Pestaggi e torture venivano immortalati e diffusi sui social. Un’organizzazione spietata, che non si limitava a far entrare gli immigrati illegalmente in Europa dalla Rotta balcanica. Li trattava come prigionieri di un racket senza scrupoli. E poteva contare su una cellula operativa che dal cuore della Puglia organizzava la traversata tramite il Friuli Venezia Giulia per poi consegnarli a chi li avrebbe trasferiti verso Nord. Gli investigatori del Ros, il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, hanno individuato e arrestato due afgani che avevano scelto l’area metropolitana barese per mimetizzarsi. Sono accusati di associazione a delinquere finalizzata alla tratta di esseri umani. I due, secondo gli investigatori, non erano semplici scafisti o passeur, ma meccanismi di un ingranaggio più grande: «Un’organizzazione transnazionale» che avrebbe gestito la rotta illegale dei clandestini verso l’Europa, con destinazione il Belgio e il Regno Unito. I viaggi, definiti «infernali» dagli immigrati, avrebbero garantito un business milionario all’organizzazione. Chi non poteva pagare ulteriori somme veniva brutalmente picchiato. Alcuni sarebbero stati addirittura abbandonati in condizioni critiche. I criminali documentavano tutto: botte, umiliazioni, abusi. Il tutto per convincere chi si era affidato a loro a sborsare ancora. Per rivendicare la loro forza, i video finivano principalmente su TikTok, tant’è che l’inchiesta è stata ribattezzata dagli investigatori «Douyin», ovvero il nome cinese del social. Si andava avanti senza cibo né acqua per giorni, stipati nei camion come bestie. Con lunghi percorsi a piedi. L’inchiesta è partita da Anversa, in Belgio. E gli arresti di Bari sono solo un tassello di un’operazione più ampia. La Direzione distrettuale antimafia di Bari ha accolto l’ordine europeo trasmesso dall’autorità giudiziaria belga, messo in moto dall’Europol, che ha coordinato la polizia federale belga, la National crime agency britannica, i carabinieri del Ros e altre forze investigative europee. Il coinvolgimento di più Paesi, viene sottolineato dagli investigatori, testimonierebbe l’ampiezza del sistema. Misure cautelari sono state eseguite contemporaneamente anche in Belgio e nel Regno Unito. In Italia, i Ros hanno operato con il supporto dei carabinieri di Bari e di Gorizia, insieme alla squadra operativa del tredicesimo reggimento Friuli Venezia Giulia. L’organizzazione si muoveva grazie a una logistica ben collaudata: uomini di fiducia piazzati nei punti strategici, documenti falsi prodotti su richiesta, mezzi di trasporto attrezzati per il traffico illecito. E poi il sistema di comunicazione criptata, che permetteva ai criminali di coordinare le operazioni senza lasciare tracce evidenti. Mentre il denaro scorreva veloce attraverso i money transfer, rendendo più difficile il tracciamento dei flussi. E non è finita. Secondo l’Operational task force, il gruppo (sul quale è ancora concentrata l’attività investigativa, che non si è conclusa con gli arresti), attivo principalmente in Serbia e Bosnia Erzegovina, potrebbe contare anche su nuclei «armati organizzati». «Lo Stato non molla di un centimetro di fronte a pericolosi criminali», ha commentato la senatrice di Fratelli d’Italia Francesca Tubetti, che ha aggiunto: «Le sfide che abbiamo di fronte impongono attenzione massima nella tutela delle nostre frontiere. Il governo Meloni ha fornito e continuerà a fornire risposte chiare e concrete».
«Tra i due litiganti il terzo gioca». È una leggera variante del più noto proverbio «Tra i due litiganti il terzo gode». Il godimento è qualcosa che si può fare anche da una poltrona. Giocare invece vuol dire prendere la situazione in mano, diventarne protagonista. La notte di sabato 11 marzo 2011, due terroristi, Amjad e Hakim, sono entrati nell’abitazione della famiglia Fogel mentre dormiva. I Fogel erano una famiglia di ebrei coloni in Cisgiordania. I coloni sono cittadini israeliani, straordinariamente bravi come agricoltori, che hanno reso fertilissime le terre della Cisgiordania, hanno creato 135.000 posti di lavoro per i palestinesi con cui convivono, hanno introdotto nuove colture e l’irrigazione goccia a goccia che ha trasformato sterpaglie desolate in una delle terre più rigogliose del pianeta. I coloni occupano gli spazi che, se fossero liberi dalla loro presenza, potrebbero essere occupati dalle rampe di missili qassam in grado di sparare su Israele, che poi risponde al fuoco e tutti si fanno male. I coloni di Gaza davano lavoro a 35.000 palestinesi e finché c’erano loro non si poteva sparare missili qassam su Israele e si evitavano guerre. Poi Israele, per dimostrare la sua buona volontà, strappò via i coloni da Gaza nella speranza che questo gesto avrebbe portato la pace. Ha portato la guerra permanente.
Se guardate una cartina scoprirete che l’islam si estende dal Marocco all’Indonesia. Ovunque sia presente al di fuori della penisola arabica ci è arrivato col ferro, col fuoco, col dolore e cancellando le civiltà precedenti. Il popolo d’Israele ha riconquistato la terra dei suoi padri. I primi sionisti l’hanno acquistata pagandola a prezzi altissimi e quando è loro stata assegnata, nel 1948, una piccola area di 19.000 km² senza una goccia di petrolio, sono stati attaccati in tre guerre che avrebbero dovuto essere di sterminio. La famiglia Fogel era una famiglia di coloni, una famiglia quindi che secondo la vulgata, palestinese e non solo, ha rubato la terra ai palestinesi. La Turchia ha rubato la terra agli armeni e li ha massacrati. Il Bangladesh ha rubato la terra agli induisti: 10 milioni di profughi induisti dal Bangladesh. Eppure nessun armeno e nessun induista si sognerebbe di pugnalare a morte per rappresaglia dei bambini islamici.
Prima Amjad ha pugnalato a morte Yoav, 10 anni, e insieme a Hakim hanno pugnalato e strangolato Elad, 4 anni. Poi sono andati nella stanza dei genitori, assassinandoli a pugnalate. Dopo che erano andati via, Amjad tornò nella casa per cercare un’arma, sentì il pianto della piccola Hadas di tre mesi, e trucidò anche lei con una coltellata alla testa. Entrambi appartengono al Fronte popolare per la liberazione della Palestina. Sono stati condannati a 130 anni di prigione. Sono un esempio tra i tanti di cosiddetti «attivisti e resistenti, prigionieri politici palestinesi». Addirittura il nome di questi due è stato inserito nelle liste di coloro che Hamas chiede di liberare in cambio di donne e bambini israeliani ostaggio da più di un anno. Nel caso siamo certi che in Occidente la loro liberazione sarà salutata da Greta Thumberg e gli altri proPal come l’uscita dal carcere di Ghandi. Anche il 7 ottobre molti bambini israeliani sono stati uccisi, ma ci è stato spiegato che coloro che li hanno assassinati sono resistenti o attivisti, e che i bambini erano colpevoli perché «hanno rubato la terra». Ora l’assassinio di civili è qui tra noi: persone accoltellate sui treni da islamici immigrati oppure cittadini di prima, seconda, terza generazione che gridano Allah Akbar, persone schiacciate come vermi ai mercatini non si contano più. Ora anche l’accoltellamento dei bambini è qui da noi. Tre bambine cristiane sono state accoltellate sei mesi fa a Southport con ferocia da un diciassettenne di origine cristiana, convertito all’islam. Si è trattato di un islamico che ha applicato la regola del Corano di uccidere infedeli ovunque si trovino. Lo Stato inglese ha reagito con pene durissime, fino all’imprigionamento, contro chi ha osato dire la verità: è stato un atto islamico. In Germania un bambino è stato accoltellato da un islamico di origine afghana. Il sangue è ancora caldo sui marciapiedi e già ci stanno assicurando che è il gesto isolato di uno squilibrato.
A cosa serve la guerra permanente dei palestinesi contro gli israeliani? A fare accettare la più atroce brutalità islamica come normale, così che poi possa scatenarsi contro di noi. Per i palestinesi si è inaugurata la regola che se uno uccide un bambino a sangue freddo è perché è molto arrabbiato perché «gli hanno rubato la terra». Questa regola ora vale sempre. Quindi le atrocità islamiche sono in realtà la reazione a una qualche ingiustizia subita: non è stato integrato, è ancora offeso dal colonialismo finito decenni fa, la ragazza lo ha piantato, altro... Gli ebrei usciti dai lager non hanno accoltellato i bambini tedeschi. E gli armeni non fanno saltare bus scolastici turchi. Loro quindi non hanno subito ingiustizie. Il vittimismo palestinese è la chiave di volta per l’invasione islamica dell’Europa. Il nome Mohammed e già il nome più scelto tra i nuovi nati, ma non basta: occorre legalizzare e banalizzare anche la brutalità più atroce.
Da dove nasce l’odio contro Israele? Abbiamo un odio di sinistra che accomuna gli israeliani ai colonizzatori, comunque occidentali quindi colpevoli a prescindere, e i palestinesi al buon selvaggio, quindi innocenti a prescindere, ma quello che è sconvolgente è l’odio cristiano. Anche ottimi blog cattolici stanno ritrasmettendo le notizie false che arrivano dalla Striscia o dai siti gestiti dall’Iran: decine di migliaia di bambini di Gaza uccisi, il 7 ottobre nessuno stupro denunciato, nessun bambino israeliano decapitato o anche solo ucciso. Il cristianesimo è la religione di Cristo. Cristo appartiene alla tribù di Giuda, il leone di Giuda, è della stirpe di Davide che è il re ebreo che ha fondato Gerusalemme. Il cristianesimo è una religione ebraica. L’ebraismo e il cristianesimo sono due religioni ognuna blasfema rispetto all’altra. Secondo l’ebraismo Gesù Cristo e la Madonna erano due tizi qualsiasi, forse nemmeno troppo raccomandabili, e questo per noi è blasfemia. Secondo l’ebraismo il fatto che noi consideriamo Gesù Cristo figlio di Dio è blasfemia. Gli ebrei quindi sono potenzialmente nemici dei cristiani. I cristiani quindi sono potenzialmente nemici degli ebrei, ma noi, al contrario degli ebrei, abbiamo avuto l’ordine preciso di amare i nostri nemici e abbiamo avuto l’ordine preciso di evangelizzare cioè convertire coloro che non credono in Cristo. Non abbiamo mai eseguito questo ordine. Questo ha causato il disastro. Gli ebrei sono stati odiati per l’accusa di deicidio. Gesù Cristo ha detto: «Signore perdona loro che non sanno quello che fanno»: il deicidio è stato perdonato. Cristo non può essere contraddetto, mai. Chi accusa gli ebrei di deicidio, contraddice Cristo. Noi avevamo il compito di amare gli ebrei. Questo avrebbe permesso la loro conversione. Noi abbiamo scatenato persecuzioni che li hanno allontanati dalla conversione, rendendola impossibile. Non mi converto alla religione che ha preso a calci me, mio padre e mio figlio. Gli ebrei non hanno amato noi e hanno creato sistemi ideologici anticristiani, principalmente il marxismo e tutti i suoi derivati.
Il disastro è successo in Arabia. Tra i due litiganti, i cristiani che sostengono che il Messia sia Cristo e gli ebrei che sostengono che non sia Lui, il gioco lo ha preso Maometto affermando di essere lui il Messia. Maometto ha creato una religione che ordina di asservire duramente o uccidere gli infedeli, prima quelli del sabato, gli ebrei, e poi quelli della domenica, noi. Quindi ora ristabiliamo la decenza e la giustizia, e riconquistiamo la nostra terra, che ritorni una terra dove nessuna bambina, ma anche nessun uomo di 60 anni, possa essere accoltellato.
I fatti sono di una semplicità brutale e disarmante: don Massimo Biancalani, il prete toscano pro migranti che, nella chiesa di Vicofaro, a Pistoia, gestisce un vero e proprio centro d’accoglienza, ospita un clandestino; questo qua, un liberiano di 32 anni uscito un mese fa dal Centro per i rimpatri di Potenza, ne approfitta per portare una ragazza in canonica e abusarne. Azione e conseguenza: il sacerdote apre le porte a un irregolare, lui prova a violentare una donna. Lineare, no?
Eppure, su Facebook, il parroco se l’è presa con la stampa locale, in particolare Il Tirreno, che per primo ha dato notizia dell’aggressione, consumatasi alle 3 di notte di martedì scorso. «Macchina del fango», ha sbottato. «Fake news». E perché? Perché l’assalto non si è mai verificato? Perché la storia era inventata di sana pianta? Macché. Era solo un problema di prospettiva: «La vera notizia», ha scritto il religioso, «è: due ragazzi ospiti di Vicofaro salvano una ragazza». Se dovessimo scomodare Nietzsche, insomma, concluderemmo che non esistono fatti, ma solo interpretazioni.
In effetti, in quegli istanti concitati, le grida della giovane, già denudata e immobilizzata sul materasso, avevano richiamato altri africani alloggiati nella struttura. Uno di loro, minacciando con una lametta il malintenzionato, è riuscito a impedirgli di completare lo stupro. Poi, la ragazza è fuggita, ha chiamato il 112, così gli agenti hanno identificato e arrestato il responsabile, grazie a un selfie che si era scattato lui stesso, poche ore prima. Quando aveva abbordato la poveretta in stazione a Montecatini. Lei stava cercando il fidanzato, non lo aveva trovato e, con somma imprudenza, si era messa a fumare hashish e a bere alcolici con il liberiano. Costui l’aveva circuita, convincendola a salire sul convoglio e a seguirlo fino all’abitazione del parroco pistoiese, dove lo sbandato aveva un giaciglio.
Ci sarebbe tanto da dire sui giochi pericolosi di don Biancalani, la cui buona fede - sarebbe meglio definirla buonista - è stata tradita in diverse occasioni dagli amici africani. Come quando, nel 2020, un nigeriano fu pizzicato a nascondere eroina nel confessionale. Il prete stesso, nel 2023, è finito indagato per truffa e falso in atto pubblico: gli venivano contestati presunti contratti di lavoro fasulli, stipulati con quattro stranieri, al fine di ottenere i contributi Inps. Lo scorso giugno, gli è stata comminata un’ammenda da 100 euro, più simbolica che sostanziale, perché il sacerdote non aveva adempiuto integralmente a un’ordinanza del sindaco di Pistoia: in seguito ai controlli dell’Asl, il primo cittadino gli aveva commissionato opere di derattizzazione, di allontanamento dei piccioni attirati dai rifiuti e di sgombero del materiale accumulato davanti la parrocchia.
Tra le memorabili imprese del don, vanno ricordate la celeberrima giornata in piscina con i suoi ospiti, documentata dagli scatti degli africani con tanto di lingua di fuori, nonché l’invenzione della pizzeria del rifugiato, attivata per dare impiego a dodici giovani arrivati dal continente nero. Come foto profilo di uno dei suoi account Facebook, il sacerdote ha piazzato Carola Rackete, la capitana della Sea Watch che speronò una motovedetta della Finanza e ora siede all’Europarlamento. In questi giorni, il prete è impegnato in un’iniziativa di autentico altruismo: sta raccogliendo i fondi per riportare nel suo Paese natio la salma di un guineano di Vicofaro, Malang, morto per un malore il 18 novembre scorso. Non gli è mai venuto in mente che alcuni dei suoi fratelli potessero essere rimpatriati da vivi?
Lo strano concetto di carità di Biancalani, che evidentemente disconosce e disapplica le leggi italiane in materia di immigrazione, può condurre a conseguenze disastrose. Come gli abusi di martedì notte in canonica, perpetrati da un uomo che non aveva titolo per restare in Italia. Il sacerdote forse segue l’undicesimo comandamento del Papa sulle frontiere spalancate. E predica: «La vera religione è accogliere».
Ironia della sorte, venerdì 22, pochi giorni prima dello scempio in canonica, nella parrocchia di don Massimo si era svolto un incontro su «Femminicidi e uomini maltrattanti: come uscirne insieme?». Di sicuro, non dando un tetto al delinquente che andava rispedito in Liberia. E che invece è riuscito non solo a uscire dal Cpr lucano, ma pure ad andare a spasso per l’Italia. Se ne dovrebbe chiedere conto ai magistrati che convalidano i trattenimenti, così solerti nel difendere chi viene trasferito Albania. E pure alla sinistra impegnata contro la violenza di genere, purché a praticarla sia un maschio bianco eterosessuale. Ma chi ha difeso, ieri, l’invalido picchiato, rapinato e lasciato a terra semi-incosciente, in pieno centro a Corigliano Rossano, in Calabria, da un marocchino senza fissa dimora?
Per giustificare la sua decisione di intonare Bella ciao in chiesa, don Biancalani, nel 2019, si era messo a pontificare: «Noi cristiani siamo partigiani dell’umanità». Della quale dovrebbero far parte tanto i migranti, quanto le vittime dei loro crimini.
Una sentenza del Tribunale civile di Roma sulla vicenda della nave mercantile Asso 29, che il 2 luglio di sei anni fa riportò in Libia un carico di migranti salvati al largo di Tripoli, rischia di trasformarsi nell’ennesimo sgambetto al Piano Mattei del governo Meloni, progetto che punta a rafforzare la cooperazione con i Paesi nordafricani, Libia inclusa. La decisione, che condanna la presidenza del Consiglio, i ministeri della Difesa e dei Trasporti, il capitano della Asso 29 e la società armatrice Augusta offshore a risarcire cinque dei 150 naufraghi consegnati ai libici (due uomini e una coppia con un figlio, che al momento dei fatti aveva 2 anni, mentre la madre era incinta di otto mesi), rischia di avere conseguenze dirette o indirette sul piano internazionale e sulla politica migratoria italiana.
I fatti risalgono al 2 luglio 2018, quando i naufraghi furono intercettati da una motovedetta libica, la Zawia, già sovraccarica di migranti. La situazione si aggravò rapidamente con l’avaria della barca dei guardiacoste di Tripoli. Intervenne il mercantile Asso 29, coordinato dalla nave militare italiana Duilio (un cacciatorpediniere), per trainare l’imbarcazione fino a Tripoli, dove i naufraghi, stando alle testimonianze, furono detenuti e torturati in vari lager. Le autorità sotto accusa hanno sostenuto che erano stati i libici a coordinare le operazioni, ma i legali dei migranti hanno puntato il dito contro la Marina e i militari italiani presenti nel porto di Tripoli. E le accuse portate in aula dai cinque sopravvissuti hanno convinto il giudice Corrado Bile, che ha riconosciuto la legittimità della richiesta di risarcimento, stabilendo che l’area Sar non conferirebbe sovranità esclusiva allo Stato costiero (la Libia), ma obblighi al soccorso. Il comandante della nave, nel ragionamento del giudice, aveva quindi l’obbligo di portarli in un porto sicuro, escludendo che la Libia lo sia. La toga ha respinto anche la tesi che l’imbarco di un ufficiale libico sulla nave italiana avrebbe esentato il capitano della Asso 29 dalle sue responsabilità. Anzi, secondo le valutazioni riportante in sentenza, quell’ufficiale non avrebbe mai dovuto salire a bordo. E la presenza della Duilio avrebbe implicato un assenso alle operazioni, anche solo implicitamente. Sapendo che la destinazione era Tripoli, secondo il giudice, la Duilio avrebbe dovuto usare i suoi poteri di polizia per far condurre i naufraghi in un porto italiano. Invece, dopo lo sbarco nella capitale libica, i migranti sarebbero stati rinchiusi in centri di tortura come Tarik Al Sikka, Zintan, Tarik Al Matar e Gharyan. Il risarcimento è stato richiesto solo da cinque persone, quelle riuscite ad arrivare in Italia tramite programmi di reinsediamento, corridoi umanitari o attraversando di nuovo il mare. Sono tutti eritrei e hanno ottenuto la protezione internazionale. Per le altre persone rimaste in Libia è stato difficile validare le procure. Tuttavia, gli avvocati hanno fatto sapere che stanno lavorando per farle entrare legalmente in Italia e chiedere protezione.
I cinque ricorrenti hanno dichiarato di essere stati sottoposti a maltrattamenti e detenuti in condizioni igieniche estremamente precarie: «Eravamo 1.200 persone in uno spazio limitato. Alcuni morivano di tubercolosi. Il cibo non era mai sufficiente e non era scontato riuscire a mangiare. Riuscivamo a lavarci una volta a settimana. Dalle 19.00 in poi ci era proibito parlare. Se qualcuno contravveniva a quest’ordine veniva picchiato a bastonate, anche con colpi alla testa. I soldati libici, mentre eravamo in fila per prendere l’acqua, se ritenevano che qualcosa non stesse andando bene, ci picchiavano o, addirittura, ci portavano in isolamento». Il giudice Bile ha quindi stabilito che enti e società armatrice dovranno risarcire con 15.000 euro ciascuno i cinque sopravvissuti. La toga avrebbe ancorato le responsabilità a queste valutazioni: il ministero della Difesa (all’epoca guidato da Elisabetta Trenta) e il comandante della Duilio per la natura militare della nave; la presidenza del Consiglio dei ministri (il premier era Giuseppe Conte), per il suo ruolo apicale e di coordinamento della politica nazionale che porta a escludere un’estraneità dalla vicenda e quindi a rilevarne la responsabilità; il ministero dei Trasporti (guidato in quel momento da Danilo Toninelli) in quanto autorità sull’esecuzione della convenzione internazionale in tema di ricerca e il salvataggio marittimo adottata ad Amburgo nel 1979. La decisione apre la strada all’ingresso in Italia di chi è ancora bloccato in Libia e afferma che Tripoli non può essere considerato un Paese sicuro.
Inoltre, rischia di avere conseguenze dirette o indirette sul piano internazionale e sulla politica migratoria italiana. La Libia, pur con tutte le sue problematiche interne, rappresenta un alleato cruciale nella gestione dei flussi migratori. E i primi accordi risalgono ai tempi in cui il ministro dell’Interno era Marco Minniti, di certo non imputabile di simpatie a destra. Il Piano Mattei del governo Meloni si basa sulla cooperazione con i Paesi nordafricani per arginare l’immigrazione irregolare e garantire una gestione più ordinata e sicura dei flussi. E la sentenza di Bile sembra una mina piazzata in un punto preciso del Mediterraneo che complicherà la già difficile situazione migratoria. La pretesa che la Guardia costiera libica non possa intervenire in via esclusiva nella propria zona Sar e che i migranti recuperati debbano per forza raggiungere l’Italia. oltre a creare un precedente, potrebbe incentivare le partenze.
Alla fine la Commissione Affari Costituzionali della Camera è riuscita a terminare l’esame degli emendamenti.
Ci è voluto un robusto supplemento di sedute, ma alla fine la Commissione Affari Costituzionali della Camera è riuscita a terminare l’esame degli emendamenti del Dl migranti (che alcuni chiamano il “Cutro 2”) e dare il mandato per l’aula al relatore Francesco Michelotti, di Fratelli d’Italia. Il provvedimento, che scade il prossimo 4 dicembre, arriverà in aula domani, con due giorni di ritardo rispetto all’iniziale tabella di marcia a causa dell’ostruzionismo delle opposizioni. Fin dalla prima seduta, infatti, Pd, M5s e Avs avevano messo in atto il cosiddetto “filibustering”, consistente nel far prendere la parola su ogni emendamento tutti i deputati presenti in commissione, facendo loro impiegare tutto il tempo a disposizione. Come giustificazione a questa scelta, i gruppi di minoranza avevano opposto la richiesta al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi di venire a riferire sull’accordo con l’Albania per la realizzazione, da parte del nostro paese, di due centri per la permanenza dei migranti soccorsi in mare dalla autorità italiane.
Visti i tempi ristretti per la conversione del decreto (scade il prossimo 4 dicembre) e considerato che lo stesso deve essere ancora approvato dal Senato, è quasi certo che l’esecutivo domattina in aula a Montecitorio, al termine della discussione generale, porrà la questione di fiducia. Nel corso dell’esame in commissione del provvedimento sono state introdotte novità importanti, attraverso emendamenti e subemendamenti della maggioranza. Con un subemendamento presentato dal leghista Igor Iezzi e votato da tutto il centrodestra è salito da tre a cinque mesi il termine massimo per la permanenza un minore di età non inferiore ai 16 anni nei centri per adulti. Il subemendamento Iezzi interviene sul testo portando i "novanta giorni" del decreto varato dal governo Meloni, a 150 giorni. La nuova versione del testo recita infatti che i 90 giorni sono “prorogabili per un periodo massimo di ulteriori 60 giorni e comunque nei limiti delle risorse disponibili a legislazione vigente allo scopo destinate". L’altra novità riguarda i tempi massimi di permanenza nei centri di prima accoglienza per i minori non accompagnati, che salgono da 30 a 45 giorni.
Le modifiche al testo, coerentemente a tutto l’iter del provvedimento in commissione, hanno generato vivaci proteste tra maggioranza e opposizione. In particolare il Pd ha parlato di “propaganda sulla pelle dei minori”, mentre il centrodestra, attraverso il relatore, ha espresso la propria soddisfazione per il lavoro fatto, a dispetto dell’ostruzionismo.






