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Nicola Procaccini (Ansa)
- Va all’ex sindaco di Bari la guida dell’Envi, la giunta parlamentare dove transitano tutti i dossier green più delicati. Se passa il metodo Puglia vedremo una gestione ideologica e politica che punta a sfruttare il potere per mettere il governo in difficoltà.
- Tre presidenze all’Ecr. Procaccini: «Volevano farci secchi, li abbiamo battuti».
Lo speciale contiene due articoli.
La Puglia e il Pd conquistano la poltrona più delicata dell’Europarlamento. La presidenza della commissione Envi, sigla che sta per l’inglese ambiente, salute pubblica e salite alimentare. È la Commissione che ha visto, nella prima metà della scorsa legislatura, passare le leggi più estremiste in tema transizione green e, nella seconda metà, ha vissuto le battaglia più aspre con l’intento di bloccarle. Per capirsi, ci riferiamo alle norme che toccano la nostra industria e la nostra agricoltura. Dalla legge Natura a quella sugli imballaggi. Senza dimenticare il core business del Green new deal. Cioè tutte le normative sui motori elettrici e la mobilità in generale. A presiedere Envi dal 2019 all’altro ieri è stato Pascal Camfin. Parlamentare francese eletto tra le fila di Renew, il gruppo che fa riferimento a Emmanuel Macron, Camfin ha avuto la brillante idea di influenzare l’opinione pubblica del Vecchio Continente facendo dichiarare all’Aula lo stato di emergenza climatico. D’altronde Camfine arriva dal World resources institute, una delle ong più influenti in ambito Onu. Insomma, qualcuno potrebbe essere più dannoso di lui per l’industria italiana? Temiamo di sì. A essere nominato ieri è stato l’ex sindaco di Bari, Antonio Decaro, ex fidato di Michele Emiliano, ma nonostante la tremenda vicenda dell’inchiesta anti mafia ancora pieno rappresentante di quello rete di potere che si chiama Emilianistan. Dunque che aspettarsi? Decaro ha accolto così la sua elezione: «Non dobbiamo perdere di vista il senso delle sfide straordinarie che siamo chiamati ad affrontare. Non c’è soltanto il futuro del nostro continente in gioco, ma anche un nuovo approccio globale alla risorsa pianeta». Nonostante qualche tentennamento, più strategico che di merito, Ursula von der Leyen ha infatti confermato il ruolo centrale del Green deal subito dopo la sua riconferma, avvenuta con l’appoggio decisivo dei Verdi. Sul punto, l’ex sindaco di Bari ha spiegato che: «L’obiettivo di conseguire pienamente il nuovo Green deal è certamente una sfida ambiziosa, ma non impossibile», per questo «non ci sono motivi per tornare indietro, se sarà necessario migliorare qualcosa, lo faremo, ma serve dare certezze e assumere impegni chiari». Il rappresentante del Pd ha poi concluso l’intervento citando Hemingway: «Il mondo è un bel posto, e per esso vale la pena lottare, a noi il compito di fare la nostra parte in questa lotta civile per il futuro».
Su Instagram infine Decaro ha specificato: «Affronteremo il tema della transizione verde garantendo investimenti pubblici e stimolando quelli privati su larga scala così da riuscire a salvaguardare e integrare tutti i settori dell’economia nel percorso di transizione che ci attende senza lasciare indietro nessuno. L’impegno più ambizioso sarà quello di coniugare le sfide ambientali con lo sviluppo di nuovi modelli di crescita economica sostenibile e sociale».
Scusate se abbiamo riportato per intero le sue dichiarazioni. Ma valeva la pena per pesare la quantità di ideologia presente nelle dichiarazioni di insediamento. Ciò che Decaro, ovviamente, non sottolinea è il duplice aspetto politico insito in quella poltrona, almeno per il prossimo quinquennio. Da un lato, il Pd potrà gestire la tolda e volutamente mettere in difficoltà il governo italiano di centrodestra. Camfin portava avanti un’idea sbagliata ma senza potenziali doppi fini. Decaro da esperto politico quale è saprà invece indossare le due vesti. Politico europeo e piddino italiano in trasferta. Senza contare che bisognerà porre estrema attenzione a eventuali connessioni tra Bari e Bruxelles. La Regione è da tempo molto attiva in ambito portuale e ha allargato le proprie attenzioni anche all’eolico offshore e a grandi opere energetiche. Molte delle quali si finanziano con fondi europei o in ambito Pnrr. In futuro si finanzieranno con le nuove piattaforme finanziarie che la Commissione entrante e il Parlamento andranno a perimetrare. È vero che il presidente di una Commissione non ha potere assoluto e almeno dentro quelle aule il dibattito democratico è spiccato. Abbiamo visto cosa è successo nell’ultimo anno e mezzo. Il Ppe che progressivamente ha iniziato a votare contro i socialisti e assieme ai conservatori di Ecr. Anche le nomine dei vice ieri sono andate bene per il partiti di centrodestra e quindi si annuncia battaglia. Il rischio però è sprecare gran parte delle energia a smontare ciò che socialisti europei, Verdi e dem nostrani impostano e disegnano all’insegna dell’ideologia green. Non dimentichiamo infine che in Puglia (e il Pd locale lo sa benissimo) ha sede l’ex Ilva. Lo stabilimento è in una fase delicata. Servono nuovi investitori per evitare che collassi e non produca più acciaio. Muovere la commissione Envi contro Taranto sarebbe facile e sarebbe anche un modo per fare opposizione al governo. Questi sono aspetti politici. Però evitiamo di uccidere ulteriormente il tessuto produttivo. Soprattutto quello dell’industria pesante fondamentale per mantenere l’Italia con entrambi i piedi dentro il G7.
Il centrodestra macina commissioni e la maggioranza Ursula va in crisi
La coalizione Ursula non è poi così salda: l’elezione degli uffici di presidenza delle commissioni del parlamento europeo, ieri a Bruxelles, ha rimesso in piedi il bipolarismo. Centrodestra con il Ppe da un lato, centrosinistra dall’altro, si sono sfidati per eleggere presidenti e vicepresidenti delle commissioni, e il centrodestra ha fatto 13, portando a casa il bottino pieno. Per farla molto breve: su un totale di 20 Commisisoni per 13 volte le sinistre hanno tentato di ostacolare l’elezione di presidenti e vicepresidenti di centrodestra, e per 13 volte hanno fallito. I conservatori di Ecr, guidati da Giorgia Meloni, hanno ottenuto 3 presidenti e 10 vice, dei quali ben 6 di Fratelli d’Italia. Veronika Vrecionová della Repubblica Ceca è stata eletta al vertice della Commissione per l'Agricoltura e lo Sviluppo Rurale; Johan Van Overtveldt, Belgio, guiderà la Commissione per i Bilanci e Bogdan Rzonca, polacco, quella per le Petizioni. Sei eurodeputati di Fratelli d’Italia hanno ottenuto una vicepresidenza di Commissione: Alberico Gambino agli Affari Esteri e alla sottocommissione Sicurezza e Difesa; Pietro Fiocchi all’Ambiente, Sanità Pubblica e Sicurezza Alimentare (Envi); Elena Donazzan all’Industria, Ricerca ed Energia; Mario Mantovani agli Affari Giuridici; Francesco Ventola allo Sviluppo Regionale; Giuseppe Milazzo alla Pesca. Gli altri vicepresidenti di Commissione di Ecr sono Charlie Weimers, svedese, alle Libertà Civili; Cristian Terheş, rumeno, al controllo dei Bilanci e Emmanouil Fragkos, greco, per la sottocommissione Sanità Pubblica. «Faccio le mie congratulazioni», commenta il copresidente del gruppo Ecr Nicola Procaccini, «ai neoeletti presidenti e vice-presidenti. L’Ecr è orgoglioso di avere membri competenti ed esperti nelle Commissioni, che contribuiranno in modo costruttivo al lavoro delle Commissioni. Nonostante il tentativo della Sinistra di boicottarci in tutte le Commissioni, il risultato positivo delle votazioni odierne dimostra che la maggioranza è cambiata e i Conservatori possono essere decisivi in questa prossima legislatura quinquennale». Dicevamo della enorme rilevanza politica di queste votazioni: in sostanza, dopo il voto di «fiducia» alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen dello scorso 18 luglio a Strasburgo, fiducia ottenuta con i voti di Popolari, Socialisti, Liberali e Verdi, l’equilibrio politico europeo è già cambiato. La maggioranza Ursula in occasione delle votazioni per gli uffici di presidenza delle Commissioni si è scomposta, con il Ppe che ha votato insieme agli altri partiti di centrodestra, mentre Socialisti, Liberali e Verdi si sono riuniti alla Sinistra. «Oggi (ieri, ndr) al parlamento europeo», ha aggiunto Procaccini su X, «si è votato per l’elezione dei presidenti e vicepresidenti delle commissioni. Per 13 volte le sinistre rosse e verdi hanno provato a fare secchi i nostri candidati. A volte per un solo voto, a volte con più margine: hanno perso 13 volte. Grazie a tutti gli amici del centrodestra per averci sostenuto e buon lavoro ai 13 nostri eletti. Vado a tatuarmi il 13». Altra fake news circolata ieri, quella che Forza Italia avrebbe perso una commissione: manco per niente, poiché sono stati proprio gli eurodeputati forzisti a scegliere di indicare Massimiliano Salini come vice di Manfred Weber al vertice del gruppo del Ppe rispetto a una presidenza di Commissione. Cosa ci insegna quanto avvenuto ieri? A noi e ai nostri lettori nulla di nuovo: sono settimane che ripetiamo che la politica europea non deve essere letta con i canoni di quella dei singoli Paesi. La maggioranza che ha detto «sì» al bis della Von der Leyen è durata lo spazio di un mattino, anzi di un pomeriggio: già ieri la geometria è cambiata. E cambierà ancora e ancora: ci saranno votazioni, ad esempio quelle che riguardano uno Stato in particolare, che vedranno le delegazioni di quello Stato votare allo stesso modo, sia che siano di sinistra che di destra, a prescindere dagli orientamenti dei gruppi.
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Raffaele Fitto (Imagoeconomica)
Scenario aperto per le nomine: Ursula von der Leyen chiederà ai governi due candidati, uomo e donna, tra i quali scegliere il commissario. Ipotesi Letizia Moratti in alternativa al ministro.
«Sono molto grata ai Verdi per il loro sostegno. Lavorerò il più possibile con coloro che mi hanno sostenuto, che sono pro-Ue, pro-Ucraina, pro-Stato di diritto. Sono molto grata alla piattaforma Ppe-S&d-Renew, ma sono anche molto grata al gruppo dei Verdi. Abbiamo avuto scambi approfonditi su tutti i temi ed è un buon segno che alla fine abbiano votato sì»: Ursula von der Leyen dopo la sua rielezione alla guida della Commissione europea conferma quella impostazione di una divisione tra maggioranza e opposizione che è contraria allo spirito con quale è nata l’Unione europea, ma che ha ormai preso piede tra Bruxelles e Strasburgo. Quella frase, «lavorerò il più possibile con coloro che mi hanno sostenuto», somiglia molto a una minaccia verso chi invece si è espresso contro la sua seconda esperienza. Se le sue parole fossero quelle di un premier di una nazione, sarebbero perfettamente comprensibili: i gruppi che l’hanno votata sono i Popolari (Ppe), i Socialisti (S&d), i Liberali (Renew) e i Verdi, e quindi a queste forze toccherebbe esprimere poi i commissari, che sono in sostanza i ministri europei. In Europa, però, non funziona così: ogni Stato esprime un commissario ma non tutti hanno lo stesso peso, e quindi le parole di Ursula vanno lette in controluce: il rischio è che i partiti che hanno votato la «fiducia» possano rivendicare i ruoli più importanti lasciando quelli di seconda fila a chi si è espresso contro. Non a caso Giorgia Meloni, intervenuta ieri attraverso un videomessaggio, ha messo le cose in chiaro: «Non ho ragione di ritenere», ha detto la Meloni, «che la nostra scelta possa in alcun modo compromettere il ruolo che verrà riconosciuto all’Italia nella Commissione europea. L’Italia è un Paese fondatore, la seconda manifattura, la terza economia d’Europa con uno dei governi più solidi tra le grandi democrazie europee. Ed è sulla base di questo, e solo di questo, che si definisce il ruolo italiano». Fonti europee interpellate dalla Verità confermano che all’Italia dovrebbe andare il Commissario alla Coesione, Pnrr, recovery fund, probabilmente arricchito anche da altre deleghe in fase di definizione.
Nel mirino del governo c’è in particolare la delega alla Concorrenza. Il nome? Il candidato in pectore è il ministro per gli Affari europei, le politiche di coesione e il Pnrr Raffaele Fitto: le deleghe che ha in Italia sarebbero sostanzialmente le stesse che gli verrebbero affidate a Bruxelles. La Meloni punta anche a una vicepresidenza esecutiva, e qui invece potrebbe scattare una penalizzazione per il voto contrario di ieri di due su tre dei partiti di governo a Roma: Fratelli d’Italia e Lega. Ma c’è un’altra insidia sulla strada verso Bruxelles di Fitto: «Ora», ha detto la Von der Leyen, «mi concentrerò sulla creazione del mio team di commissari per i prossimi cinque anni. Nelle prossime settimane, chiederò ai leader di presentare i loro candidati. Scriverò una lettera, come ho fatto l’ultima volta, e chiederò la proposta di un uomo e di una donna come candidati. L’unica eccezione è, come l’ultima volta, quando c’è un commissario in carica che rimane. Poi intervisterò i candidati a partire da metà agosto», ha aggiunto Ursula, «e voglio scegliere i candidati più preparati che condividono l’impegno europeo. Ancora una volta, punterò a una quota equa di uomini e donne». Visto che l’Italia avrà un commissario nuovo, se il metodo sarà davvero questo la Meloni dovrebbe quindi indicare due nomi, quello di Fitto e quello di una donna, e alla Von der Leyen spetterebbe poi la scelta. Chi potrebbe essere la donna da inserire in questa minirosa di nomi da sottoporre alla presidente della Commissione? La Meloni, si ragionava ieri nei corridoi di Strasburgo, potrebbe puntare a questo punto su una esponente di Forza Italia, componente autorevolissima dei Popolari e unico partito della maggioranza italiana ad aver votato il bis di Ursula. Letizia Moratti, europarlamentare di Forza Italia, potrebbe avere lo standing perfetto per il ruolo, e rivendicare anche, come Popolare e quindi esponente di maggioranza, una delega di maggior peso e una vicepresidenza esecutiva. Tra l’altro, fonti europee facevano anche notare come altri Paesi hanno indicato un solo nome e quindi quello della Von der Leyen potrebbe essere solo un auspicio. Si vedrà. Intanto, alcuni stati hanno già ufficializzato i nomi dei rispettivi commissari: Maros Sefcovic per la Slovacchia, Hanna Vikkunen per la Finlandia, Michael McGrath per l’Irlanda, Valdis Dombrovskis per la Lettonia, Jessika Roswall per la Svezia. La Francia dovrebbe confermare Thierry Breton, commissario uscente al mercato interno, mentre la Spagna punta su Teresa Ribera.
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Viktor Orbán (Ansa)
Il partito di Vistisen si unisce ai Patrioti, che ora hanno i numeri per formare il gruppo all’Eurocamera. Domani si decide il futuro di Identità e democrazia. Con lo spostamento a destra degli equilibri, cambiano gli scenari per le nomine e il ruolo di Giorgia Meloni.
Botte da Orbán tra i partiti di destra in Europa: il gruppo dei Patrioti, quello fondato tra gli altri dal premier ungherese Viktor Orbán, continua a crescere e punta a superare i Conservatori di Ecr, guidati da Giorgia Meloni.
Ieri ai Patrioti ha infatti aderito anche il Partito Popolare danese, formazione sovranista che conta un solo eurodeputato, Anders Vistisen, il cui arrivo però è importantissimo poiché consente agli orbaniani di raggiungere la soglia di almeno sette Paesi rappresentati, indispensabile per costituire un gruppo autonomo. «Saremo lieti», commenta Vistisen, «di lavorare con i nostri vecchi alleati del gruppo Id e i nostri nuovi amici di Spagna, Repubblica Ceca e Ungheria. Siamo certi che, essendo il terzo gruppo più numeroso, potremo inviare un chiaro segnale agli estremisti federalisti e difendere un’Europa di Stati nazionali». Si porta già avanti con il lavoro, Vistisen, che parla di terzo gruppo più numeroso, evidentemente confidando nell’ingresso nei Patrioti anche della Lega e soprattutto del Rassemblement National di Marine Le Pen. Al momento, ricordiamolo, ai Patrioti hanno aderito ufficialmente gli ungheresi di Fidesz (undici eurodeputati), quelli di Ano dell’ex premier ceco Andrej Babiš (sette, provenienti da Renew), gli austriaci della Fpö (sei) i portoghesi di Chega (due) e il Partito della Libertà di Geert Wilders (sei) provenienti da Id; gli spagnoli di Vox (sei) usciti dai Conservatori di Ecr. Siamo a quota 39, ai quali dovrebbero aggiungersi gli 8 della Lega e il pattuglione dei 30 parlamentari europei eletti da Marine Le Pen. Considerati i vari gruppettini sparsi, a cominciare dai belgi del Vlaams Belang, che potrebbero essere attratti da un gruppo così numeroso, ecco che i Patrioti potrebbero superare quota 80 deputati, diventando il terzo gruppo del parlamento europeo dopo i Popolari (188), i Socialisti (136) e davanti ai Conservatori (78) e ai Liberali (76). Sapremo tutto tra poche ore: domani, lunedì 8 luglio, verrà presentato il gruppo, non a caso dopo il secondo turno delle elezioni francesi. Va detto, però, che al contrario di quello che racconta una certa narrazione superficiale (o interessata) la consistenza numerica dei gruppi non c’entra proprio niente con le trattative per la formazione della nuova Commissione europea. I Patrioti possono anche arrivare a 100 eurodeputati, ma saranno sempre tenuti fuori dalla maggioranza del tripartito Popolari-Socialisti-Liberali, che si sono spartiti le cariche apicali senza consultare nessun altro, e che adesso sono a caccia dei voti necessari per far superare a Ursula von der Leyen lo scoglio del voto di «fiducia» del Parlamento europeo, in programma il prossimo 18 luglio a Strasburgo. Un voto segreto, quindi a rischio «franchi tiratori»: i tre partiti sulla carta dispongono di 400 voti, la maggioranza richiesta è 361, e considerato che tra Popolari, Socialisti e Liberali non tutti sono entusiasti della riconferma di Ursula occorre garantirsi un margine assai più ampio. La von der Leyen sta trattando con i Verdi (54 eurodeputati) ma una parte del Ppe è contraria a questa intesa, a partire da Forza Italia, che invece preferirebbe parlare con i Conservatori della Meloni, ma i Socialisti non ne vogliono sapere. Tra l’altro, a quanto apprende La Verità, sarebbe proprio il Pd, la cui delegazione di 21 deputati è la più numerosa tra quelle dei Socialisti europei, a essere la più nettamente contraria a una trattativa ufficiale con Fratelli d’Italia. In ogni caso, le trattative ufficiali camminano parallelamente a quelle ufficiose, e si può stare certi che gli emissari di Ursula von der Leyen si stanno dando molto da fare per recuperare voti utilizzando argomenti convincenti: no, non ci riferiamo a programmi e ideali, ma a posti di potere e sottopotere, prebende e incarichi. Nell’attesa di capire se la von der Leyen riuscirà a ottenere la fiducia, non possiamo non osservare come il gruppo dei Patrioti, in attesa della Lega e del Rassemblement National, si configuri come in grado di dare filo da torcere alla nuova cupola di Bruxelles non solo nel Parlamento, ma anche in sede di Consiglio europeo, visto che comprende esponenti di governo nei rispettivi Paesi. La visita di Orbán a Mosca e l’incontro con Vladimir Putin sono solo l’inizio di una strategia basata sulla considerazione che continuare a sostenere acriticamente la strategia della Nato (ovvero degli Stati Uniti) in Ucraina è deleterio per l’Europa. Così come è difficile non intravedere nei Patrioti un gruppo che si sta posizionando in vista di una probabile vittoria di Donald Trump alle presidenziali Usa di novembre. Va anche detto che paradossalmente la crescita dei Patrioti rende ancora più affidabile Giorgia Meloni, che ha dimostrato di essere totalmente allineata alla Nato e alla amministrazione americana di Joe Biden, rimodulando le storiche posizioni del suo partito. Non a caso, chi teme la vittoria del Rn in Francia si augura una «mélonisation» della Le Pen se dovesse passare dall’opposizione al governo.
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Teresa Ribera Rodriguez (Ansa)
Alla transizione verde favorita la spagnola Teresa Ribera Rodriguez, che è in linea con Frans Timmermans. L’altro scranno è stato prenotato da Emmanuel Macron.
Adesso che siamo arrivati a poche ore dal Consiglio europeo del 27 e 28 giugno, dall’appuntamento clou per decidere la composizione della prossima Commissione Ue, possiamo dircelo: buona parte dei nomi che circolano rappresenta una sorta di incubo per il centrodestra europeo e di governo. Parliamo di alcune delle poltrone che contano e che potrebbero disegnare la traiettoria politica ed economica del Vecchio Continente per i prossimi cinque anni. C’è un tris di nomi, o meglio, diverse fonti hanno parlato di due nomi e un Paese che starebbe spingendo per mettere la sua bandierina su una delle caselle che più ha potere di incidere negli equilibri continentali, che fa particolarmente paura.
Alla transizione verde, e questa sarebbe forse la maggiore sorpresa visti i guai combinati da Frans Timmermans, potrebbe arrivare un altro socialista: la spagnola Teresa Ribera Rodriguez che ricopre il ruolo di ministro della Transizione ecologica e della sfida demografica del Regno di Spagna dal 2018. Ribattezzata anche con l’appellativo di ministra in bicicletta e fortemente sponsorizzata dal premier Pedro Sánchez. A questo proposito è rimasto negli annali il suo arrivo sulle due ruote alla conferenza sul clima di Valladolid circa un anno fa, accompagnata però da due auto che le facevano da scorta, una Ford Mondeo e una Opel Insignia, entrambe spinte da un motore termico. Marketing verde riuscito male, si potrebbe obiettare. Vero, ma se guardiamo ai contenuti è pure peggio. La Ribera Rodriguez è una fan incallita delle rinnovabili, ritiene che l’energia solare riuscirà a rivoluzionare il mondo e ovviamente non vede il nucleare. A inizio 2023, tanto per fare un esempio, si è battuta in sede Ue (insieme a Sanchez) contro l’idrogeno rosa, quello ricavato dall’elettricità di origine nucleare, mentre a Bruxelles ha criticato più volte alcuni passi indietro dei Popolari e della Germania sui dossier chiave del Green deal.
Si potrebbe continuare, ma il senso è chiaro: il rischio concreto è di passare dalla folle ipocrisia green guidata dall’uomo che viene dal Nord Europa a quella stessa politica 2.0 portata avanti da una donna del Sud. Un maquillage. Per non cambiare nulla, eccetto forse qualche manovra più di copertura che di sostanza per venire incontro agli scompensi che si stanno già creando sul sociale. Sarebbe clamoroso, perché vorrebbe dire infischiarsene completamente del messaggio arrivato dagli elettori che hanno fortemente punito gli irrealistici provvedimenti ecologisti dell’ultima Commissione. Ma l’ipotesi è fortemente in campo.
Così come è in campo la Francia sull’Antitrust. Quale Francia, verrebbe da dire, visto che rispetto a tutte queste prospettive resta forte l’incognita rappresentata dal prossimo voto del 30 giugno e 7 luglio, che potrebbe scombinare tutti i piani. Parigi però sul dossier concorrenza c’è. E se l’Antitrust va in mano agli uomini di Macron per l’Italia sarebbero guai. Un antipasto di quello che potrebbe succedere l’abbiamo gustato per circa un anno sulla partita Ita-Lufthansa. La Verità ha di recente fatto un conto dei danni provocati da un anno di immobilismo rispetto a un’operazione che si era chiusa a maggio del 2023 e che a dir la verità non è stata ancora liberata dalla Dgcomp di Margrethe Vestager: circa 300 milioni di euro, tra slot lasciati al mercato, mancata programmazione estiva e accordi saltati con le altre compagnie. Dietro alle continue richieste (soprattutto quelle sull’intercontinentale sono sembrate pretestuose) dell’Antitrust sembra ci fosse anche la volontà di Air France di far saltare l’affare.
Ita-Lufthansa a parte, l’Antitrust è centrale, e quanto sia cruciale lo dimostra l’attesa spasmodica che ha accompagnato per esempio il sì alla separazione della rete Tim, arrivato solo dopo le rassicurazioni del fondo Kkr, o il placet all’uso delle risorse di Stato per l’ex Ilva che qualcuno in Europa considera aiuti di Stato.
Infine, la prima ministra estone Kaja Kallas, il nome più chiacchierato: indicata come futuro Alto Rappresentante dell’Ue nel nuovo pacchetto di assegnazione dei vertici. Il problema è la sua posizione molto dura sulla Russia. E il fatto che l’Estonia sia uno dei maggiori donatori militari pro capite verso Kiev. Qui non si tratta di essere putiniani o strenui difensori dell’Ucraina. Le perplessità nascono dalla consapevolezza che il percorso che porta alla pace deve per forza di cose passare per il dialogo.
Una nomina del genere facilita le trattative o accentua lo scontro?
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