Residente in Svizzera, curata in Italia. Dalla ricostruzione delle spese mediche di Marella Agnelli arriva un nuovo punto a favore dell’ipotesi di una residenza fittizia della vedova di Gianni Agnelli avanzata dalla procura di Torino. La Guardia di finanza sta analizzando i dati dello spesometro, incrociandoli con la documentazione sequestrata nel corso delle perquisizioni, per arrivare a una ricostruzione puntuale delle spese sostenute in favore di Donna Marella, scomparsa nel febbraio del 2019.
Un primo risultato è stato acquisito da tempo dalle Fiamme gialle, ed è contenuto in una delle informative depositate per Tribunale del Riesame. Si tratta delle spese sostenute nel 2018, quando a carico di Marella sono risultate fatture per circa 180.000 euro. Una cifra, secondo l’accusa, incompatibile con la presenza della donna in Italia per meno di 183 giorni, come prevede la legge per poter pagare le tasse in un altro paese. In quel 2018 peraltro la malattia di Marella si era ulteriormente aggravata. A dare forza a questo dato sono poi arrivati gli elementi acquisiti con le perquisizioni dello scorso 8 febbraio. Come l’appunto della segretaria personale di Marella, Paola Montaldo. Quattro pagine che ricostruiscono puntualmente, anno per anno, i movimenti di Marella tra Italia ed estero. E dai quali emerge come nel 2018 la donna abbia trascorso nelle residenze italiane - Villa Frescot sui colli torinesi, Villar Perosa, la casa di Roma - un totale di 227 giorni tra gennaio e dicembre. Mentre all’estero i giorni registrati dalla segretaria sono stati 138, peraltro non solo in Svizzera ma anche in Marocco, dove Marella era solita trascorrere, negli ultimi anni di vita, lunghi periodi nei mesi più freddi dell’anno. E ancora, i verbali degli interrogatori a dipendenti ed ex dipendenti. Che hanno permesso di ricostruire un altro passaggio utile, secondo gli inquirenti, a rafforzare le ipotesi dell’accusa. Come l’interrogatorio di Maria Teresa Baracco, non più alle dipendenze della famiglia, che ha spiegato come «le fatture passive di Marella Caracciolo erano solitamente inviate in Svizzera e da lì pagate mediante un collaboratore dello Studio Brunetta ivi installato», con la finalità evidente di mantenere la parvenza della residenza fittizia in Svizzera di Marella. Anche nel 2017, unico anno a partire dal 2014 nel quale Marella avrebbe soggiornato in Italia per meno di 183 giorni «in realtà trascorse in Svizzera solo il consueto bimestre (in estate, ndr), mentre una fetta ben maggiore la trascorse in Marocco per evidenti e dichiarati motivi climatici», come annota il gip di Torino nel pronunciamento recente che ha negato alla difesa la richiesta di anticipare l’iscrizione al registro degli indagati di John Elkann, che avrebbe potuto potenzialmente far annullare i sequestri compiuti dalla Guardia di finanza.
D’altra parte, anche la documentazione amministrativa relativa a Marella era sempre stata custodita a Torino, come hanno svelato agli investigatori le intercettazioni dei dipendenti disposte dalla procura stessa e come accertato con le perquisizioni. Dipendenti che pure erano passati massicciamente dall’avere come datore di lavoro Marella al nipote John Elkann o società collegate a quest’ultimo, pur continuando a lavorare per la stessa Marella. È di nuovo la Montaldo, sentita dai pm a metà febbraio, a confermare il cambio di datore di lavoro.
La residenza fittizia di Marella è tassello fondamentale per i reati contestati dalla procura di Torino a John Elkann e ai fratelli Lapo e Ginevra. A partire dalla truffa ai danni dello Stato per aver omesso nella dichiarazione dei redditi di Marella di 734 milioni di dollari custoditi all’estero, in una banca svizzera, che hanno prodotto circa 30 milioni di euro di profitti all’anno che, in caso di residenza in Italia, avrebbero dovuto essere dichiarati nel nostro paese. Si tratta della somma «emersa» nel 2023, dopo una ispezione negli uffici torinesi della P Fiduciaria, dichiarata tardivamente dai fratelli Elkann nell’ottobre scorso ma che secondo la procura farebbe parte dell’eredità di Marella e che sarebbe stata sottratta all’asse ereditario.
Un vero e proprio «disegno», quello della residenza fittizia in Svizzera, che aveva lo scopo di escludere Margherita da ulteriori pretese sull’eredità di Marella dopo l’accordo familiare che nel 2004 aveva visto la figlia di Gianni e Marella venire di fatto liquidata con un consistente patrimonio tra immobili e liquidità, messo in atto a partire dagli anni immediatamente successivi alla morte di Gianni Agnelli con piena consapevolezza da parte di Marella.
Architetto del disegno sarebbe stato Gianluca Ferrero, commercialista di fiducia della famiglia. La finalità dell’esclusione di Margherita – autrice dell’esposto alla base dell’inchiesta torinese – va però al di là delle questioni strettamente patrimoniali: piuttosto, riguardava la volontà di mantenere nelle mani di John Elkann, «erede designato», le attività industriali e finanziarie della famiglia, escludendo i figli di secondo di Margherita.
- I dem continuano a chiedere «rinnovamento» che non arriva. Intanto Elly Schlein prepara il blitz sulle liste delle europee.
- Inchiesta Torino: l’uomo dei clan cercò Salvatore Gallo per far rilevare alla Regione un santuario davanti al locale.
Lo speciale contiene due articoli.
Un pesce di fine aprile, un brutto scherzo che Elly Schlein avrebbe in mente per mettere con le spalle al muro tutti quelli che vogliono avere voce in capitolo sulla compilazione delle liste per le Europee: è questo, a quanto apprende La Verità, il tormentone che sta agitando in queste ore il corpaccione Dem. Lo scenario ipotizzato è questo: il 28 aprile a Pescara, nell’ambito dell’assemblea programmatica di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni ufficializzerà la sua candidatura in tutte le circoscrizioni; la Schlein avrebbe in mente di convocare la direzione nazionale del partito il giorno dopo, il 29 aprile, e in quella sede annunciare che, per contrastare la Meloni, si candiderà pure lei, a questo punto probabilmente in tutte le circoscrizioni. In questo modo, Elly potrà coronare il suo sogno di partecipare al famoso faccia a faccia tv con la Meloni, e vestirà i panni della leader dell’opposizione, per gentile e interessata concessione della premier, che preferisce di gran lunga confrontarsi con la leader dei dem, con la quale condivide in pieno le posizioni in politica estera, piuttosto che doversela vedere con Giuseppe Conte e gli altri big dell’opposizione. Non solo: considerato che le liste si presentano tra il 30 aprile e il 1 maggio, a quel punto le decisioni di Elly sulle candidature saranno blindate, perché gli scontenti non avranno neanche il tempo di protestare. Detto ciò, il Pd continua a autoflagellarsi in Puglia, dove il presidente della Regione, Michele Emiliano, finge di allinearsi ai diktat della Schlein, in verità assai timidi, ma continua a fare di testa sua, essendo in fin dei conti più vicino a Conte che alla sua presunta leader. Il Pd continua a parlare una lingua, il politichese antico, che coi tempi che corrono è diventata ormai materia per i filologi: «Abbiamo chiesto a Michele Emiliano», ha sottolineato ieri Domenico De Santis, segretario regionale del Pd Puglia, «di dare un forte segnale di rinnovamento e un cambio di passo alla giunta. Siamo soddisfatti della pronta risposta del presidente. Siamo al lavoro per dare seguito alle indicazioni della segretaria». Emiliano da parte sua ha rassicurato sulla sua intenzione di provvedere a un «netto cambio di fase», il che non vuol dire assolutamente niente. Se davvero la Schlein volesse mandare un segnale politico forte dovrebbe dire ai suoi esponenti pugliesi di ritirare i quattro assessori del Pd in giunta mettendo Emiliano spalle al muro, ma figuriamoci se i dem si sognerebbero mai di mollare le poltrone per fare contenta Elly. Né c’è da aspettarsi chi sa quale rivoluzione da parte di Emiliano, il quale, oltre ad essere il vero potente del Pd pugliese, neanche si sogna di segare l’albero sul quale è seduto, considerato che la Schlein si è sempre opposta al terzo mandato per i presidenti di Regione, pensando in questo modo di togliersi di torno lo stesso governatore pugliese e il campano Vincenzo De Luca (segnalato in modalità disimpegno per le europee), che alle primarie avevano sostenuto Stefano Bonaccini, altro presidente uscente di Regione targato Pd. Fiutato l’odore del sangue (traduzione: della possibilità di un inaspettato sorpasso sul Pd alle europee), il M5s continua quindi a logorare i dem. Ieri Bonaccini ha affidato ai social un appello all’unità, pubblicando il faccione di Romano Prodi e un testo da libro cuore: «Ha ragione Romano Prodi», ha scritto Bonaccini, «invece di continuare a litigare per uno zero virgola di voti in più, perché il M5s e, aggiungo, tutti gli altri partiti di opposizione a questo governo, non si uniscono a noi in una grande battaglia per salvare la sanità pubblica?». A stretto giro è arrivata la legnata pentastellata: «All’appello di Bonaccini» hanno replicato attraverso una nota congiunta i parlamentari del M5s delle commissioni Affari sociali di Camera e Senato «ci sentiamo di rispondere che la battaglia per salvare la sanità pubblica il Movimento 5 stelle l’ha intrapresa già da tempo. Ci fa piacere se finalmente anche il Pd e gli altri partiti di opposizione la vorranno condividere con noi, a cominciare dalla riforma del Titolo V della Costituzione». Una bella staffilata: la riforma del Titolo V, che ha aperto la strada all’autonomia differenziata, fu approvata nel 2001 per soli tre voti da una maggioranza di centrosinistra, che sperava invano di contrastare l’ascesa del centrodestra guidato da Silvio Berlusconi verso la vittoria elettorale, e poi ratificata dai cittadini attraverso un referendum. Del centrosinistra guidato da Francesco Rutelli uno dei pilastri era L’Ulivo, formazione fondata proprio da Prodi, che all’epoca guidava la Commissione europea. La sensazione è che i prossimi due mesi di campagna elettorale vedranno il M5s randellare senza problemi a destra e a sinistra: fino alle europee dell’8 e 9 giugno Conte e i suoi non guarderanno in faccia a nessuno, e poco male se si mette in discussione l’alleanza giallorossa in qualche città al voto. Tra l’altro proprio ieri a Pesaro il M5s ha ufficializzato il sostegno al candidato a sindaco Andrea Biancani del Pd, che tenta conferma in città dopo i due mandati di Matteo Ricci, il quale si candida alle europee. A Bari continua la ricerca del nome che possa riunire Pd e M5s dopo la spaccatura dei giorni scorsi: si ragiona su Nicola Colaianni, ex parlamentare e magistrato, ma c’è da convincere Michele Laforgia, sostenuto anche dal M5s, e Vito Leccese, scelto dal Pd, a farsi da parte. Il centrodestra ha annunciato il suo candidato a sindaco: è Fabio Romito della Lega.
Lo ’ndranghetista contattò Sasà: «Mi aiuti per il mio il ristorante?»
«L’intercessione degli esponenti politici Gallo Raffaele e Gallo Salvatore nella questione inerente all’acquisto del Sacro Monte di Belmonte». È il titolo di un paragrafo di una informativa della Dia allegata agli atti di una indagine sulla penetrazione della ’ndrangheta in Piemonte. Se l’inchiesta Echidna che sta terremotando il Pd piemontese ha svelato un sistema di scambi tra voti e favori con la criminalizzata organizzata che resta sullo sfondo, c’è un’altra indagine sulla ’ndrangheta in Piemonte dove i contatti tra politici e cosche sono più diretti. Anche in questa indagine compaiono Salvatore Gallo, ex socialista con forti legami con il Pd, e il figlio Raffaele, consigliere regionale Dem. L’inchiesta, denominata Platinum, ha svelato i rapporti d’affari delle ’ndrine nel Canavese. È emersa nel 2021 e ha già superato il primo grado di giudizio con 19 condanna per vari reati, compresa l’associazione mafiosa. Tra i condannati ci sono i fratelli Giuseppe e Franco Vazzana, condannati entrambi a 6 anni e 8 mesi per associazione mafiosa. Sono esponenti di spicco della «locale» di Volpiano, alle porte di Torino, legate alle famiglie di Platì.
È Franco che, nel 2018, si rivolge ai Gallo per risolvere un problema. Ha investito nel ristorante nei pressi del Sacro Monte di Belmonte, nel Canavese. Un investimento di 200.000 euro che però non dà i risultati sperati. Il flusso dei pellegrini al santuario si è drasticamente ridotto e gli affari vanno male. Vazzana si rivolge al mondo della politica per risolvere il suo problema: far comprare la struttura alla Regione, che avrebbe poi riqualificato l’area del santuario e riportato così pellegrini a affari al suo ristorante. Dopo un tentativo andato a vuoto con Virginia Tiraboschi, allora senatrice di Forza Italia, Vazzana si rivolge ai Gallo. Salvatore, ex manager della Sitaf (la società che gestisce l’autostrada Torino-Bardonecchia), «è considerato un faccendiere e annovera diversi precedenti contro la pubblica amministrazione» annota la Dia nelle carte dell’indagine. Il figlio Raffaele è già consigliere regionale del Pd. Entrambi sono estranei a questa indagine.Siamo nel 2018 e fare da intermediario tra Vazzana e i Gallo è un albergatore, Michele Troia.
L’affare non si concretizzerà, ma le intercettazioni dell’indagine, delle quali ha parlato La Stampa nei giorni scorsi, dimostrano la «permeabilità» dei Gallo. Il 22 novembre 2018 Troia chiama il boss Vazzana: «Raffaele mi ha detto “Dì a Franco che i dirigenti funzionari, hanno dato parere favorevole… Adesso l’iter è che Reschigna (Aldo, vicepresidente della giunta regionale guidata allora da Sergio Chiamparino, ndr) può fare la delibera, può comprarlo e poi si vedrà come valorizzarlo… quindi, non è ancora fatta la delibera, ma si è in dirittura d’arrivo… ti puoi spendere in questa maniera, però lui, quando arriverà la delibera eeehh… allora poi li incontreremo… con Raffaele abbiamo deciso che appena lui sa che tanto lo sa subito… della delibera, allora poi li incontriamo e vediamo un po’ di gente che per far vedere che comunque l’attore è stato lui, ecco”». Vazzana replica: «Organizziamo una bella cena per far vedere che lui è riuscito a fare questa cosa». In un’altra telefonata dello stesso giorno, Vazzana torna a parlare di Raffaele Gallo: «Lui, ’sto ragazzo qui ha detto che è rimasto lì a spingere, perché chiaramente lui, suo padre è uno che conta proprio a livelli alti a Roma. E comunque suo padre ha cercato di dire “Insomma, facciamo una cosa che vada bene. visto che il... Santuario, comunque, per il Canavese è un riferimento importante”».
Le imprese della famiglia Pasqua, coinvolta nell’indagine torinese sui rapporti tra ’ndrangheta ed esponenti del Pd, hanno ricevuto ristori destinati agli autotrasportatori in seguito al crollo del ponte Morandi di Genova. Le due imprese, Autotrasporti Claudio sas e Mmr srl, erano tra le imprese accreditate a lavorare nell’area del Porto di Genova e avrebbero avuto accesso ai ristori proprio in virtù di questo. Seppure di importo limitato – alcune decine di migliaia di euro per le due società – secondo le indagini della procura di Torino le due ditte avrebbero continuato a lavorare nell’area del porto di Genova anche nel periodo nel quale erano state colpite dall’interdittiva antimafia, utilizzando una serie di escamotage per aggirare i i divieti imposti dall’interdittiva. Come già riferito da questo giornale, le imprese dei Pasqua avrebbero lavorato anche nel cantiere della ricostruzione del ponte Morandi.
Secondo quanto ricostruito, alle imprese dei Pasqua sono andati circa 30.000 euro di ristori incassati nel 2021. La Autotrasporti Claudio ha ricevuto 19.200 euro di ristori, mentre la Mmt ha potuto ricevere 11.500 euro.
Nell’ordinanza dello scorso 5 aprile, i pm scrivono tra l’altro che «sebbene la notifica del provvedimento interdittivo antimafia inibisse ai mezzi dei Pasqua l’accesso all’area portuale, questi ultimi continuavano a eseguire tali lavorazioni sino al termine del contratto con la società committente». Sempre secondo la ricostruzione degli inquirenti, i Pasqua lavorano nell’area del porto in virtù dei rapporti con il gruppo Gavio. Fino al 2018 come fornitore della AutospedG e a partire dal 2019 della Truck Rail Container srl. I contratti prevedevano l’accesso delle motrici all’interno dell’area del porto per il prelievo e lo spostamento dei container
Quando scatta l’interdittiva, nel marzo del 2021, qualche problema per la Autotrasporti Claudio al porto c’è. A un loro autista viene negato l’accesso all’area del porto perché la tessera che consentiva il transito dei camion è scaduta. Ma Domenico Claudio Pasqua non aveva chiesto il rinnovo, perché tra i requisiti necessari c’era la certificazione antimafia, «ma per entrare nei porti devi avere una white list in regola», commenta una segretaria intercettata riferendosi all’elenco della prefettura delle aziende che possono partecipare a gare e appalti. Ma un altro autista, Pietro La Rocca (dipendente della Mmt) continua a entrare regolarmente perché la sua tessera è ancora valida: «Non è scaduta. Quindi non gli chiedono i documenti». Quando scade l’autorizzazione, il problema viene aggirato facilmente. A suggerire la soluzione è un ex dipendente del gruppo Gavio, passato alla Coop Paratori Genova. «Mi ha detto», dice Claudio Pasqua intercettato, «ma che cazzo glielo mandi a loro, mandalo a Paratori che così non vuole manco l’antimafia no?». Secondo quanto scrive il gip di Torino nell’ordinanza, «nonostante l’intervento dell’interdittiva antimafia, la Mmt ha continuato a eseguire trasporti per conto del cliente Truck Rail Container da e per l’area del porto di Genova, quantomeno fino al mese di luglio 2021». Tra maggio e luglio dello stesso anno, anche la Autotrasporti Claudio ha lavorato nell’area del porto, per conto in questo caso della Servizi Trasporti srl.
Ma qui c’è un passaggio non molto chiaro. Nel senso che la Mmt, costituita a gennaio del 2021, secondo quello che emerge dagli atti dell’inchiesta, mandava già al porto di Genova il suo autista nei mesi immediatamente successivi. Ma la dichiarazione d’inizio dell’attività arriverà solo a fine luglio.
Una possibile spiegazione arriva proprio guardando alle tempistiche dei ristori per il ponte Morandi. I ristori per le imprese di autotrasporto che avevano subito danni dal crollo del ponte erano stati decisi dal governo Conte I con il cosiddetto decreto Genova del 28 settembre 2018, un mese e mezzo dopo il crollo del ponte, convertito in legge il 16 novembre successivo con i decreti attuativi arrivati a tempo record, il 24 dicembre dello stesso anno. Lo stanziamento complessivo è stato di 20 milioni di euro per il solo periodo che va dal 15 agosto al 31 dicembre del 2018 e tra i maggiori beneficiari figurano sia la Coop Paratori (2,7 milioni di euro) che varie società del gruppo Gavio, compresa la Truck Rail Container con 2,1 milioni. In totale, la misura ha assorbito 180 milioni di euro di fondi pubblici: oltre ai 20 milioni della prima fase, sono arrivati 80 milioni all’anno per il 2019 e 2020. I ristori, con un emendamento al decreto sostegni bis del 2021, sono stati esclusi dal calcolo della tassazione. Con grande tempismo, nel gennaio del 2019 i Pasqua vanno davanti al notaio per costituire - come già detto - la Mmt, che affiancherà la Autotrasporti Claudio nell’attività di famiglia. Il termine per accreditarsi al sistema che dava accesso al ristoro scadeva il 23 aprile del 2019. Il 23 luglio, terminata una breve istruttoria, è arrivato il via libera all’accesso ai fondi stanziati dal decreto Genova. Il 26 luglio, Claudio Pasqua ha depositato in Camera di commercio la dichiarazione d’inizio dell’attività.





