2024-06-29
Se non accogli i migranti sei obbligato a risarcirli
Condannati lo Stato italiano e la nave Asso 29 che aveva riportato dei naufraghi a Tripoli nel luglio 2018. La decisione può minare il Piano Mattei, incentivare le partenze e indebolire il nostro ruolo nel Mediterraneo.Una sentenza del Tribunale civile di Roma sulla vicenda della nave mercantile Asso 29, che il 2 luglio di sei anni fa riportò in Libia un carico di migranti salvati al largo di Tripoli, rischia di trasformarsi nell’ennesimo sgambetto al Piano Mattei del governo Meloni, progetto che punta a rafforzare la cooperazione con i Paesi nordafricani, Libia inclusa. La decisione, che condanna la presidenza del Consiglio, i ministeri della Difesa e dei Trasporti, il capitano della Asso 29 e la società armatrice Augusta offshore a risarcire cinque dei 150 naufraghi consegnati ai libici (due uomini e una coppia con un figlio, che al momento dei fatti aveva 2 anni, mentre la madre era incinta di otto mesi), rischia di avere conseguenze dirette o indirette sul piano internazionale e sulla politica migratoria italiana. I fatti risalgono al 2 luglio 2018, quando i naufraghi furono intercettati da una motovedetta libica, la Zawia, già sovraccarica di migranti. La situazione si aggravò rapidamente con l’avaria della barca dei guardiacoste di Tripoli. Intervenne il mercantile Asso 29, coordinato dalla nave militare italiana Duilio (un cacciatorpediniere), per trainare l’imbarcazione fino a Tripoli, dove i naufraghi, stando alle testimonianze, furono detenuti e torturati in vari lager. Le autorità sotto accusa hanno sostenuto che erano stati i libici a coordinare le operazioni, ma i legali dei migranti hanno puntato il dito contro la Marina e i militari italiani presenti nel porto di Tripoli. E le accuse portate in aula dai cinque sopravvissuti hanno convinto il giudice Corrado Bile, che ha riconosciuto la legittimità della richiesta di risarcimento, stabilendo che l’area Sar non conferirebbe sovranità esclusiva allo Stato costiero (la Libia), ma obblighi al soccorso. Il comandante della nave, nel ragionamento del giudice, aveva quindi l’obbligo di portarli in un porto sicuro, escludendo che la Libia lo sia. La toga ha respinto anche la tesi che l’imbarco di un ufficiale libico sulla nave italiana avrebbe esentato il capitano della Asso 29 dalle sue responsabilità. Anzi, secondo le valutazioni riportante in sentenza, quell’ufficiale non avrebbe mai dovuto salire a bordo. E la presenza della Duilio avrebbe implicato un assenso alle operazioni, anche solo implicitamente. Sapendo che la destinazione era Tripoli, secondo il giudice, la Duilio avrebbe dovuto usare i suoi poteri di polizia per far condurre i naufraghi in un porto italiano. Invece, dopo lo sbarco nella capitale libica, i migranti sarebbero stati rinchiusi in centri di tortura come Tarik Al Sikka, Zintan, Tarik Al Matar e Gharyan. Il risarcimento è stato richiesto solo da cinque persone, quelle riuscite ad arrivare in Italia tramite programmi di reinsediamento, corridoi umanitari o attraversando di nuovo il mare. Sono tutti eritrei e hanno ottenuto la protezione internazionale. Per le altre persone rimaste in Libia è stato difficile validare le procure. Tuttavia, gli avvocati hanno fatto sapere che stanno lavorando per farle entrare legalmente in Italia e chiedere protezione. I cinque ricorrenti hanno dichiarato di essere stati sottoposti a maltrattamenti e detenuti in condizioni igieniche estremamente precarie: «Eravamo 1.200 persone in uno spazio limitato. Alcuni morivano di tubercolosi. Il cibo non era mai sufficiente e non era scontato riuscire a mangiare. Riuscivamo a lavarci una volta a settimana. Dalle 19.00 in poi ci era proibito parlare. Se qualcuno contravveniva a quest’ordine veniva picchiato a bastonate, anche con colpi alla testa. I soldati libici, mentre eravamo in fila per prendere l’acqua, se ritenevano che qualcosa non stesse andando bene, ci picchiavano o, addirittura, ci portavano in isolamento». Il giudice Bile ha quindi stabilito che enti e società armatrice dovranno risarcire con 15.000 euro ciascuno i cinque sopravvissuti. La toga avrebbe ancorato le responsabilità a queste valutazioni: il ministero della Difesa (all’epoca guidato da Elisabetta Trenta) e il comandante della Duilio per la natura militare della nave; la presidenza del Consiglio dei ministri (il premier era Giuseppe Conte), per il suo ruolo apicale e di coordinamento della politica nazionale che porta a escludere un’estraneità dalla vicenda e quindi a rilevarne la responsabilità; il ministero dei Trasporti (guidato in quel momento da Danilo Toninelli) in quanto autorità sull’esecuzione della convenzione internazionale in tema di ricerca e il salvataggio marittimo adottata ad Amburgo nel 1979. La decisione apre la strada all’ingresso in Italia di chi è ancora bloccato in Libia e afferma che Tripoli non può essere considerato un Paese sicuro. Inoltre, rischia di avere conseguenze dirette o indirette sul piano internazionale e sulla politica migratoria italiana. La Libia, pur con tutte le sue problematiche interne, rappresenta un alleato cruciale nella gestione dei flussi migratori. E i primi accordi risalgono ai tempi in cui il ministro dell’Interno era Marco Minniti, di certo non imputabile di simpatie a destra. Il Piano Mattei del governo Meloni si basa sulla cooperazione con i Paesi nordafricani per arginare l’immigrazione irregolare e garantire una gestione più ordinata e sicura dei flussi. E la sentenza di Bile sembra una mina piazzata in un punto preciso del Mediterraneo che complicherà la già difficile situazione migratoria. La pretesa che la Guardia costiera libica non possa intervenire in via esclusiva nella propria zona Sar e che i migranti recuperati debbano per forza raggiungere l’Italia. oltre a creare un precedente, potrebbe incentivare le partenze.
Il giubileo Lgbt a Roma del settembre 2025 (Ansa)
Mario Venditti. Nel riquadro, da sinistra, Francesco Melosu e Antonio Scoppetta (Ansa)
Nel riquadro: Ferdinando Ametrano, ad di CheckSig (IStock)