Lunedì sera Franco Bernabè, ex numero uno di Acciaierie d’Italia scelto nel 2021 per salvare il destino dell’Ilva di Taranto, parlava dell’ultima inchiesta sui dossieraggi come un esempio di «grandissima sciatteria e mancanza di controlli». Forse non ricordava che tra i clienti della Equalize di Enrico Pazzali e Carmine Gallo, c’era proprio l’Ilva. Come racconta l’informativa dei Carabinieri del nucleo di Varese, infatti, «i rapporti con Ilva necessitano di uno specifico approfondimento e sono state registrate numerose «conversazioni circa i rapporti tra il gruppo e la società in amministrazione straordinaria». A quanto sostengono gli inquirenti, infatti, il rapporto tra il gruppo e la società metallurgica è tenuto da Vincenzo Meles, procuratore di Ilva Spa. È proprio Pazzali a riuscire a piazzare la piattaforma Beyond all’acciaieria di Taranto, grazie ai suoi rapporti con Vincenzo Falzarano, già dirigente in Eur Spa (dove Pazzali è stato ad dal 2015al 2020) e ora proprio in Ilva. La consulenza è di 17.800 euro. Ma ce ne sono molti altri. C’è Erg, che aveva contattato Equalize per quella storia di presunto insider trading da parte dei suoi dipendenti, un incarico che verrà a costare più di 117.000 euro. Il fondo Clessidra ha invece fatture per 154.000 euro. Heineken, 25000 euro. Banca Profilo invece ha speso 43,800 euro mentre Barilla si è fermata a 17000; Bennet: 4000. Gli affari vanno bene, anche perché in una conversazione tra Gallo e Pazzali, il secondo spiega al primo di bonificargli 51.000 euro sul proprio conto di Poste Italiane e 300.000 su quello di Intesa San Paolo per un totale di 351.500. I clienti sono i più disparati come le ricerche, tra cui quella sull’oro olimpico Marcell Jacobs. Secondo gli inquirenti i clienti si dividono in tre categorie. Chi è all’oscuro della natura dei dati contenuti nei dossier, chi non si interessa della natura dei dati ed accetta comunque il rischio ma anche chi è pienamente consapevoli dell’origine illecita del dato e che anzi li richiedono proprio per la loro delicatezza e affidabilità. Eni ha fatture per 377.000 euro. Il Cane a sei zampe aveva fatto ricorso a Equalize per un report sull’imprenditore Francesco Mazzagatti, imputato a Milano nel processo sul falso complotto che è derivato da quello principale su Eni-Nigeria. D’altra parte, Mazzagatti faceva parte della cricca di Piero Amara e Vincenzo Armanna. Eni aveva appunto commissionato un dossier che poi è stato depositato al processo sulla presunta tangente da 1 miliardo, dove tutti gli imputati sono stati assolti perché il fatto non sussiste. In quel dossier confezionato da Gallo e Calamucci emergeva come Mazzagatti fosse legato agli ambienti della criminalità organizzata tanto che si spiegava che la crescita del gruppo Napag si stava sviluppando grazie alle connivenze con ambienti della malavita calabrese. Mazzagatti aveva sporto querela contro il dossier, ma sia il tribunale di Terni sia quello di Milano avevano archiviato le accuse. Il direttore degli affari legali di Eni Stefano Speroni risulta indagato. Ieri la società, in una nota, ha ribadito «di non essere mai stata, e di non essere, in alcun modo al corrente di eventuali attività illecite condotte da Equalize a livello nazionale o internazionale». Poi «conferma di avere a suo tempo conferito a Equalize un incarico investigativo a supporto della propria strategia e difesa nell’ambito di diverse cause penali e civili [..]». Aggiunge anche che «non risultano sottratti o mancanti atti di Eni, altre informazioni riservate o commercialmente rilevanti, o effrazioni ai sistemi informatici della società». Durante le perquisizioni di ieri in via Pattari a MIlano, sede di Equalize, sarebbero stati trovati anche atti riservati di Eni.
- Uno dei protagonisti intercettato: «Contatti nell’intelligence». Ricerche sull’oligarca russo Viktor Kharitonin, con interessi in Italia e fedele a Vladimir Putin. Tentativi di comprare apparecchi di localizzazione scontati.
- Gli audit non hanno visto gli accessi illegali ai dati: perché? Giallo sul ruolo di due dipendenti dell’università dell’Essex
Lo speciale contiene due articoli
Si sarebbero spinti fino a intrecciare relazioni con l’intelligence, anche straniera, e a condurre le spiate fino in Russia. La rete di spionaggio, stando agli atti dell’inchiesta, si è rivelata più intricata e ramificata di quanto chiunque avrebbe potuto immaginare. Samuele Calamucci, ingegnere quarantacinquenne con un passato nel collettivo di Anonymous, per esempio, sembrerebbe tenere in pugno informazioni che potrebbero far tremare i piani alti. «Abbiamo contatti nei servizi segreti», si fa scappare in una conversazione intercettata. Poi aggiunge che la ramificazione delle relazioni potrebbe arrivare anche a «quelli deviati». E completa la frase: «Di quelli lì ti puoi fidare un po’ di meno, però li sentiamo, fanno chiacchiere, sono tutte una serie di informazioni ma dovrebbero diventare prove, siccome quando poi cresci, crei invidia, soprattutto negli stupidi... quelli che si fanno chiamare agenzie investigative». E racconta di «una volta che abbiamo fatto un report... che abbiamo fatto su un report dei servizi segreti... però lo fa uno che lo fa di mestiere la reportistica, dove dico, quei report là, per quello io voglio sempre scrivere un buon report». L’intento sarebbe quello di sfruttare ogni singola breccia per alimentare una macchina di potere sommerso. Il rischio, certo, esiste. E lui lo sa bene. «Un cialtrone finisce male prima o poi. Noi no. Noi abbiamo la fortuna di avere clienti top, clienti importanti». Un’ombra di vantata superiorità emerge dal tono.
Ma in questo mondo di ombre non c’è spazio per gli errori: se allegano pagine dello Sdi, il sistema informativo in uso alle forze di polizia, o estratti conto ai loro report, c’è il pericolo che il tutto si trasformi in un’arma a doppio taglio. E quando ci si muove sulla strada degli 007 il rischio è dietro l’angolo. Calamucci dovrebbe saperlo bene, visto che, tra sussurri e mezze frasi, racconta di aver avuto a che fare con le barbe finte in passato: «Mi buttavano nella cella con il terrorista, mi facevo crescere la barba o mi rasavo a seconda del posto...». Una traccia di queste relazioni negli atti c’è. Tra i 108.805 file, che spaziano dagli atti di polizia giudiziaria, agli atti amministrativi, c’erano perfino documenti classificati dall’Aisi, l’agenzia d’intelligence che si occupa di minaccia interna. Le pagine, marcate con quel timbro che racconta più di mille parole, «Riservato», si addentrano in argomenti delicati, come il terrorismo, con analisi di siti islamici e la raccolta di fatwa emesse dai influenti imam. Uno dei quali, nel documento riportato tra gli atti, critica la rincorsa all’armamento nucleare da parte delle grandi potenze allo scopo di utilizzarlo come strumento di terrore.
E di queste relazioni con il mondo dell’intelligence negli atti c’è una ulteriore passaggio. Secondo chi indaga, Calamucci avrebbe fatto una mini trasferta in città per «verificare la possibilità di acquistare a prezzo ribassato l’apparecchiatura per le localizzazioni». Secondo i pm «si tratta [...] di soggetti che godono di appoggi di alto livello, in vari ambienti, anche quello dei servizi segreti, pure stranieri, e che spesso promettono e si vantano di poter intervenire su indagini e processi, per bloccare iniziative giudiziarie». Il quadro che si delinea, insomma, è quello di un intreccio che trascende i confini nazionali, giungendo a coinvolgere intelligence straniere e spingendosi fino in Russia. Un gioco pericoloso. Non è un caso che Calamucci insista spesso sulla protezione dei dati informatici utilizzati dal gruppo Equalize per le attività illecite. Teme che il computer utilizzato anche fuori casa possa essere compromesso.
Del resto i bersagli che vengono scelti sono pezzi molto grossi. Gli inquirenti lo scoprono quando il braccio tecnico di Equalize, che si vanta di condividere ancora file con gli hacker di Anonymous, racconta a un collega di aver installato un’applicazione per la traduzione simultanea della lingua russa. Gli consentirebbe di realizzare un report relativo alla presenza di alcuni asset economici russi. La Procura ci metterà qualche mese a capire cosa ha in mente di fare Calamucci. Ma nel giugno del 2023 gli inquirenti lo intercettano mentre parla di fare approfondimento su un «russo» con interessi a Cortina d’Ampezzo. Ebbene secondo le indagini si potrebbe trattare dei cittadini russi\kazaki Viktor Kharitonin e Alexandrovich Toporov, impegnati in Italia nella costruzione di un hotel a Cortina d’Ampezzo e la gestione di svariati resort di lusso lungo la penisola. «Il pesce» su cui vuole mettere le mani Equalize è davvero grosso. E si capiscono le cautele dello stesso Calamucci. Viktor Kharitonin è stato socio e grande amico di Roman Abramovich, ma soprattutto è uno degli uomini più ricchi della Russia, considerato nel cerchio magico degli uomini di cui si fida il presidente Vladimir Putin. Ha anche la residenza a Pordenone e un patrimonio personale stimato in 1,3 miliardi di euro. Ha costruito la sua fortuna investendo nel settore farmaceutico, fondando proprio insieme con Abramovich la Pharmstandard. Nel 2018 il suo nome è stato inserito nel report del Congresso degli Stati Uniti sugli oligarchi, in vista delle sanzioni.
Proprio in quei mesi di ricerche di Equalize, Kharotonin era sui quotidiani europei per l’acquisto (e il salvataggio), tramite la sua Nr Holding, dell’aeroporto di Francoforte, nonostante la guerra tra Russia e Ucraina. All’epoca non era nella lista delle persone oggetto di sanzioni Ue e l’acquisizione fece molto rumore in Germania. Chissà Calamucci perché cercava informazioni su di lui.
Inchiesta sugli spioni. Un buco nei controlli apre alla pista inglese
Le migliaia di pagine dell’inchiesta milanese sulla rete di dossier attorno al nome di Enrico Pazzali e della sua Equalize dipingono tre differenti scenari di «spionaggio» abusivo. Il primo relativo ad aziende e mirato chiaramente a fatturare. Il secondo riconducibile a interessi politici e di controllo attorno alla sfera di potere dello stesso Pazzali. Il terzo, invece, appare immerso in una zona grigia. Al tempo stesso, sempre leggendo le pagine delle ordinanze, emergono tre filoni di «esfiltrazione» dei dati, come si dice in gergo tecnico. Il primo legato ad agenti o militari infedeli che entravano nelle rispettive banche dati di competenza. Il secondo legato ad attività palesi di hackeraggio o intrusione tramite trojan e il terzo molto più delicato e complesso. Si tratterebbe di una attività delegata a informatici che, per ragioni di incarichi pregressi o in corso, conoscevano bene l’infrastruttura digitale da violare.
Qui, dunque, sta l’elemento più spinoso. Soprattutto se in futuro si vorrà imparare qualcosa di concreto dalla lezione che deriva dalla «Equalize».
Secondo l’ordinanza, a collaborare con l’azienda milanese con sede a due passi dal Duomo sarebbero figure che in passato hanno gestito e manutenuto impianti digitali come quello del Ced, Centro elaborazione dati, che fornisce tutte le Forze di polizia italiane. È chiaro che accedendo in qualità di amministratori o manutentori hanno potuto bypassare tutti gli alert preposti. Non solo: avrebbero anche potuto mettere mano all’intera filiera di informazioni muovendosi in parallelo sui backup (duplicazione dei dati su supporti esterni per avere una copia di riserva) di sicurezza. Nessuno si sarebbe potuto accorgere dell’esfiltrazione perché non ve ne era tecnicamente traccia. Nella realtà, però, dovrebbe essere preposta una attività di audit mirata a controllare il lavoro dei controllori. Ed è proprio l’assenza di tracce di tale attività che avrebbe dovuto insospettire gli sceriffi dell’audit. Anche i tecnici informatici per accedere si «loggano», e il fatto stesso che non venisse registrata questa operazione avrebbe potuto accendere un dubbio. Un po’ come se si lasciasse un tassello vuoto nella lista progressiva degli accessi. Chi aveva il compito di controllare non ha chiesto conto dell’assenza di informazioni? Non si è preoccupato che in fase di preparazione del «salvagente» (in gergo: disaster recovery) il backup potesse essere portato al di fuori dell’Italia, come si evince dalla stessa ordinanza? Tutto domande che meritano risposte. Vale per la piattaforma Ced, citata sopra, ma anche per quella dello Sdi (Sistema di indagine) da cui sono stati sottratti oltre 52.000 file.
È chiaro che bisogna partire da qui e camminare a ritroso, così come sarà importante che l’inchiesta risponda a due grossi interrogativi attorno al nome di altrettante presunte collaboratrici di Equalize o di società correlate. Al tempo stesso dovrà spiegare che cosa ci sia sulla strada che porta all’università dell’Essex a Colchester, in Gran Bretagna.
I due nomi estremamente interessanti sono rispettivamente quello di Monica e Anna. Secondo gli inquirenti la prima potrebbe essere Monica Illsley, chief of staff dell’università inglese. La seconda sarebbe Anna Sergi, esperta analista di criminalità, anch’ella con incarico di professore, sempre a Colchester. Dalle conversazioni captate tra gli indagati la Illsley avrebbe un ruolo di primo piano per il celere accesso allo Sdi. La seconda, figlia di un celebre giornalista impegnato contro la ’ndragheta, si sarebbe occupata di analizzare le banche dati dei tribunali. Ovviamente, si tratta di accuse de relato. E come tali potenzialmente false. Gli inquirenti sembrano però prenderle sul serio, e a onor del vero gli stessi curriculum delle due analiste lascerebbero intendere che non siamo di fronte a due «scappate di casa», né a semplici prestanome. La Illsley ha avuto ruoli di peso nell’università e da oltre 20 anni svolge attività di coordinamento. Dal curriculum della Sergi visionato dalla Verità si evince un incarico stabile (con promozione nel 2018) a Colchester. Una serie di visiting fellow in Australia. Prima ancora incarichi a Cambridge, New York, Roehampton. E una prima attività da cui tutto nasce, presso Price waterhouse cooper a Milano. Gli inquirenti fanno notare che Pwc e Ibm hanno tra loro un link diretto e la seconda ha avuto un ruolo specifico nella creazione della banca dati Ced.
Ora, ci auguriamo che le due vengano liberate da ogni possibile accusa e che si tratti di millanteria. Resta però il tema di fondo. Le competenze per collaborare al sistema dossieristico ci sarebbero eccome. Ma, al di là dei due nomi in questione, la pista che porta all’estero non è certo da trascurare. Le informazioni sottratte dal gruppo della Equalize sono andate chiaramente a formare un data base autonomo e parallelo. Dove? Nell’ordinanza si citano la Gran Bretagna e la Lituania, Paese che con Londra ha stretti rapporti di natura diplomatica e non solo. Se effettivamente sono stati spostati i dati in sede di backup allora potremmo parlare di milioni di dati, non migliaia come indicato dagli inquirenti. Ora sono nella disponibilità di altre società estere? O di altre entità straniere? Se poi vogliamo tornare alla Illsley e alla Sergi, dalle carte degli inquirenti non emergono collegamenti diretti tra le due. Allora la domanda è: c’è un collegamento tra la Equalize e Colchester nell’Essex?
Per due settimane abbiamo discusso degli amori estivi del ministro Sangiuliano, dando voce a una donna che è spuntata all’improvviso e, approfittando dei social, ha lanciato una serie di accuse contro l’ex capo del dicastero della Cultura, senza risparmiare neppure il presidente del Consiglio.
Tuttavia, proprio mentre gli occhi dei giornalisti e di conseguenza dell’opinione pubblica erano concentrati su Maria Rosaria Boccia e le sue oscure minacce contro l’uomo che l’ha portata agli onori delle cronache, un paio di questioni sono state sottovalutate dalla grande stampa. La prima è quella che riguarda una sorta di centrale di dossieraggio in attività all’ombra della Direzione nazionale antimafia. Un tenente della Guardia di Finanza distaccato a pieno servizio presso l’organismo di polizia che indaga sulle associazioni a delinquere, invece di fare indagini trascorreva il suo tempo a passare ai raggi X la vita di esponenti politici e personalità pubbliche, girando poi le informazioni raccolte ai giornalisti del Domani, ovvero al quotidiano fondato da Carlo De Benedetti. In qualche caso addirittura erano i cronisti a sollecitare le notizie, attivando la ricerca del funzionario di polizia giudiziaria. Nel mirino, guarda caso, c’erano uomini di centrodestra, in particolare della Lega, ma anche prelati, e in qualche caso a sollecitare le ricerche, illecite, erano pure uomini appartenenti ai servizi segreti. Di certo fatti del genere, che rischiano di inquinare la vita politica, sono assai più gravi delle scampagnate del ministro Sangiuliano con al seguito la signora Maria Rosaria Boccia. E invece i giornaloni hanno dedicato più articoli al primo (e alla prima) che al cosiddetto caso Striano. Nonostante il procuratore di Perugia abbia depositato in commissione Antimafia una valanga di documenti, tutti secretati perché una fuga di notizie potrebbe provocare un terremoto politico-istituzionale, la grande stampa ha preferito occuparsi delle notti brave di Sangiuliano invece che delle oscure trame di agenti e pistaioli (così chiamavamo i cronisti addetti ai complotti negli anni Settanta). Chissà perché.
I giornaloni hanno manifestato analogo disinteresse anche per un’altra vicenda di cui, come sopra, noi della Verità ci siamo occupati con impegno. Ricordate? Prima delle vacanze, un’esponente del Consiglio superiore della magistratura venne accusata di aver spifferato notizie riservate a un magistrato sotto provvedimento disciplinare. Per questo ci fu una protesta nei suoi confronti da parte dei colleghi, i quali minacciarono di uscire dall’aula se lei avesse partecipato a una riunione in cui l’organismo del Csm doveva nominare il nuovo procuratore di Catania. Adesso la consigliera presunta «chiacchierona» rilancia, accusando il Sistema non solo di averle impedito di votare per il capo dei pm della città siciliana, ma di voler nascondere ben altro, ovvero una strategia per insabbiare indagini e inquinare inchieste. Insomma, una bomba atomica.
Però, invece di discutere di cosa c’è dietro il caso Striano e il caso Natoli (questo il nome della consigliera che denuncia il marcio del Consiglio superiore della magistratura), sui giornali la maggior parte delle pagine dedicate alla politica è ancora occupata dal gossip che riguarda Gennaro Sangiuliano e la sua bella.
Io ovviamente non credo ai complotti, però non posso fare a meno di domandarmi perché i giornaloni sembrino più interessati alle sottane di Maria Rosaria Boccia che alle trame dentro al Csm e a quelle di presunti investigatori infedeli. Capisco che una bella donna come la bionda di Pompei faccia girare la testa. Ma mi domando se oltre a far perdere la capoccia a Sangiuliano, l’esperta in grandi eventi l’abbia fatta perdere anche ai cronisti. A meno che la Boccia sia solo una clamorosa operazione di distrazione di massa. Che in tal caso è perfettamente riuscita.
Il malloppone dell’inchiesta di Perugia sui dossier è stato consegnato ieri mattina alla Commissione parlamentare antimafia: oltre 3.000 pagine fitte sul cortocircuito all’interno di una delle articolazioni più delicate della Procura nazionale antimafia, quella che valuta le Segnalazioni di operazioni sospette (Sos) e che ha accesso a importanti banche dati. La discovery, determinata dal capo della Procura perugina Raffaele Cantone dopo l’ultimo scoop della Verità, sebbene il magistrato abbia precisato che l’indagine non è ancora conclusa e che gli accertamenti sono tuttora in corso, riguarda tutti i documenti raccolti dagli inquirenti fino al rigetto della richiesta di misure cautelari avanzata nei confronti dell’ex magistrato della Procura nazionale antimafia Antonio Laudati (nel frattempo andato in pensione) e dell’ufficiale della Guardia di finanza Pasquale Striano (trasferito in un ufficio senza incarichi operativi). Restano fuori dalla documentazione messa a disposizione della presidente Chiara Colosimo, che per garantire riservatezza ha fatto numerare le copie,
le ulteriori attività del Nucleo di polizia valutaria della Guardia di finanza, dalle quali sarebbero emersi ulteriori accessi abusivi. Cantone, dopo aver trasmesso la documentazione al Tribunale del Riesame con l’impugnazione del rigetto, ha inviato lo stesso incartamento alla Commissione antimafia, che già da tempo lo aveva richiesto. Nella nella nota d’accompagnamento, però, ha rimarcato che si tratta di documentazione riservata. Durante un’audizione in Commissione antimafia, avvenuta lo scorso marzo, il procuratore di Perugia aveva evidenziato la vastità dell’indagine, definita «mostruosa» e «inquietante», paragonandola a un «verminaio». Una grossa fetta dell’inchiesta è concentrata sul movente: perché Striano ha effettuato quegli accessi abusivi? E per conto di chi? L’ipotesi è che non ci sia un unico mandante, ma piuttosto diverse sollecitazioni provenienti non solo da giornalisti, ma anche da «soggetti privati» o «organici all’interno di organismi istituzionali». Un aspetto che si evince dall’ordinanza del gip. Come anche il numero degli accessi abusivi: ben 172 tra politici, personaggi del mondo dello spettacolo, ministri, imprenditori e calciatori. Motivo per cui da ieri la caccia dei cronisti, incuriositi da chi si nasconda dietro alle due definizioni usate nell’ordinanza, si è intensificata. Accessi abusivi a parte, nel corso delle attività che il gip riconosce come difensive, ci sarebbero dei contatti di Laudati con esponenti delle istituzioni e ministri. Tra i quali Matteo Piantedosi.
Tuttavia ci sarebbero ancora molti accessi che i magistrati non sono riusciti a spiegare. Le indagini hanno finora delineato un quadro in cui Striano avrebbe agito per fini personali e non sarebbe stato manovrato da qualcuno.
La ricostruzione è resa ulteriormente complessa dal fatto che le indagini tecniche sono state avviate dalla Procura di Perugia quando gli accessi abusivi erano già stati compiuti da diverso tempo. Ma ora che i documenti sono approdati in Commissione antimafia c’è un primo scoglio da affrontare: «Il vicepresidente è Federico Cafiero De Raho, ex magistrato grillino, che guidava la Procura nazionale antimafia all’epoca dei fatti», ha sottolineato il presidente dei senatori di Forza Italia Maurizio Gasparri, che ha precisato: «Non è indagato, non è accusato di nulla, però lui era lì quando succedevano queste cose». Non solo era lì, ma all’epoca ha anche elogiato Striano per le «notevoli doti di riservatezza e di lealtà» e per la sua condotta «irreprensibile». E ora Gasparri si chiede: «Può rimanere a fare il vicepresidente della Commissione antimafia, organo che deve fare delle verifiche anche sul suo operato? Questo non è possibile. Quindi il grillino Cafiero De Raho deve lasciare la Commissione perché non può indagare su un’attività che lo ha visto comunque coinvolto. Non voglio arrivare a conclusioni, ma c’è un profilo di opportunità chiaro. Fuori Cafiero De Raho dall’Antimafia». Dalla barricata pentastellata hanno subito risposto: «Fango su Cafiero De Raho». Secondo il capogruppo M5s in commissione Antimafia Luigi Nave e le vicepresidenti dei gruppi 5 stelle alla Camera e al Senato Vittoria Baldino e Alessandra Maiorino, si tratterebbe di un attacco «strumentale», che additerebbe il loro collega come «complice o corresponsabile». L’interpretazione autentica dei fatti in chiave grillina è che «in realtà» Cafiero de Raho «è vittima e parte offesa». Alla Procura nazionale antimafia, secondo i grillini, «arrivavano dall’Uif (l’Ufficio di informazione finanziaria di Bankitalia, ndr), con un meccanismo automatico di selezione, esclusivamente le segnalazioni per operazioni sospette riconducibili a mafia e terrorismo. La Procura nazionale antimafia non aveva accesso a tutte le segnalazioni per operazioni sospette. Gli accessi abusivi alle Sos non riguardanti mafia o terrorismo contestati a Striano sono avvenuti presso la postazione del Nucleo speciale di polizia valutaria e, quindi, al di fuori della sfera di controllo della Procura nazionale antimafia». Infine cercano di scaricare le responsabilità sul vice di Cafiero De Raho: «All’interno della Procura nazionale antimafia la responsabilità del gruppo «Ricerche», composto da oltre 60 appartenenti alla polizia giudiziaria, era affidata al procuratore aggiunto Giovanni Russo. Mentre L’Ufficio segnalazioni per operazioni sospette era condotto dal sostituto procuratore nazionale Antonio Laudati». Una posizione centrista è invece quella del capogruppo dem in Commissione antimafia Walter Verini, che invita a «evitare di usare un luogo istituzionale come la Commissione antimafia per speculazioni e strumentalizzazioni politiche, delle quali vediamo segni inquietanti». Con la discovery degli atti innescata da Cantone la Commissione antimafia potrà valutare le presunte incompatibilità di De Raho segnalate da Gasparri. E forse è questo il motivo che ha spinto la presidente Colosimo a non rendere subito disponibili gli atti ai commissari.
Il mondo della lotta alla criminalità organizzata in questo periodo è scosso da più parti. Dopo l’inchiesta sul tenente della Guardia di finanza Pasquale Striano, accusato di ipotetici dossieraggi realizzati insieme con il sostituto procuratore della Procura nazionale antimafia (Pna) Antonio Laudati (ai due sono contestati i reati di accesso abusivo a banca dati informatica e falso), sta montando una seconda indagine che coinvolge uno dei principali investigatori che per anni si sono occupati di inchieste sull’eversione di destra, sulle stragi degli anni bui della Repubblica (dalla bresciana Piazza della Loggia alla milanese Piazza Fontana) sino agli attacchi della mafia allo Stato nel biennio 1992-1993.
L’inchiesta riguarda il colonnello dei carabinieri Massimo Giraudo, classe 1963, accusato di comportamenti decisamente inappropriati (che al momento sarebbero stati rubricati come stalking dalla Procura di Roma) da parte di Donatella Di Rosa, nota al grande pubblico come Lady Golpe. La signora, sessantacinquenne di origini lombarde, negli anni ’90, su indicazione del marito, il colonnello Aldo Michittu, aveva inventato un presunto colpo di Stato per giustificare un giro miliardario di ipotetiche mazzette. Per questo è stata condannata a 8 anni di carcere per calunnia. Nel 2022, la donna, ormai libera, è stata avvicinata da Giraudo, il quale avrebbe cercato di convincerla a testimoniare nel processo su Piazza della Loggia, convinto che la Di Rosa, in passato in rapporti con ambienti di estrema destra di Brescia e dintorni, potesse avere nuove notizie su mandanti ed esecutori. Per convincerla le avrebbe assicurato protezione da parte dell’Antimafia e la possibilità di dimostrare al mondo che la condanna che aveva subito era ingiusta. Ma, tra un verbale e un altro, l’uomo ha iniziato a fare alla donna pesanti avance, a proporre cene arabe in deshabillé, week end in località romantiche e a inviare materiale fotografico e video (in parte visionato dalla Verità) incredibilmente esplicito. Al contrario di quanto sostenuto da una collega niente di quello che gira normalmente negli uffici (ci auguriamo). Si tratta di immagini e messaggi che testimoniano perversioni e forse patologie. Foto e frasi che documentano dolorose sessioni di autoerotismo che entrano a pieno titolo nello spettro del masochismo.
Ieri alle 15 la donna si è presentata in Procura dove è stata convocata come «persona offesa informata sui fatti» per rendere dichiarazioni sulla denuncia presentata presso una stazione dei carabinieri a febbraio e di cui abbiamo riportato lunghi passaggi il 5 marzo scorso.
La stesura del verbale di una pagina è durata circa mezz’ora. La Di Rosa è stata sentita dal procuratore aggiunto Giuseppe Cascini e dal pm Pantaleo Polifemo, magistrati del cosiddetto gruppo violenze della Procura. La donna, assistita dall’avvocato Arturo Ceccherini, ha confermato di voler consegnare il proprio cellulare con le prove delle accuse contenute nella querela. I magistrati adesso devono decidere se sequestrare pure quello dell’indagato, anche se potrebbe trattarsi di un telefonino di servizio di un investigatore con una rete di conoscenze di altissimo livello.
Intanto c’è l’accordo per effettuare accertamenti tecnici non ripetibili sul cellulare della denunciante alla presenza dei consulenti di tutte le parti coinvolte nella vicenda.
Verrà così acquisita la copia delle chat di interesse. È facilmente prevedibile l’imbarazzo che tali conversazioni potrebbero causare.
Anche perché e il Movimento 5 stelle ha provato a inserire Giraudo nella lista dei suoi consulenti per la commissione Antimafia sul tema delle stragi del 1992-1993. La richiesta non è stata accolta, anche se l’investigatore è molto stimato dal senatore grillino Roberto Scarpinato, con cui ha collaborato a lungo.
Il breve incontro è stato registrato e i magistrati hanno fatto capire di ritenere la questione delle immagini hot quella più rilevante.
La Di Rosa ci tiene a precisare con La Verità: «Per me la cosa più importante è un’altra ed è il motivo per cui ho accettato di ricevere quelle schifezze: mi aveva detto che ero innocente e che lo avrebbe dimostrato». Per la presunta parte offesa ci troveremmo di fronte al condizionamento di un testimone.
La presunta vittima ha un obiettivo: «Dovrò far capire alla Procura che della parte sessuale mi interessa relativamente. Per me è importante che sia chiaro che un ufficiale dei carabinieri può schiacciare una teste, anche se si tratta di Lady Golpe, può subornarla, perché lui è una potenza nel suo ambiente. Quando colpimmo Franco Monticone (accusato di essere un golpista, ndr), che era un generale, nessuno ebbe i riguardi che adesso tutti sembrano avere per Giraudo. Perché tutta questa protezione? Le cose giuste che ha fatto resteranno, le investigazioni dove ha messo del suo crolleranno, ma non sarà colpa di altri, sarà solo colpa sua». Che cos’altro le hanno detto gli inquirenti? «Di non cancellare nulla dal telefono. Anche ciò che non riguarda Giraudo. Mi hanno spiegato che le mie conversazioni personali non verranno lette o estratte. Mi hanno rassicurato anche su miei possibili scatti intimi. Io li ho tranquillizzati: “Giraudo mi aveva chiesto di mandargli foto e filmati, ma mai lo avrei fatto nella vita. Anche perché, sono una signora di 65 anni. Non scherziamo».
In Procura che cosa altro ha detto agli inquirenti la Di Rosa? «Ho spiegato di avere profonda sfiducia nella giustizia, perché i magistrati hanno fatto il male del Paese e il mio. Ma voglio provare a fidarmi un’ultima volta». E di fronte a queste accuse come hanno reagito i pm? «Sorridevano un po’ imbarazzati. C’era un clima strano. Ritengo che da parte loro sia giusto e corretto voler vedere il materiale. Ma Giraudo non lo hanno quasi mai nominato per nome. Mi hanno solo domandato se confermassi il contenuto della denuncia che ho presentato e se ci fossero stati con il colonnello contatti successivi ai fatti descritti. Ho spiegato che era impossibile perché l’ho bloccato sul cellulare da dicembre». Il racconto prosegue: «I magistrati mi hanno chiesto se Giraudo mi avesse querelato. Perché avrebbe dovuto farlo? Perché lo avevo provocato con il mio sex appeal di donna con disturbi alimentari che pesa 37 chili?».
Dal cellulare verranno estratti messaggi e immagini utilizzando parole chiave come «Giraudo». «Ma così potrebbero pescare anche in altre chat, in particolare in quella con una giornalista che lo stesso colonello mi ha fatto conoscere» continua la Di Rosa.
La quale, a questo punto, ci mostra alcuni sms, tra cui quello in cui la cronista mostrava preoccupazione: «Tempo al tempo lo affronterò» scriveva. «Devo farlo con maestria perché potrebbe inventarsi cose su di me». L’ex Lady Golpe domanda: «Che cosa significa? Chi è quest’uomo che preoccupa così anche le sue presunte amiche? In questi giorni sono stata contattata da avvocati e altre persone che dicono di volermi raccontare vicende analoghe alla mia. Vedremo se è vero. Spero che la mia storia possa dare coraggio ad altre eventuali vittime».
Nel curriculum dell’indagato si legge, per quanto riguarda gli anni più recenti, quanto segue: il 22 ottobre 2017 ha conseguito la croce d’oro per anzianità di servizio militare (mentre nel 2008 aveva ricevuto la medaglia militare di bronzo al merito di lungo comando); dal 2020 collabora con la Procura generale di Roma nel procedimento penale detto «Terze presenze in via Fani»; dal gennaio all’agosto 2022 è stato l’ufficiale di polizia giudiziaria del gruppo di lavoro sulla strage di Alcamo Marina della commissione Antimafia sotto la presidenza di Nicola Morra e che dall’agosto del 2022 a oggi, «ha redatto numerose annotazioni per la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, per le Direzioni distrettuali di Palermo e Firenze e la Procura di Trapani»; dall’ottobre del 2022 è titolare della cosiddetta «Delega Ponte […] sulla strage di Alcamo Marina, emessa dalla commissione Morra in coordinamento con la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo». E, infine, il 15 novembre 2022 «è stato chiamato dal procuratore nazionale antimafia dottor Giovanni Melillo a tenere un briefing ai magistrati della Dna, delle Dda di Palermo, Catanzaro, Catania, Catanzaro, Roma, Firenze e Milano, nonché Procura di Trapani sulle ricadute investigative delle indagini sulla strage di Alcamo Marina sulle stragi del 1992-1994».
La Di Rosa chiosa: «In Procura ho dichiarato di aver contattato, per informarli della mia vicenda, Nino Di Matteo (sostituto procuratore presso la Pna, ndr), Melillo e la dottoressa Chiara Colosimo (presidente della commissione Antimafia, ndr) per chiedere spiegazioni. Mi risulta che Di Matteo abbia convocato Giraudo, di più non so». La Colosimo, nonostante le segnalazioni alla sua segreteria, avrebbe sarebbe venuta a conoscenza della vicenda solo grazie al primo articolo della Verità. La rappresentante di Fdi, però, non ha accolto le richieste dei 5 stelle che chiedevano di inserire Giraudo tra i consulenti e lo stesso colonnello avrebbe detto alla Di Rosa di aver parlato con l’onorevole Scarpinato, mentre «c’era l’onorevole Colosimo che gli era sfavorevole per questioni di antipatia» e «che il governo (Meloni, ndr) bloccava i lavori dell’antimafia…».
L’uomo, ex membro dei carabinieri del Ros, ha lavorato anche per i servizi segreti interni (Aisi) dove sarebbe entrato in rotta di collisione con i suoi superiori per i rapporti troppo stretti con un’agente straniera. Per questo avrebbe perso il Nulla osta di sicurezza. Ma nonostante questo ha continuato a essere ritenuto da alcune Procure, in particolare da quelle di Palermo, per la Trattativa Stato-mafia, e da quella di Brescia, un collaboratore fondamentale per attestare certe ricostruzioni storiche.
Altri magistrati hanno criticato i suoi sistemi, come l’ex procuratore di Torino Armando Spataro e il Gip di Milano Fabrizio D’Arcangelo che ha aveva fatto riferimento a «modalità di conduzione delle indagini che quest’ufficio non apprezza». Adesso la Procura capitolina dovrà verificare se avesse ragione.






