La consacrazione dell’intesa tra Partito democratico e Movimento 5 stelle che parte dalla Capitale e passa per la Regione Lazio comincia a produrre incarichi. Grazie al patto giallorosso sono tornati in pista due personaggi che sembravano essere usciti dai giri politici che contano. Il primo è l’avvocato Pieremilio Sammarco, 53 anni, professore universitario, consigliori e mentore di Virginia Raggi, nonché titolare dello studio a Prati che aveva accolto Virginia per il suo praticantato da avvocato e dal quale passò pure Cesare Previti (ragion per cui veniva guardato in cagnesco dai pentastellati romani duri e puri). La Raggi l’aveva pure indicato per il Cda di Ama, ma l’operazione sfumò. Il secondo è Carlo Cotticelli, ex tesoriere del Pd romano che lasciò il partito ai tempi di Mafia Capitale e approdò alla Link University del ministro scudocrociato Vincenzo Scotti, dove è finito nel mirino della Procura di Firenze perché, stando all’accusa, i poliziotti iscritti al Siulp passavano a pieni voti esami che non avevano mai sostenuto. I due sono appena stati designati quali membri del Consiglio direttivo dell’ente regionale laziale di diritto pubblico denominato Riserva naturale Lago di Vico. Un parco naturale sul quale la Regione amministrata da Nicola Zingaretti sembra puntare non poco, visto che a Ronciglione, piccolo comune di 8.500 abitanti, sono arrivati oltre 3 milioni di euro di fondi regionali per la realizzazione di aree sportive attrezzate all’interno di luoghi di proprietà pubblica. E che per l’inaugurazione di un hub gestito da giovani il governatore si è presentato personalmente. L’ente è stato istituito con una legge regionale nel 1982 e comprendeva inizialmente solo il territorio del comune di Caprarola. Nel 2008 la riserva è stata ampliata, includendo anche il versante del lago ricadente sotto la giurisdizione del Comune di Ronciglione. Il bando che riguarda i due neoconsiglieri è stato pubblicato nel 2018. Una commissione del consiglio regionale, dopo aver convocato le organizzazioni agricole e ambientaliste, nel 2019 ha valutato i profili. E l’altro giorno il presidente del consiglio regionale Marco Vincenzi ha ratificato le nomine. Nell’atto viene precisato che l’avviso pubblico del 2018 «non si configura come di tipo concorsuale o para-concorsuale, dal momento che non è prevista una selezione o una valutazione comparativa degli stessi candidati». La valutazione, però, è andata avanti per tre anni, per il «solo riscontro delle competenze ed esperienze in loro possesso». D’altra parte il curriculum di entrambi i designati non è riassumibile in una paginetta. Il 13 gennaio l’istruttoria è arrivata quasi al fotofinish. Con il decreto firmato da Vincenzi i due aspiranti consiglieri direttivi sono «designati». Manca la firma di Zingaretti per il «successivo atto di nomina». Ma il documento è finito subito sul Bur e sul sito web del Consiglio regionale. Pertanto ci saranno i soliti canonici 60 giorni per eventuali ricorsi al Tar. I giochi però sono chiusi. E sanciscono un patto d’acciaio tra dem e pentastellati. Segno che quello che era stato definito un «laboratorio politico» nella Capitale si è trasformato subito in una macchina rodata che passa per la spartizione delle poltrone. «L’accordo Pd-M5s, già nei fatti in Regione Lazio, sta superando ogni limite di decenza», denuncia Laura Corrotti, consigliere regionale della Lega in Regione, «occupando ogni posto con un accordo blindato che include non solo la Regione ma anche il Comune di Roma con la Raggi in prima linea». Secondo Corrotti, «la nomina di Sammarco, suo docente all’università e poi suo datore di lavoro, è la dimostrazione di come proprio l’ex sindaco sia partecipante attivo di questo accordo che include anche l’ex tesoriere Pd, già indagato».
La sinistra ricominci da Zaia. Si potrebbe anche finire qui, con una vignetta, l'analisi della pittoresca sbornia piddina dopo una vittoria di cartapesta che Nicola Zingaretti si è intestato un minuto dopo la chiusura delle urne grazie ad alcune suggestioni da prima Repubblica.
Per esultare, il mondo dem più numerosi media compiacenti hanno l'assoluto bisogno di guardare al Veneto e far notare con libidine il trionfo del governatore uscente. In chiave centrodestra dilagante? Certo che no, non avrebbe senso. In chiave anti Matteo Salvini, come se Luca Zaia fosse improvvisamente un leader del progressismo modaiolo. Non l'alter ego ma l'alter Lega. Trovatine da luna park.
Meglio puntare i fari sul presunto Veneto fratricida che sul 15-5 nazionale (nel 2015 le regioni rosse erano 15 e quelle azzurre tre); meglio distrarsi con gli slogan che osservare andarsene anche le Marche da mezzo secolo feudo di sinistra; meglio parlare di voto disgiunto decisivo che osservare il crollo della Babele giallorossa in Liguria, dove l'alleanza organica ha portato all'epocale batosta. Nel giorno delle suggestioni può anche capitare che un segretario contento di non essere stato cacciato di casa dica: «Usciamo da forza trainante del Paese», «Siamo il primo partito d'Italia». Frasi possibili nel mondo analogico delle favole, un po' più difficili da digerire nella realtà iperconnessa, con i numeri davanti agli occhi 24 ore su 24.
Questi numeri parlano più di un pentito di mafia, spiegano molto se non tutto. E fanno comprendere a chiunque che i fuochi d'artificio di Zingaretti servono solo come arma di distrazione di massa.
Eccoli i numeri primi attorno ai quali ragionare senza sproloquiare: sono quelli degli scranni, dei seggi, dei luoghi deputati ad appoggiare i glutei. E per il Pd è difficile continuare la festa mobile perché di seggi ce ne sono molti meno. Toscana -2 (erano 24 e sono 22). Campania -7 (erano 15 e sono 8). Liguria -1 (erano 7 e sono 6). Marche -8 (erano 15 e sono 7). Veneto -2 (erano 8 e sono 6). Puglia +3 (erano 13 e sono 16). Totale seggi persi 17, un risultato che non meriterebbe il boato ma il silenzio. Eppure. Eppure Zingaretti è gaio perché le sue aspettative erano quelle d'una Caporetto che non è avvenuta: la Toscana ha retto esattamente come fece l'Emilia Romagna, dove la proposta politica del centrosinistra era egualmente modesta ma la chiamata alle armi antifa, come ultima spiaggia, funziona sempre. Eppure è contento perché gli alleati del Movimento 5 stelle sono andati perfino peggio, letteralmente scomparendo dai territori dove a malapena riescono ad arrivare al 10% di media. Al Nord non pervenuti come da tradizione, in Veneto con il 2,7% nessun grillino entra in Consiglio regionale. E questo sarebbe il trionfo della coalizione giallorossa.
Sconfitta camuffabile da pareggino in casa con il centrodestra, sorpasso dei pentastellati nel peso specifico della coalizione governativa: ce n'è a sufficienza per Zingaretti, che stappa acqua minerale e, parlando di «stagione delle riforme», tende a perpetuare il suo immobilismo. Secondo solo a quello di Giuseppe Conte. Il segretario sa che in realtà si è trattato di un passo falso, quei seggi in meno sono un campanello d'allarme non secondario. E a questo se ne aggiunge un altro: i due governatori rieletti, Michele Emiliano e Vincenzo De Luca, sono solo formalmente legati al Pd. La battuta di un giornalista durante la Maratona Mentana è illuminante: «De Luca non aveva bisogno di combattere la destra, ce l'aveva già all'interno».
Le incrostazioni geologiche della politica in Magna Grecia contano e pesano. Lo conferma l'esultanza di Clemente Mastella (le truppe mastellate erano già decisive ai tempi di Ciriaco De Mita) tornato a essere l'ago della bilancia con Noi campani per De Luca. Dopo avere occupato la scena multando Salvini da sindaco di Benevento, ieri ha detto: «La mia lista ha fatto il boom, al Sud c'è voglia di centro. Io, De Mita e i renziani insieme arriviamo al 15%». È un centrosinistra imbarazzante per Zingaretti, che incassa il risultato e guarda altrove. Non a Bari, dove le logiche di apparentamento di Emiliano sono simili se non più ardite.
Per trovare un raggio di luce naturale e non al neon, il segretario deve guardare il volto terreo di Matteo Renzi. Vale a dire lo sconfitto principale, mister 2% inchiodato alla sua chiassosa irrilevanza. In Veneto, regione la cui mappa è stata appesa al muro del Nazareno, Italia viva ha preso lo 0,48% dimostrando di non avere ancora toccato il fondo. Prefisso telefonico che potrebbe indurre l'ex premier a liquidare la ditta e tornare all'ovile. Andrea Orlando, supportando la fittizia stagione delle riforme, ha commentato: «Siamo capaci anche noi di farle, dentro il Pd i riformisti sono più del 2-3%», girando il coltello nella piaga renziana.
«Si apre la fase del fare e della concretezza, c'è la necessità del rilancio di una nuova agenda di governo», ripete Zingaretti davanti a ogni microfono. «Il Pd torna primo partito dove si vota», vagheggia senza pensare ai seggi persi ma forse a un rimpasto da imporre a Conte. Ce ne sono di due tipi: uno light con l'addio ai disastri Lucia Azzolina e Alfonso Bonafede. L'altro politicamente più interessante, con Zingaretti medesimo a Palazzo Chigi e Luigi Di Maio vicepremier. Nel delirio della vittoria finta c'è chi lo sta proponendo in casa dem. Nel Pd non c'è come perdere colpi per chiedere tutto.
A introdurre ai piani alti della Regione Lazio la Internazionale biolife Srl, una delle ditte coinvolte nel mascherina-gate, è stato un imprenditore in disgrazia imputato per bancarotta fraudolenta, poi sostituito da un altro condannato per lo stesso reato. Fatto sta che alla ditta, che aveva ricevuto una commessa da 27 milioni di euro (a fronte di un fatturato - nel 2017 - di 272.000 euro e un utile di 1.000), è stato revocato l'affidamento dopo un sequestro di 147.940 camici impermeabili ordinato dalla Procura di Taranto.
Gli investigatori hanno cercato di ricostruire la strada tramite la quale la Biolife sia arrivata alla corte del governatore Nicola Zingaretti.
Carmelo Tulumello, l'ex comandante della polizia municipale di Rieti che da capo della Protezione civile del Lazio ha firmato con le imprese gli accordi che in alcuni casi puzzano di truffa, sentito a verbale dalla Guardia di finanza il 5 giugno 2020 sostiene che la Biolife sarebbe stata «segnalata» dalla Direzione salute e integrazione sociosanitaria. E in modo specifico, verbalizza, «dalla dottoressa Lorella Lombardozzi». Il capo della Protezione civile esibisce anche della documentazione. E i finanzieri ne danno atto. Poi spiega: «Sulla scorta di due proposte d'acquisto emesse dalla Internazionale Biolife rispettivamente in data 27 marzo 2020 (3 milioni di mascherine chirurgiche e 3 milioni di FfP2) e in data 29 marzo 2020 (1 milione di camici e 1 milione di tute protettive) l'Agenzia regionale Protezione civile ha emesso, in data 27 e 30 marzo 2020 (in piena emergenza ndr), i rispettivi affidamenti per euro 10.800.000 e 14.000.000 di euro». E infine ha spiegato che «a oggi la società ha consegnato unicamente 45.000 camici. Dette consegne sono state effettuate negli ultimi tre giorni per 15.000 camici al giorno, come da bolle che vi consegno. Al riguardo vi consegno anche uno dei camici ricevuti per eventuali accertamenti che riterrete opportuno eseguire». La Biolife, stando a quanto ha spiegato Tulumello, ha incassato tramite due bonifici 2.160.000 euro e 2.800.000 euro «quali acconti del 20 per cento relativi ai due affidamenti». Lo stesso giorno (5 giugno 2020) viene sentita Lorella Lombardozzi, nella sua qualità di dirigente del settore Area farmaci della Regione Lazio. E salta fuori una nuova pista. A indicare la Biolife, secondo Lombardozzi, sarebbe stato il suo capo, Renato Botti, manager milanese che in passato è stato uomo di fiducia di Roberto Formigoni e di don Verzè e che è stato nominato commissario della Sanità laziale appena Zingaretti si è seduto sulla poltrona da governatore.
Ecco la versione della Lombardozzi: «Durante i primi giorni dell'emergenza sanitaria comunicavo al mio direttore Renato Botti la forte criticità per la mancanza di mascherine di ogni tipo da distribuire alle strutture sanitarie. Il dottor Botti mi informava che era stato contattato da tal Dario Roscioli come persona in grado di fornire dispositivi medici per la Protezione civile della Regione Lazio, lasciandomi il suo numero telefonico con l'invìto di contattarlo». Per gli aspetti contrattuali, però, specifica Lombardozzi, «interessai immediatamente il dottor Tulumello». Non risulta che Botti sia stato sentito. O, almeno, il suo verbale non è presente negli atti che La Verità ha potuto consultare. Nelle carte dell'inchiesta di Taranto, però, sono state versate le proposte della Biolife arrivate via fax e anche sul cellulare della Lombardozzi.
Ieri abbiamo provato a contattare più volte Roscioli, l'uomo che avrebbe fatto da ponte con il direttore generale della sanità laziale, ma senza fortuna.
Su Internet che nel 2013 Roscioli, membro di una nota famiglia romana di albergatori, è stato arrestato per una presunta frode fiscale nel settore dell'hôtellerie da 150 milioni di euro effettuata attraverso due società fallite. Rimesso quasi subito in libertà, Roscioli, assistito dall'avvocato Cesare Gai (lo stesso che assiste - ma sembra che si tratti di una coincidenza - i vertici della Ecotech, altra ditta implicata nel mascherina-gate laziale), è riuscito a dimostrare che una delle due società non era realmente andata in rovina. A quel punto sono cadute buona parte delle accuse. Resta imputato (in primo grado) per il crac della Forimi Italia agriturismo Srl, di cui Roscioli non è mai stato amministratore, ma è detentore ancora del 3 per cento delle quote. La società è fallita nel 2012 e apparteneva per il 48 per cento alla Roscioli consulting (di proprietà di altri sei membri della famiglia) e per il restante 49 alla Cows and victory resort limited.
Alla Biolife commentano: «Roscioli? È lui che ha messo in contatto la Regione con Antonio Formaro e Francesco Oliverio. Ha tante conoscenze, ma è solo un commerciale, non ha mai avuto quote dell'azienda».
Formaro sino al 31 luglio 2020 possedeva il 45 per cento della ditta e c'era lui quando è stata presa la commessa. Secondo il quotidiano Domani, in alcuni atti depositati alla Procura di Roma, è inquadrato così: «I dati investigativi e giudiziari raccolti a suo carico mostrano un significativo spessore criminale, abituali frequentazioni con pregiudicati per gravi reati anche associativi di traffico internazionale di droga ed economico finanziari». Oliverio, classe 1980, invece, avrebbe «connessioni» con «affiliati al clan Belforte della camorra casertana e uomini legati a cosa nostra di Catania».
Il procuratore di Roma Michele Prestipino ci spiega: «Per una parte dell'inchiesta di cui parliamo c'è stata una discovery, essendo state disposte delle perquisizioni. Quei virgolettati provengono da indicazioni contenute in una nota inviata alla Procura di Roma dalla Direzione nazionale antimafia nell'ambito delle funzioni di coordinamento e sulle quali sono in corso approfondimenti investigativi. Si tratta, insomma, di una attività d'impulso, che va verificata».
Oliverio è indicato nelle carte in possesso della Verità come «responsabile commerciale» della Biolife. Gli investigatori annotano che sarebbe «irreperibile». Negli atti viene descritto anche come «referente» della società «nei rapporti con l'Agenzia regionale Protezione civile del Lazio». Proprio come dichiarato da Lombardozzi, che ha spiegato pure quando è avvenuto il turnover: «Lo stesso Roscioli, nel periodo di Pasqua (che ricadeva il 12 aprile ndr), mi comunicò che per ragioni personali non era più disponibile e, nel contempo, mi comunicava il nominativo e il numero di telefono di tale Francesco Oliverio quale persona che lo avrebbe sostituito per le problematiche connesse alla mancata fornitura dei dispositivi medici che nel frattempo si erano aggiudicati».
Nel casellario giudiziale di Oliverio risultano due sentenze: una a 2 mesi di reclusione con multa da 200 euro del 17 febbraio 2017, emessa dal Tribunale monocratico di Roma, per appropriazione indebita (per fatti commessi a Roma nel 2011) e divenuta irrevocabile il 22 maggio 2017; e una a 2 anni di reclusione emessa dalla Corte d'appello di Roma (irrevocabile) l'11 febbraio 2019 a conferma della sentenza di primo grado per bancarotta fraudolenta. Con il secondo giudizio, Oliverio ha riportato anche l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità a esercitare uffici direttivi di qualsiasi impresa per dieci anni.
Nicola Zingaretti alla fine schiera il suo partito per il sì al referendum, e ottiene un voto quasi bulgaro: 188 sì, 13 no. Ma è un consenso sotto cui si nasconde un escamotage tecnico (chi non votava dava silenzio-assenso) e un sentimento più profondo. È stata una giornata lunga e incerta - malgrado le apparenze - quella in cui il Pd ha bevuto l'amaro calice, con un voto di disciplina che potrebbe lasciare alle sue spalle strascichi. A 13 giorni dal referendum, Nicola Zingaretti cerca di raccogliere tutte le anime del suo partito a favore del quesito sul taglio dei parlamentari: trova sofferenza, mal di pancia, e difficoltà. Alcuni, tra i dissidenti sfumano la loro posizione nel corso del dibattito: è il caso di Matteo Orfini, ex presidente del partito. E di Dario Franceschini, capo delegazione al governo, che si esercita in uno dei suoi equilibrismi dialettici: un intervento problematico, ma un voto di lealtà al leader. Il punto, che stava dietro questo sentimento è che diversi sondaggi - nelle ultime ore - dicono che il fronte del No è in crescita, e che tenta un elettorato trasversale, stanco dell'antipolitica, e desideroso di smarcarsi dalla più classica battaglia di bandiera grillina.
Nel Pd questo stato d'animo sarebbe condiviso addirittura da un elettore su due. Il che per il governo è una bella grana. Perché se i dem avessero scelto di dare indicazione esplicita di voto per il No, l'alleanza giallorossa sarebbe stata automaticamente a rischio. Anche perché in queste ultime ore dal M5s - a sua volta preoccupato per la tenuta dell'alleato - erano arrivati segnali espliciti di fastidio, come quello di Paola Taverna: «Dal Pd ci aspettiamo un Sì netto, altrimenti dovremmo pensare che sia stato tradito il patto fondante del governo Conte».
Facile a dirsi, difficile a farsi. Contrari apertamente - e da giorni - sono rimasti, anche nel dibattito di ieri, uomini come Gianni Cuperlo, leader della sinistra interna, e Luigi Zanda (l'ex tesoriere) o Rosy Bindi (forse la figura più forte tra gli ex popolari). Come fare per salvare capre e cavoli? «Propongo il Sì», aveva detto il segretario durante la relazione di apertura della Direzione, ieri mattina. Zingaretti aveva spiegato che in caso di vittoria del No il governo «non cadrebbe», ma aveva anche marcato le differenze sulle ragioni del voto del partito rispetto a quelle portate avanti dal Movimento 5 stelle per vincere la sua battaglia. Un tentativo di trovare un equilibrio, anche ricorrendo all'escamotage di un voto separato (uno sulla relazione, e l'altro sul referendum) in modo da consentire a quelli del No di approvare la linea smarcandosi sul taglio.
Secondo Zingaretti, per il Pd il Sì non sarebbe quindi una questione di risparmio di costi («motivazioni banali»), quanto un modo per arginare «l'inarrestabile vento del populismo» e, soprattutto, far seguire «altre riforme compensative» alla riduzione delle poltrone. Per questo il segretario aveva anche lanciato la «raccolta firme per il bicameralismo differenziato», ipotesi messa in campo da Luciano Violante (altro «malpancista» redento) in accoppiata al via libera per una proposta di legge di iniziativa popolare. «La faccio mia», ha aggiunto Zingaretti: «Sarà un modo, pur con scelte diverse che ci saranno, di unire il partito». Al termine della direzione del Pd viene posto ai voti per via telematica il testo, e la relazione del segretario. La linea passa, con un voto misto in presenza e da remoto. Ma oltre ai nomi già citati si registrano le dissociazioni di dirigenti come Sesa Amici, l'ex ministro Barbara Pollastrini, Tommaso Nannicini, il capo delegazione del Pd a Strasburgo Brando Benifei. Dice l'orfiniano Francesco Verdicci: «Si affronta questo taglio con un tatticismo esasperato pur di blindare l'alleanza strategica coi 5 stelle, mentre invece questo voto è uno spartiacque che riguarda la nostra identità e cultura politica». L'ordine del giorno approvato ha un tono solenne che cerca di mascherare ogni dissidio: «Il Partito democratico condivise, nel programma posto alla base del secondo governo Conte, la proposta di riduzione del numero dei parlamentari, ponendo come condizioni essenziali l'adeguamento dei regolamenti parlamentari e delle norme costituzionali e la necessaria riforma del sistema elettorale». E aggiunge: «La discussione tra le forze politiche che compongono la maggioranza ha solo ora, dopo i mesi di lockdown, prodotto un testo base unitario per la Legge elettorale che, grazie al lavoro ed all'iniziativa del segretario e dei presidenti dei gruppi parlamentari, sarà in discussione, insieme alle modifiche costituzionali nelle prossime settimane». Ma soprattutto: «La nostra iniziativa ha, dunque, prodotto i risultati tangibili necessari ad accompagnare la riforma costituzionale proposta, anche se purtroppo non nei tempi auspicati così come l'accordo di programma della maggioranza prevedeva con chiarezza». Il testo conteneva anche una mano tesa ai riottosi: «Si comprendono alcuni rilievi di chi ha maturato una posizione contraria al taglio dei parlamentari. Va ricordato che l'obiettivo della riduzione del numero dei parlamentari, nel quadro di un ammodernamento organico e coerente degli assetti istituzionali, è da tempo questione posta dal Pd e dal centrosinistra. Oggi riteniamo si siano chiariti i dubbi relativi alla volontà delle forze politiche di maggioranza di rispettare gli impegni».
Alla fine l'area Orfini non partecipa al voto, i perplessi si mettono in riga. Il Pd dice sì, e attende il voto delle urne sperando di riuscire a recuperare il suo popolo con le stesse argomentazioni con cui ha convinto quasi tutti i suoi dirigenti. Sarà meno facile.
- Mentre il segretario del Pd presenta il suoi «sette cantieri» e Sergio Mattarella parla di occasione unica, arriva lo stop: Frans Timmermans ricorda che i piani nazionali devono «riflettere gli orientamenti comunitari».
- Nel bilancio 73 miliardi per la pubblica amministrazione, contro i 22 per controllare l'immigrazione. La solidarietà sulla gestione delle frontiere esiste solo a parole
Lo speciale contiene due articoli
Dopo la giornata di ieri, c'è da chiedersi se Nicola Zingaretti, segretario del Pd, e Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione Ue, abbiano avuto altre occasioni di incontro dopo il 24 maggio 2019, quando abbracciandosi chiusero la campagna per le elezioni europee. A giudicare dalle parole usate da Timmermans sul Recovery fund nell'intervista alla Stampa di ieri, pare proprio che il dialogo si sia interrotto. Altrimenti non avremmo potuto riscontrare, a distanza di poche ore l'uno dall'altro, posizioni così sideralmente distanti a proposito del Recovery fund (ufficialmente Next generation Eu).
Il copione recitato ieri da Zingaretti e dall'olandese non è poi così diverso da quello che va in scena ormai da qualche settimana: in Italia si sogna, e in Europa si sta ai fatti e ai documenti.
Forse ancora nervoso per aver perso la corsa alla presidenza Ue, Timmermans dapprima ha usato toni imperativi: «I piani nazionali per il Recovery fund vanno presentati molto in fretta e devono riflettere gli orientamenti europei per i quali sono stati definiti. La Commissione sarà ferma e chiara nel controllare che si vada nella giusta direzione». Poi ha aggiunto, ove mai qualcuno non avesse compreso, di auspicare che «il governo italiano insista nel percorso di riforme necessario già prima della pandemia e rispetti gli impegni che ha preso sinora». E, per essere definitivamente convincente, ha pure posato sul tavolo la pistola, affermando che «quando le cose andranno meglio, la Bce comprerà meno titoli e il Patto di stabilità tornerà stringente». Per quanto riguarda il debito italiano, ha rimarcato, «molto dipende dalla velocità, dalla direzione e dalla determinazione del governo e degli investitori privati».
Per i nostri lettori, nulla di nuovo. È esattamente quanto andiamo ripetendo dallo scorso 21 luglio: i fondi Ue hanno un ben preciso vincolo di destinazione e la Commissione avrà un ruolo decisivo nel verificare la conformità dei piani nazionali alle linee guida prefissate. L'utilizzo di quei fondi sarà severamente condizionato dal rispetto di condizioni (le solite riforme strutturali) che potrebbero essere molto dannose per il nostro Paese e, qualora l'Italia si azzardi a deviare dalla retta via indicata da Bruxelles, c'è sempre la Bce che potrebbe far volteggiare il manganello dello spread. In ogni caso - in contrasto con le parole di Paolo Gentiloni di qualche giorno fa, che predicavano prudenza sulla sua reintroduzione, dopo i disastri del 2012 - c'è sempre il Patto di stabilità pronto a rientrare in vigore. Roba da far rimpiangere il tedesco Wolfgang Schäuble, in quanto a rudezza dei modi.
L'aggressività verbale dell'olandese potrebbe trovare spiegazione nella situazione di relativa difficoltà in cui versa il suo Paese, che registra il livello di debito privato tra i più alti in Europa ed è da anni sotto il tiro (innocuo) della Commissione a causa delle pratiche fiscali aggressive che ne fanno un semi paradiso fiscale nel cuore del continente. Poiché da quell'orecchio l'Olanda non ci sente, allora la miglior difesa è l'attacco, cioè ricordare gli inadempimenti degli altri, peraltro tutti da verificare, anziché quelli propri, su cui c'è invece cristallina certezza.
Quando Zingaretti ha mostrato davanti alle telecamere la proposta del suo partito per i fondi europei, lo stridore tra le due linee espositive ci è sembrato evidente. Il segretario Pd ha enunciato i titoli di «sette cantieri» (infrastrutture, produttività e innovazione, economia e cura, scuola e formazione, lotta alle diseguaglianze) la cui genericità e mancanza di focalizzazione, rispetto alle linee guida tracciate da Bruxelles, lasciano intendere come egli abbia ancora poco chiaro che non ci sarà consentito toccare palla o quasi. I piani «devono riflettere gli orientamenti europei» e non, come sarebbe invece auspicabile, gli specifici fabbisogni di un Paese che viene da 25 anni di distruttivo avanzo primario del bilancio statale, è assieme alla Grecia un'area a rischio sismico e reca ancora nel proprio tessuto produttivo le ferite inferte dalla sciagurata stretta di bilancio del 2012, che perfino Gentiloni ha definito un errore.
«Non dobbiamo mettere indietro le lancette dell'orologio, vogliamo utilizzare questa opportunità per costruire e puntare a un nuovo modello italiano», ha sottolineato Zingaretti. Condivisibile, se non fosse per il decisivo dettaglio che esiste un unico modello europeo e a quello bisogna uniformarsi.
Constatiamo con rammarico che il presidente Sergio Mattarella, rappresentante dell'unità nazionale, sembra anch'egli appiattito su una posizione acritica, visto che ha parlato di «una occasione unica e forse irripetibile di disporre di risorse consistenti per compiere riforme strutturali in grado non solo di consentire l'uscita dalla crisi ma di assicurare prosperità e benessere alle future generazioni».
Ci permettiamo di obiettare al presidente che, se si vuole puntare a un modello italiano, la soluzione è finanziarlo con soldi italiani e con condizioni dettate dalle nostre istituzioni democraticamente elette, non da burocrati chiusi a Palazzo Berlaymont. L'Italia può farcela.
Più soldi per i burocrati europei
L'Europa è la protagonista del Forum Ambrosetti di Cernobbio. Solidarietà, collaborazione, nuova era sono le espressioni che più ricorrono negli interventi dei big della politica e dell'economia, riuniti come consuetudine sul lago di Como per fare il punto sulle prospettive del Paese. Una colata di melassa zuccherosa su quanto è efficace il bazooka messo in campo da Bruxelles per combattere la crisi del Covid. Nessuno vuol ricordare quando all'inizio della pandemia, il capo dello Stato, Sergio Mattarella, richiamava l'Europa alla solidarietà e a non porre ostacoli mentre da Bruxelles non arrivava la risposta necessaria. Acqua passata. Ma tutti soprattutto fanno finta di non accorgersi quanto stridano le dichiarazioni entusiastiche su una presunta nuova era dell'Europa con le strategie delineate dal bilancio settennale della Ue. Numeri, non opinioni. Da questo emerge la vecchia politica di Bruxelles poco attenta ai cambiamenti e alle priorità degli Stati membri e molto autoreferenziale.
Innanzitutto emerge che nemmeno il Covid è riuscito a scalfire il vecchio vizio di destinare sempre più risorse alla burocrazia. La pubblica amministrazione europea, alla faccia della crisi della pandemia, riceve più del doppio di quanto è destinato alle gestione dell'immigrazione e alla sicurezza. Alla faccia della crisi economica e dell'aumento dei flussi migratori dall'Africa. Alla macchina burocratica sono riservati 73,1 miliardi, ben 10 miliardi in più rispetto al precedente bilancio (61,6 miliardi). Alla voce «Migrazione e gestione delle frontiere», che si occupa di diritto di asilo e gestione appunto delle frontiere esterne, ne vanno solo 22,67, mentre per le politiche comuni di difesa, compresa quella interna degli impianti nucleari, vanno 13,19 miliardi. Entrambe le voci valgono 35,86 miliardi, cioè contano meno del costo dei burocrati di Bruxelles.
A Cernobbio si è fatto spesso riferimento alla politica verde, a un'Europa capace di mettere l'ecosostenibilità al centro della sua agenda e quindi al valore della ricerca. Allora torniamo a verificare quanto in realtà pensa di fare Bruxelles su questi fronti, sempre numeri alla mano.
Per i programmi Horizon Eu, piani ambiziosi dedicati alla ricerca scientifica e all'innovazione, i fondi stanziati sono diminuiti del 13,8%, come fa notare il report di Truenumbers. Eppure la Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen a maggio aveva sollecitato un maggiore impegno. La voce «Mercato unico, innovazione e agenda digitale» è un gran calderone che riunisce i programmi per la digitalizzazione, che avrebbero sicuramente meritato una posta di bilancio a parte, il piano spaziale, le dogane, gli interventi per aumentare la competitività delle imprese e misure varie a favore delle aziende. Per digitale e innovazione il budget destina 132,78 miliardi validi per il settennato 2021-2027.
E siccome a Cernobbio si è fatto un gran parlare anche del Recovery fund, vediamo che proprio sul tema strategico dell'innovazione e della ricerca scientifica, due politiche in grado davvero di dare una sterzata di modernità al nostro sistema produttivo, ci sono solo 10,6 miliardi. Briciole.
Il termine «verde» è rimbalzato nelle dichiarazioni del Forum Ambrosetti ma il bilancio europeo, anche su questo tema, non è del tutto all'altezza di tale attenzione. Sono stati stanziati 356,37 miliardi che vanno non solo alla difesa dell'ambiente e alle politiche climatiche ma anche all'agricoltura e alla pesca. Il bilancio 2014-2020 prevedeva 399,6 miliardi. Durante la discussione del budget per i prossimi sette anni sono riemerse le critiche sull'eccessivo spazio dato all'agricoltura. La politica estera dell'Europa, in cui rientrano le iniziative umanitarie, riceve 40 miliardi in più nel bilancio, pari a 98,42 miliardi. Circa 20 miliardi in più di quanto il budget destina alla burocrazia comunitaria.
Il Recovery fund dedica poca attenzione all'innovazione, al digitale, e alle politiche di sostenibilità, che invece sono stati presenti negli interventi di Cernobbio. Complessivamente circa 28 miliardi di cui 10,6 alla digitalizzazione e 17,5 alle strategie per gestore i cambiamenti climatici. Come dire che c'è un gap tra gli elogi all'Europa e quello che effettivamente ha pianificato di fare.






