prodotti».
Senza bottiglie scure non si può fare la rifermentazione in bottiglia. Solo Cristal in Champagne usa bottiglie bianche, ma tenute al buio. Lo stesso vale per il metodo classico italiano (sempre di rifermentazione in bottiglia si parla), ma anche per gli spumanti fatti in autoclave (il Prosecco appunto). Per avere un’idea, s’imbottigliano 300 milioni di Champagne, gli italiani tappano un miliardo di bottiglie, gli spagnoli 250 milioni. Va bene solo ai tedeschi che fanno tante bollicine ma così leggere che, comunque, non passerebbero l’anno e dunque non hanno bisogno di protezione dal sole, né di contenere le pressioni di rifermentazione. Il caso dei vetri confermerà invece agli inglesi che la Brexit è stata una mano santa. Sono i più forti consumatori di spumanti al mondo, ma sono anche coloro i quali li hanno resi possibile e ora ne producono di ottimi (ad esempio Bolney).
Il metodo di rifermentazione fu codificato da due marchigiani: Andrea Bacci (De naturalis vinorum historia del 1599) e Francesco Scacchi (1622, De Salubri potu dissertatio) mettono a punto la tecnica, tant’è che si potrebbe parale di un metodo Scacchi. Dom Pierre Pérignon arriva sessant’anni dopo. Ma i due italiani hanno un limite: le bottiglie di vetro soffiato scoppiano. In rifermentazione si arriva fino a 6 atmosfere di pressione. Però nel 1652 sir Kelem Digby cambiò tutto. Giorgio I aveva impedito di tagliare alberi per alimentare i forni vetrai, cosi Digby usò il carbone. Questo gli consentì di alzare le fusioni e mescolare carbonio alla pasta vitrea: nacque l’iper-resistente «English Bottle». Gli inglesi, primi clienti dei vini francesi, fecero con il vetro la fortuna dello Champagne. E questo spiega perché le bottiglie sono pesanti e scure (fino a 9 etti per il metodo classico, 700 grammi quelle da Prosecco, mezzo chilo quelle da vino, anche se l’italiana Verallia ha prodotto la Borgne Aire di soli tre etti). Ma l’Europa non lo sa o fa finta. Perché attraverso le bottiglie (produrre un chilo di vetro vergine vale 500 grammi di CO2, ma nel 2024 l’Italia col riciclo ha risparmiato quasi 1 milione di tonnellate di anidride carbonica, 358.000 tonnellate di petrolio e 3,8 milioni tonnellate di materiali) ha capito che può frenare la crescita di alcuni Paesi. Solo che ora dovranno spiegarlo ai vigneron francesi, che da mesi protestano e hanno già estirpato 12.000 ettari di vigna. Ci sta che a Bruxelles dalle cantine arrivi un messaggio in bottiglia: o lasciate perdere, o i trattori che il 18 stanno per circondare palazzo Berlaymont sono solo un aperitivo.
Fuori è già Natale. Ma dentro la casa della famiglia Furlan, a Padova, non ci sono addobbi. L’ultima volta che mamma Cristina e papà Fabiano hanno fatto l’albero era il 2013. Pochi giorni dopo, la sera del 14 dicembre, un bandito entra in un supermercato e spara a suo figlio Andrea, allora ventitreenne, assunto al Prix Quality Spa di Albignasego da appena due mesi.
Sono le 20.30, Andrea finisce il suo turno e sale negli spogliatoi, al piano superiore, per cambiarsi. Scendendo dalle scale si trova davanti ad un uomo armato che, forse in preda al panico, apre il fuoco. La pallottola gli buca la testa, da parte a parte, ma invece di ucciderlo lo manda in coma per mesi, riducendolo a un vegetale. La sua vita e quella dei suoi genitori si ferma quel giorno.
Lo Stato si dimentica di loro. Le indagini si concludono con un nulla di fatto. Non solo non hanno mai trovato chi ha sparato ma neppure il proiettile e la pistola da dove è partito il colpo. Questo perché in quel supermercato le telecamere non erano in funzione. Nel 2018 archiviano il caso. E rinvio dopo rinvio non è ancora stato riconosciuto alla famiglia alcun risarcimento in sede civile. Oggi Andrea ha 35 anni e forse neppure lo sa, ha bisogno di tutto, è immobile, si nutre con un sondino, passa le sue giornate tra il letto e la carrozzina. Per assisterlo, al mattino, la famiglia paga due persone. Hanno dovuto installare un ascensore in casa. E ricevono solo un indennizzo Inail che appena gli consente di provvedere alle cure.
Il senatore di Forza Italia, Maurizio Gasparri, membro della commissione Giustizia del Senato, è sconcertato: «Sono profondamente indignato per quanto accaduto a questa famiglia, Andrea e i suoi genitori meritano la giustizia che fino ad oggi gli è stata negata da lungaggini e burocrazia. Non si capisce il motivo di così tanti rinvii. Almeno si giunga a una sentenza e che Andrea abbia il risarcimento che merita dall’assicurazione. Anche il datore di lavoro ha le sue responsabilità e non possono non essere riconosciute dai giudici».
Il collega senatore di Forza Italia, nonché avvocato, Pierantonio Zanettin, anche lui membro della stessa commissione, propone «che lo Stato si faccia carico di un provvedimento ad hoc di solidarietà se la causa venisse persa. È patologico che ci siano tutti questi rinvii. Bisognerebbe capire cosa c’è sotto. Ci devono spiegare le ragioni. Comunque io mi metto a disposizione della famiglia e del legale. La giustizia ha l’obbligo di rispondere».
Ogni volta l’inizio del processo si sposta di sei mesi in sei mesi, quando va bene. L’ultima beffa qualche giorno fa quando la Corte d’Appello calendarizza un altro rinvio. L’avvocato della famiglia, Matteo Mion, non sa darsi una ragione: «Il motivo formale di tutti questi rinvii è il carico di lavoro che hanno nei tribunali, ma io credo più nell’inefficienza che nei complotti. In primo grado era il tribunale di Padova, adesso siamo in Corte di Appello a Venezia. Senza spiegazioni arriva una pec che ci informa dell’ennesimo rinvio. Ormai non li conto più. L’ultima volta il 4 dicembre, rinviati all’11 giugno 2026. La situazione è ingessata, non puoi che prenderne atto e masticare amaro».
In primo grado, il giudice Roberto Beghini, prova addirittura a negare che Andrea avesse diritto a un indennizzo Inail, sostenendo che quello non fosse un infortunio sul lavoro. Poi sentenzia che non c’è alcuna connessione, nemmeno indiretta, tra quanto successo ad Andrea e l’attività lavorativa che stava svolgendo, in quanto aveva già timbrato il cartellino, era quindi fuori dall’orario di lavoro, non era stata sottratta merce dal supermercato, né il ragazzo era stato rapinato personalmente. Per lui non è stata una rapina finita male. Nessuna merce sottratta, nessuna rapina. Il giudice Beghini insinua addirittura che potrebbe essere stato un regolamento di conti. Solo congetture, nessuna prova, nulla che possa far sospettare che qualcuno volesse fare del male al ragazzo. Giusto giovedì sera, alle 19.30, in un altro Prix market, stavolta a Bagnoli di Sopra (Padova), due banditi hanno messo a segno una rapina armati di pistola. Anche stavolta non c’erano le telecamere. Ed è il quarto colpo in nove giorni.
Ciò che è certo in questa storia è che il crimine è avvenuto all’interno del posto di lavoro dove Andrea era assunto, le telecamere erano spente e chi ha sparato è entrato dal retro dell’edificio attraverso un ingresso lasciato aperto. In un Paese normale i titolari del Prix, se non delle colpe dirette, avrebbero senz’altro delle responsabilità. «L’aspetto principale è l’assenza di misure di sicurezza del supermercato», conclude Mion, «che avrebbero tutelato il personale e che avrebbero consentito con buona probabilità di sapere chi ha sparato. C’è una responsabilità della sentenza primo grado, a mio avviso molto modesta».
Per il deputato di Forza Italia, Enrico Costa, ex viceministro della Giustizia e oggi membro della commissione Giustizia della Camera, «ancora una volta giustizia non è fatta. Il responsabile di quell’atto non è stato trovato, abbiamo un ragazzo con una lesione permanente e una famiglia disperata alla quale è cambiata la vita da un momento all’altro. È loro diritto avere un risarcimento e ottenere giustizia».
L’assicurazione della Prix Quality Spa, tace e si rifiuta di pagare. Sapete quanto hanno offerto ad Andrea? Cinquantamila euro. Ecco quanto vale la vita di un ragazzo.

