(Totaleu)
Lo ha detto il vicepremier e ministro degli Esteri a margine del consiglio Affari esteri in corso a Bruxelles.
Lo ha detto il vicepremier e ministro degli Esteri a margine del consiglio Affari esteri in corso a Bruxelles.
La senatrice a vita Elena Cattaneo è una grande scienziata. Ma ha talento anche come storica revisionista.
Intervistata ieri dalla Stampa a proposito della decisione di Donald Trump di abbandonare l’Oms, che la Lega vorrebbe replicare in Italia, la farmacologa ha celebrato il contributo dell’Organizzazione alla gestione del Covid: «Ha permesso la condivisione di dati e risultati senza i quali vaccini e campagne vaccinali sarebbero arrivati più tardi, con conseguenze enormi». Di più: la sua «dimensione mondiale […] ha permesso ai governi di ciascun Paese di attuare misure di protezione che, sebbene criticate per la loro durezza, hanno aiutato a contenere il numero delle vittime». La Cattaneo non ha avuto il Nobel per la medicina, ma merita quello per la letteratura. Sezione fantasy.
L’Oms, all’inizio della pandemia, assicurò a tal punto la condivisione di dati che non riuscì ad accedere a quelli cinesi. Almeno fino a quando, a fine gennaio 2020, il direttore generale, Tedros Adhanom Ghebreyesus, andò in visita da Xi Jinping col cappello in mano. Intanto, aveva comprato a scatola chiusa le informazioni filtrate e manipolate da Pechino. Così, prima di dichiarare la pandemia, aspettò i comodi del regime, esitando fino all’11 marzo 2020. Un ritardo che aveva suscitato subito perplessità e discussioni. Quelli erano in giorni in cui l’Italia, dopo aver cincischiato per settimana tra l’inutile blocco dei voli e i piani pandemici tenuti nel cassetto, inaugurava il più draconiano lockdown d’Occidente. Senza contenere morti e contagi; anzi, preparando il terreno per dei postumi tremendi. Nella China connection che avrebbe importato il modello Wuhan nell’Ovest, la mediazione di Giuseppe Conte e Roberto Speranza, pionieri delle chiusure, fu fondamentale. A febbraio 2020, i cervelloni dell’Oms si lamentavano: «La gran parte della comunità globale non è ancora pronta, mentalmente e materialmente», alle serrate totali. Furono i giallorossi a dare la stura.
Anziché bacchettare il Dragone per le reticenze, il funzionario etiope alla guida dell’agenzia Onu ringraziò la Cina: «Sta definendo un nuovo standard per la risposta alle epidemie», proclamò, avendo organizzato - febbraio 2020 - una spedizione sui luoghi dei focolai. Alla sua testa c’era il canadese Bruce Aylward: costui, circa un mese più tardi, si sarebbe fatto notare per una videointervista durante la quale simulò problemi di collegamento Internet, pur di non rispondere a una domanda sull’ammissione di Taiwan nell’Oms, che avrebbe irritato Xi.
L’operazione per sdoganare i lockdown nacque da quel viaggio in Oriente. Le autorità, ovviamente, mostrarono soltanto ciò che volevano fosse visto. Ma l’Oms trangugiò volentieri il bibitone. Della delegazione faceva parte Clifford Lane, vicedirettore di una branca dei National institutes of health, l’Iss americano di cui era stato dominus Anthony Fauci. Lane suggerì immantinente di «imitare la Cina», che nel report del team fu applaudita per aver «allestito forse il più ambizioso, agile e aggressivo sforzo di contenimento di una malattia nella storia», oltre che per la «notevole rapidità con cui gli scienziati cinesi e gli esperti di salute pubblica hanno isolato il virus, individuato strumenti diagnostici e stabilito i parametri di trasmissione essenziali». Non una parola su censure e omertà, che costarono care al mondo. Men che meno sulla persecuzione del povero Li Wenliang, oculista di Wuhan che denunciò la comparsa di polmoniti misteriose, ma fu ammonito dalla polizia per aver diffuso «commenti falsi su internet» e costretto a scrivere una lettera di scuse. Li si ammalò il 10 gennaio 2020, cadde in depressione e il 7 febbraio morì. Chissà se la senatrice Cattaneo sarebbe d’accordo nel definire anche quello del Dragone un deprecabile «nazionalismo scientifico», destinato a infrangersi «contro il muro dell’ignoranza e della superstizione», oppure se i toni lovecraftiani sono riservati a Cthulhu-Trump.
Per inciso: gli elogi al lockdown, nel giro di due anni, si sono trasformati in una reprimenda dalla politica Covid zero ai tempi della variante Omicron. Lo stesso Tedros Adhanom, alla fine, è arrivato a considerarla «insostenibile», mentre il direttore esecutivo del programma di emergenze sanitarie dell’Oms, Michael Ryan, all’improvviso si preoccupava del «rispetto delle persone e dei diritti umani».
Ma la Cattaneo avrà letto l’ordine esecutivo di Trump? Secondo lei, «i promotori dell’Oms-exit» non hanno idea di come «sopperire alle funzioni proprio dell’organizzazione», né di dove recuperare «i dati globali su cui fondare le azioni necessarie a fronteggiare le emergenze sanitarie». Il presidente Usa, naturalmente, non ha lasciato tutto al caso. Il suo decreto affida al consigliere per la Sicurezza nazionale il compito di individuare «meccanismi di coordinamento» idonei a «salvaguardare la salute pubblica e a rafforzare la biosicurezza», ordinando di «identificare partner statunitensi e internazionali credibili e trasparenti per assumere le attività necessarie precedentemente intraprese» dall’Oms. Si vede che, a Washington, ritengono che collaborare sia possibile pur chiamandosi fuori da una struttura burocratica condizionata da una dittatura comunista e da un miliardario di Seattle. Già: la fondazione di Bill Gates, senza i soldi degli Usa, diventerà praticamente il principale finanziatore dell’agenzia.
Forse, come pensa Antonio Tajani, il carrozzone si può riformare dall’interno? Basta constatare in cosa si sono risolti gli unici tentativi di riforma, ossia il Trattato pandemico e il nuovo Regolamento sanitario internazionale: in due blitz per sottrarre agli Stati preziosi spazi di autodeterminazione, ovvero di vigilanza democratica. È stato impossibile persino sostituire Tedros, alla faccia dei discutibili trascorsi da direttore generale: a maggio 2022, l’ex ministro di Asmara è stato riconfermato nel suo incarico, senza che alcun Paese membro dell’Oms, Italia compresa, presentasse un candidato alternativo.
Questo, senatrice Cattaneo, come lo vogliamo chiamare? «Paraculismo scientifico» rende l’idea?
La scelta della Lega di uscire dall’Organizzazione mondiale della sanità, sulla scia di quanto deciso da Donald Trump, sembra non trovare unito il centrodestra. L’annuncio del senatore Claudio Borghi e del deputato Alberto Bagnai di aver depositato il ddl per l’abrogazione del decreto legislativo del 1947, che lega l’Italia all’Oms dietro pagamento di un contributo di circa 100 milioni di euro, provoca perplessità e critiche.
«Non è la nostra posizione», ha tenuto a sottolineare il vicepremier e ministro degli Esteri, Antonio Tajani, di Forza Italia. «Forse, in un mondo globale, un’istituzione simile è indispensabile», ha commentato su Affaritaliani.it Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera di Fratelli d’Italia. Però ha sottolineato: «L’Oms con il Covid ha perso molta della sua autorevolezza e credibilità e questo non è certo positivo per la tutela della salute dei cittadini del mondo. Andrebbe riformata in profondità». Secondo Repubblica, nella Liga veneta ci sarebbero malumori: «Nella nostra Regione c’è l’unica sede europea in Italia dell’Oms». In base ad accordi sottoscritti nel 2020, l’Ufficio per gli investimenti per la salute e lo sviluppo dell’Oms occupa il primo piano dell’Ospedale civile, nel sestiere Castello a Venezia. Il canone annuo è di 68.000 euro. «Noi paghiamo 100 milioni di euro, loro ce ne ridanno 68.000, non è un grande affare», se la ride Claudio Borghi. «Facciamo un accordo: se usciamo, al Veneto daremo il doppio per una sede dell’Italia libera dall’Oms», aggiunge il senatore. «Ma poi figuriamoci se in ogni caso lasciano Venezia, sono abituati troppo bene. Dove dovrebbero andare, a Mombasa?». Per nulla preoccupato dei malumori interni al suo partito («Prima di prendere questa posizione ho parlato con il responsabile del dipartimento Salute della Lega, che ha sentito tutti. C’è l’assenso completo, poi qualcuno la penserà diversamente, anch’io non ero d’accordo di entrare nel governo Draghi ma pazienza»), Borghi non vuole entrare in merito a un disappunto di Luca Zaia per l’uscita dall’Oms con sede a Venezia: «Non sono posizioni nazionali».
Per l’onorevole Bagnai, «la storia dei malumori interni è montata ad arte e, comunque, non tiene logicamente: è del tutto improbabile che una burocrazia abituata a trattarsi bene come quella dell’Oms rinunci a una sede in un luogo meraviglioso come Venezia, mentre è molto probabile che i contribuenti veneti siano più che felici di non doverla pagare loro». Borghi non si sorprende nemmeno del commento del forzista Tajani: «Un secondo dopo che un americano gli avrà spiegato che se ne escono davvero dall’organizzazione, dovrà pensarci bene. Un atlantista come lui non lo può esserlo a giorni alterni». Il senatore sa che le reazioni erano scontate: «Come sempre, quando si vanno a toccare punti nevralgici, il sistema d’attacco prevede di andare a cercare qualcuno del centrodestra contrario, per motivi suoi, a lasciare l’Oms, così da mostrare che siamo divisi. Poi arriveranno le interviste a qualche medico che dice che, grazie all’Oms, milioni di bambini si sono salvati, quindi siamo dei pazzi a fare morire le creature. Dopodiché, vedremo se sarà possibile invitare in Italia Kennedy (Robert F. Kennedy Jr, scelto da Trump a capo del dipartimento della Salute, ndr) per spiegare che non saremo affatto isolati. Ci allineiamo con le posizioni degli Stati Uniti, non degli etiopi».
L’economista e deputato della Lega afferma di comprendere «tutte le posizioni, comprendo meno che ci si dimentichi di quando l’Oms, per coprire la Cina, attaccò il nostro Paese accusandolo di essere “uno dei principali esportatori del virus”. Non è nemmeno un fatto di atlantismo: è un minimo sindacale di amor di patria quello che suggerisce di distanziarsi da un’organizzazione che ha scaricato su di noi la responsabilità delle proprie inefficienze», precisa Bagnai.
Quanto ai timori di impoverimento scientifico, Borghi è certo: «La ricerca non si ferma senza Oms. Tolte le velleità di dominio dell’organizzazione, rimangono gli stipendi clamorosi di questi funzionari, le sedi strepitose in tutto il mondo e un sistema da pandoro Ferragni al cubo. Con le persone che credono che si facciano cose utili, ma in realtà le stanno facendo per chi è nell’organizzazione». Solo nel 2020, la Regione del Veneto versò all’Oms 300.000 euro per la «copertura dei costi relativi al personale impiegato nell’Ufficio di Venezia», come riporta il Bollettino ufficiale della Regione.
Si attendeva da qualche giorno e si è dimostrata un successo la visita a Roma del premier inglese, Keir Starmer, accolto dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Il viaggio aveva l’obiettivo di approfondire le politiche migratorie intraprese dall’Italia, un modello di successo secondo molti in Europa. Persino secondo i laburisti del premier inglese.
Il colloquio tra i due, il terzo dopo Oxford e dopo New York, si è tenuto senza collaboratori e segue quello che l’inquilino di Downing Street ha tenuto con il presidente americano, Joe Biden. Tra Meloni e Starmer, un faccia a faccia lungo nella splendida Villa Doria Pamphilj, al termine del quale i due si sono concessi una passeggiata, prima del pranzo di lavoro. Poi, una dichiarazione congiunta «che conferma l’ambizione di entrambi i capi di governo a continuare a rafforzare e approfondire il partenariato strategico tra le due nazioni in ogni ambito di comune interesse». Lo fa sapere Palazzo Chigi, evidenziando che «nel corso dei colloqui particolare attenzione è stata dedicata al contrasto della migrazione irregolare. I due leader intendono rafforzare la cooperazione nella lotta al traffico e alla tratta degli esseri umani, con particolare attenzione alla dimensione giudiziaria, nonché nel partenariato con gli Stati di origine e di transito, proseguendo nel solco della collaborazione avviata nell’ambito del Processo di Roma, in particolare in materia di rimpatri volontari assistiti. Hanno riconosciuto che il rafforzamento del coordinamento con i partner internazionali, anche attraverso laddove possibile Interpol e Europol, è essenziale per massimizzare gli sforzi».
Il modello Meloni funziona e anche i Paesi guidati dalla sinistra vogliono toccare con mano e capire meglio in cosa consista.
I due leader hanno tenuto una conferenza stampa nel primo pomeriggio, ribadendo che il fenomeno migratorio è un fenomeno che interessa tutto il continente europeo. «Con il primo ministro Starmer», ha spiegato Meloni, «siamo d’accordo che la prima cosa da fare sia intensificare la lotta al traffico di esseri umani». L’obiettivo per i due è «intensificare la cooperazione» a ogni livello. Meloni cita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino quando, con riferimento alla lotta contro la mafia, dissero «follow the money». Il presidente del Consiglio sostiene che per sconfiggere il fenomeno degli scafisti è necessario proprio seguire il flusso di denaro che li mobilita e li alimenta.
Meloni ha ribadito che Italia e Regno Unito sono «d’accordo sul fatto che non bisogna avere timore a esplorare soluzioni nuove. Abbiamo parlato del protocollo Italia-Albania su cui il governo britannico ha posto molta attenzione e abbiamo offerto elementi per comprendere meglio questo meccanismo». In particolare, sul patto con Tirana, il presidente del Consiglio ha ricordato che «stiamo lavorando a questo progetto con estrema serietà, richiederà ancora qualche settimana perché sia perfetto, avrei preferito che iniziasse prima ma abbiamo gli occhi del mondo puntati su questa iniziativa, se serve qualche giorno in più non mi dispiace». Giorgia Meloni ha poi aggiunto: «Il modello che il governo italiano ha immaginato, di centri per processare le richieste di asilo sotto giurisdizione italiana ed europea in un Paese straniero, non era stato sperimentato: se funziona e io credo funzioni, tutti capiscono che c’è una chiave di volta anche per l’elemento di deterrenza ad affidarsi ai criminali».
Prima dell’incontro con Meloni, al mattino, nella sua visita al centro di coordinamento per l’immigrazione a Roma, fatta con il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il premier inglese aveva detto: «c’è l’intento comune di lavorare insieme contro questo vile commercio di spingere le persone oltre i confini. Qui - ha detto Starmer - ci sono state delle riduzioni piuttosto drastiche. Quindi voglio capire come è successo. Sembra che ciò sia dovuto al lavoro a monte svolto in alcuni dei Paesi da cui provengono le persone. Credo da tempo che impedire alle persone di viaggiare sia uno dei modi migliori per affrontare il problema». Insomma nonostante il cambio di guida nel Regno Unito, le politiche del neogoverno laburista non distano molto da quelle del premier uscente conservatore Rishi Sunak criticato aspramente quando i laburisti si trovavano all’opposizione. Starmer eletto a luglio ha promesso infatti di fare della lotta ai migranti irregolari una priorità della sua agenda. Insomma si potrebbe dire quasi che Meloni è riuscita a mettere d’accordo tutti, destra e sinistra, semplicemente con la bontà del suo operato, convincendo con numeri e fatti il successo della sua strategia. Piantedosi proprio ieri ha previsto per ottobre l’avvio degli hotspot albanesi per i quali dice di «temere ricorsi».
Non solo immigrazione sul tavolo dell’incontro tra Starmer e Meloni. «È stata anche passata in rassegna la profondità delle relazioni bilaterali economiche, culturali, scientifiche, nell’ambito dell’innovazione e degli scambi giovanili e l’intenzione di fare di più in tutti i settori, con particolare soddisfazione per le nuove decisioni di investimento annunciate oggi a margine della visita», fanno sapere sempre da Palazzo Chigi.
È chiaro che la visita ha un significato che va oltre la semplice dichiarazione congiunta. Rappresenta un riconoscimento importante per l’operato di questo esecutivo, da parte di un governo di sinistra, peraltro di un Paese importante come il Regno Unito.
«Le notizie del giorno sono due: è una è la visita del premier inglese Keir Starmer a Roma, l’altra è l’entrata in vigore oggi della nuova legge sulle frontiere tedesche». È Nicola Procaccini, copresidente del gruppo Ecr al Parlamento europeo, a ricordare che i governi di Uk e Germania, entrambi di sinistra, si apprestano ad applicare una stretta sui migranti. «Proprio i tedeschi, che hanno addirittura eletto Carola Rackete al Parlamento europeo, fino a poco tempo fa attaccavano l’Italia e chiedevano le frontiere aperte, mentre oggi si ritrovano a chiudere le frontiere interne».
Che importanza ha l’incontro Starmer-Meloni?
«Il premier inglese viene a esprimere ammirazione e a conoscere meglio la strategia di Giorgia Meloni. Ieri ho risposto a moltissimi media inglesi e tutti parlavano del successo delle politiche migratorie italiane. Insistono molto sull’Albania, ma è solo uno dei tasselli di un piano fatto di leggi più severe contro gli scafisti, accordi di collaborazione con i Paesi di origine e transito come Tunisia ed Egitto, ripristino dei rapporti con la Libia. Anche i decreti flussi hanno fatto la loro parte perché il modello italiano è pragmatico: Meloni sa che una quota di immigrazione legale e formata è necessaria in tutta Europa. L’obiettivo quindi è sempre stato quello di contrastare la migrazione massiva, il business degli scafisti, non le migrazioni in assoluto».
La nuova Europa insegue il modello Meloni?
«Il modello Meloni non soltanto si è rivelato efficace, ma se anzi fosse stato adottato prima in Europa, avrebbe evitato il cortocircuito di Paesi come la Germania che oggi decide di chiudere le frontiere interne di fatto tradendo lo spirito di Schengen. Ma era inevitabile perché anni di frontiere esterne europee aperte hanno fatto arrivare in Germania moltissimi immigrati irregolari. Per altro ricordo che quando è stato approvato il nuovo Patto sulla migrazione, al Parlamento europeo è stato votato dai 4/5; gli unici a votare contro sono stati il gruppo del leader ungherese Viktor Orbán, il partito tedesco di Afd e il Pd. Sono in totale confusione. La sinistra italiana pur di andare contro Meloni finisce in una sorta di cortocircuito ideologico».
Il caso Salvini può essere considerato un attacco a Meloni di una sinistra che reagisce al suo modello vincente in tema di migrazioni?
«Quello a Salvini è un processo politico. Un caso identico a quello della nave Diciotti. Il Parlamento votò contro, ma poi cadde il governo gialloblù. Passarono 15 giorni e lo stesso Parlamento votò a favore. Che sia un caso politico è nei fatti. Purtroppo c’è una parte della magistratura che si presta a questa lotta politica. Le leggi che il laburista Starmer è venuto ad ammirare da vicino sono le stesse che giudici come la Apostolico e altri, non considerandole legittime sul piano politico, combattono usando uno strumento giudiziario. Questa è un’evidente violazione dello Stato di diritto».
Sono giorni di grande fermento per la nomina di Raffaele Fitto a commissario per l’Economia, con carica di vicepresidente esecutivo. Anche su questo i socialisti europei sono spaccati?
«Negli ultimi giorni i socialisti, usciti indeboliti dalle urne e con soli cinque commissari nel prossimo esecutivo, hanno cercato di alzare il prezzo con Ursula von der Leyen su varie questioni. In realtà, per il tipo di procedura prevista, se anche volessero davvero ostacolare Fitto difficilmente ci riuscirebbero. In questi giorni ho letto varie dichiarazioni di colleghi del Pd, ma ora a noi non interessa fare polemica. Anzi, ci auguriamo che anche il Pd possa convergere su Fitto, proprio come il nostro gruppo parlamentare fece cinque anni fa su Paolo Gentiloni. Sarebbe un bel segnale di coesione nazionale da parte delle forze politiche italiane».
«Non basta». È la parola d’ordine quando realismo, buonsenso (e decenza) impediscono di muovere critiche più pesanti. E allora non basta che lo Stato abbia aumentato del 15% le retribuzioni ai dipendenti delle cooperative sociali; non basta che i 400.000 lavoratori del welfare guadagnino (di questi tempi) 120 euro in più al mese; non basta che in un periodo di finanze traballanti - prosciugate da totem di cartapesta come il reddito di cittadinanza e il superbonus -, il governo abbia compiuto uno sforzo considerevole per accontentare un settore strategico come quello dei servizi ai fragili. E non basta neppure che accanto agli aumenti, dal gennaio 2025, vengano introdotte la quattordicesima al 50% e la copertura totale della maternità.
A Confcooperative Federsolidarietà, al suo presidente Stefano Granata e al quotidiano Avvenire che ha pubblicato in prima pagina la notizia come se fosse una Caporetto del terzo settore, tutto questo «non basta». Il pacchetto farebbe felice perfino Maurizio Landini ma non sembra sufficiente a mettere tranquillo il comparto «che rischia di perdere il 10% degli occupati, circa 40.000 lavoratori, con inevitabili ripercussioni sulle prestazioni essenziali». Parola del numero uno Granata, che mentre incassa il malloppo lancia l’allarme nonostante l’accordo sia stato accolto «con soddisfazione sia dai datori di lavoro sia dai sindacati», come scrive il quotidiano cattolico.
Tutto questo perché il governo di Giorgia Meloni continuerebbe a non voler vedere l’altra faccia del problema: la necessità (secondo i lacrimanti) di adeguare le tariffe dei bandi per tornare a rendere interessante la partecipazione delle cooperative sociali «agli appalti pubblici, che non sono stati aggiornati». Poiché almeno la metà di questi enti morali ha nella ragione sociale «l’accoglienza», il motivo della gastrite improvvisa non ha niente a che vedere con gli ultimi, i malati, gli anziani e le diseguaglianze. Ma riguarda essenzialmente i migranti. Sono loro il vero nodo; loro e il rimpianto degli anni d’oro degli esecutivi guidati dal Pd, quando il business era fiorente e c’era la corsa a costituire associazioni per intercettare i bandi delle prefetture. E già, «non basta». La ragione del contendere è il mancato finanziamento dell’accoglienza diffusa, senza mai nominarla nell’articolo.
Spiega Granata, con tortuoso incedere, che «ci sono due ambiti su cui agire: per gli appalti regionali dovrebbe essere più semplice trovare un’omogeneità di sistema che valorizzi la portata di interesse generale dei servizi erogati, mentre la questione si complica quando si lavora con le singole amministrazioni comunali. Perché è vero che il nuovo codice degli appalti apre a una revisione dei prezzi, ma bisognerebbe agire sul piano normativo per esplicitare maggiormente che le tariffe vanno adeguate obbligatoriamente e in modo automatico ai rinnovi dei contratti». Traduzione dal burocratese: servono soldi sicuri non solo per i dipendenti ma anche per le cooperative che devono tornare a guadagnare sui migranti. Sottinteso morale: è gratificante parlare di grande abbraccio ma deve pagarlo lo Stato. In caso contrario, sottolinea il presidente delle Coop «la sopravvivenza di tante realtà è in pericolo».
Siamo al solito corto circuito da sacrestia: a noi umanità, inclusione e bene comune, a voi il conto. Che già fin d’ora è più salato del mar Morto. Ad oggi un migrante costa allo Stato 945 euro al mese, per un totale annuo di 11.340 euro. Poiché nel 2023 sono sbarcate ufficialmente 160.000 persone, l’esborso per il contribuente italiano è stato di 1,8 miliardi. Nessun pregiudizio, siamo tutti resilienti, solo numeri. Quei numeri che nel 2019 (esecutivo Conte uno) Matteo Salvini tentò di limare suscitando una rivolta nel mondo cooperativo al grido: «Non vale più la pena».
Quel setaccio fu decisivo per dividere, come da insegnamento evangelico, il grano dal loglio, vale a dire le associazioni che davvero hanno come obiettivo coloro che soffrono da quelle che spuntavano come funghi per evidenti ragioni di business. Il fenomeno fu messo a nudo anche da inchieste della Guardia di finanza con denunce che fecero emergere comportamenti come minimo imbarazzanti pure da parte di alcune diocesi e Caritas locali. Poi i contributi sono stati ritoccati a crescere, ma evidentemente «non basta». Con polemiche a strascico come a Modena, dove il Comune di sinistra chiede che «il governo non finanzi più il fenomeno migratorio come emergenza ma come fenomeno strutturale» spiega l’assessore Roberta Pinelli, «perché i capitolati dei bandi non sono più economicamente sostenibili».
In questi mesi un supporto integrativo, almeno per le associazioni cattoliche, è il 5 per 1000. A sensibilizzare i fedeli potrebbe dare una mano il testimonial Casarini, quel fratello Luca che presenziando al Sinodo «ha edificato» più di un vescovo. Lui, a raccogliere fondi, è un fenomeno.
Settembre 2023. L’Istituto di economia industriale, accademia delle scienze sociali di Pechino pubblica un lungo report sulla «Internazionalizzazione delle imprese cinesi. Tra crisi e opportunità». Il documento, online su una piattaforma Tencent e a firma Yu Ling Liu, parte con un grande spiegone teorico sulla necessità di creare partnership e succhiare conoscenza per arrivare all’elogio della «grande» strategia di Xi Jinping sulla Via della seta. In mezzo c’è la ciccia del racconto: la crescita del colosso della siderurgia della provincia di Hebei che va sotto il nome di Hbis. Ed è proprio in questi paragrafi che viene ampiamente e con gran dose di dettagli citata la Duferco di Antonio Gozzi, tra i candidati alla guida di Confindustria. «Il 2023 segna il decimo anniversario dell’iniziativa “One belt, One road” del presidente Xi» si legge, «Questo testo prende in esame l’operato della società Hbis, sia nel processo di promozione dell’internazionalizzazione, sia in base alle operazioni di acquisizione della sudafricana Parabola mining e di Duferco international trading holding (Dith)», partecipata al 10% dalla società Duferco partecipation, holding di Antonio Gozzi. Quote che portano a una società controllata dalla Hbis, perno centrale dello studio universitario in questione e della siderurgia cinese.
Oggi Hbis è al primo posto tra le aziende siderurgiche con attività all’estero dove vanta ricavi superiori a 20 miliardi di dollari. Come è arrivata a essere ciò che è oggi? Per lo studio, grazie ai rapporti con il gruppo Duferco. «Nel 2008 di fronte a una grave situazione del mercato, Hbis intraprende una strada orientata su export, commercio, fusioni e acquisizioni. Poi tra il 2013 e il 2016 decide di cogliere alcune opportunità favorevoli di investimento completando l’acquisizione della sudafricana Pmc, di Duferco e della Serbian steel».
I rapporti con Duferco risalgono però al 2009 quando Hbis investe più di 3 miliardi di yuan negli impianti di laminazione a freddo. Ma visto l’esiguo numero delle commissioni subisce ingenti perdite. Nell’ottobre 2009 arriva il primo ordine del gruppo di Gozzi (6.000 tonnellate di lamiera zincata). Nel 2011 il salto di qualità, seppure nell’ambito delle relazioni commerciali. «Le due parti», si legge sempre nello studio, «si incontrano ad alto livello e firmano 10 accordi di cooperazione; nel giugno 2012, le due parti sottoscrivono un nuovo accordo per l’esportazione di prodotti siderurgici da 270 milioni di dollari, garantito da Duferco. Così Deutsche bank, Abn amro e altre sei grandi banche straniere effettuano un pagamento anticipato alla controparte cinese».
Da lì, stando sempre all’università di Pechino, è l’avvio di «una cooperazione che ha un impatto duraturo e di vasta portata sulla strategia di internazionalizzazione di Hbis». Nel marzo 2013, vista la forte complementarietà tra le due società, le due parti firmano un terzo grande accordo: Tangshan iron and steel acquisisce il 10% delle azioni di Duferco international trading divenendo il secondo maggiore azionista. «Allo stesso tempo, Duferco aiuta Tangshan iron and steel a ottenere 1,2 miliardi di dollari in prestiti all’esportazione di acciaio da banche occidentali», prosegue il documento. Che snocciola altri appuntamenti strategici fino al novembre del 2014, quando Hbis aumenta la propria partecipazione in Duferco al 51,4%. «L’operazione porta al possesso indiretto da parte del colosso cinese del sito di produzione di lastre in ferro in Macedonia, controllato da Duferco attraverso Jcdecaux». Nello stesso anno Hbis fa una operazione simile in Sudafrica con un altro partner. La sommatoria è vincente. E per l’università di Pechino «queste misure hanno ampliato la capacità di Hbis nel controllare le risorse produttive a valle nell’industria siderurgica globale». Un chiaro motivo di vanto per la Cina e di riflessione per i mercati occidentali e per le aziende europee. Per chi si chiedesse quanto il documento sia celebrativo e frutto della propaganda del Partito comunista e quanto sia aderente alla realtà è bene sovrapporlo agli intrecci societari del gruppo di Gozzi e alle attività di Yu Yong, l’uomo che in patria è considerato il vertice della siderurgia del Dragone. Senza dimenticare che La Verità ha avuto modo di consultare i bilanci semestrali (2021 e 2022) di una grossa azienda di Haicheng, la Liaoning Donghe new materials. Lì Duferco trading è citata più volte «in qualità di distributore e cliente di lungo termine».
Insomma, l’accordo del 2014 è stato sicuramente di portata ampia, per entrambe le parti. Collegato all’ingresso azionario, al socio cinese venivano infatti concesse una serie di opzioni per salire nel capitale. Così nel frattempo, la controllata di Hbis ha continuato a salire in Dith e il gruppo di Gozzi a scendere e incassare. Con distinte operazioni, tra marzo e settembre del 2022, il gruppo di Gozzi ha venduto un altro 10,7% incassando oltre 80 milioni di dollari. L’azienda, contattata dalla Verità, spiega che la partecipazione attuale è scesa al 5% ed è «destinata a cessare nel giugno prossimo». Precisando, inoltre, che «i cinesi non hanno mai partecipato al capitale del gruppo Duferco né a livello di holding né a livello di società operative energetiche».
Vero. Va dunque chiarito, a questo punto, che le Duferco sono due. Una è la Dith, ormai a controllo cinese, come detto. L’altra si chiama Duferco partecipations holding (Dph) e ha sede anche questa in Lussemburgo. La società, che ha chiuso il 2022 (ultimo bilancio disponibile) con oltre 45,7 miliardi di ricavi consolidati e un utile di 385 milioni prima delle tasse, fanno capo una serie di attività tra Usa, Sud America e Asia che vanno dalla produzione, distribuzione e trading di acciaio fino allo shipping e all’energia, come la Duferco energy Italia. E la partecipazione residua in Dith, considerata tra le «imprese collegate» in virtù della influenza esercitata sulla governance della società. A monte della Dph c’è un’altra società lussemburghese, la Btb holding, che ha il 100% della Dph e controlla la Duferco industrial e la Steel project developments (tutte in Lussemburgo). Nel board della Btb troviamo i figli di Gozzi, Augusto e Vittoria. E lo zio Bruno Bolfo, cittadino svizzero, fondatore e azionista del gruppo Duferco. Per trovare Antonio Gozzi dobbiamo salire ancora qualche scalino, fino alla Lagrev investments, dove l’imprenditore figura come «beneficial owner», beneficiario finale.
Mentre dell’uomo, che ha permesso l’incontro tra Hbis e Duferco un decennio fa, vale la pena ricordare il curriculum. Nome sconosciuto ai più in Occidente, Yu Yong è stato il primo a portare nel 2004 un gruppo siderurgico cinese nella celebre World steel association fino a diventarne presidente per due anni di fila, nel 2019 e nel 2020. Oggi rimane nel board a fianco di figure di spicco come gli italoargentini Rocca. Come si legge nel documento di Pechino, a Yu, classe 1963, si deve l’aver fatto diventare il gruppo Duferco «un ingranaggio nel layout strategico di Hbis con un ruolo chiave: farla diventare testa di ponte e hub informativo dell’acciaio cinese». Lo stesso testo riconosce al manager originario di Hebei meriti passati e ruoli futuri. Come dire, la strategia dentro la Via della seta non è finita e lo schema a triangolo è destinato a proseguire. Un tema, politicamente parlando, molto delicato. Il governo ha appena chiuso la parentesi avviata nel 2019 dal governo di Giuseppe Conte dando disdetta del memorandum One belt one road. La nuova fase prevede una sorta di via dei commerci. Scambi, ma non infrastrutture. Bisogna capire in che fattispecie rientra l’acciaio, soprattutto quello trattato dalle parti di Taranto dove ha sede l’ex Ilva. La partecipazione del gruppo Duferco nell’altro ramo del trading va a spegnersi e forse tutto lo studio dell’università cinese andrà letto al passato. Dieci anni di storia sono comunque tanti.

