In base alle stime del Codacons, il Black Friday darà vita in Italia ad un giro d'affari da circa 4 miliardi tra acquisti online e nei negozi fisici nel periodo di sconti. A far la parte del leone saranno le vendite on line: oltre 6 su 10.
Uno studio sottolinea la necessità dell’atomo per sopperire all’aumento di consumi elettrici. Fondamentali i mini reattori attesi per il prossimo decennio. Italia protagonista nonostante lo stop imposto dai referendum.
Il dibattito sul nucleare in Italia ha ripreso vigore negli ultimi anni, spinto dalla doppia urgenza di tagliare le emissioni e rafforzare la sicurezza degli approvvigionamenti energetici. Un’attenzione ritrovata, dopo oltre 40 anni dall’ultima moratoria che nel 1987 fermò ogni progetto di centrale atomica, resa ancor più evidente dall’inclusione dell’atomo nella tassonomia verde dell’Unione europea e dalle recenti normative sul Net zero industry act e sul Clean industrial deal.
Per questo Cassa depositi e prestiti ha deciso di mostrare il suo benestare verso l’energia atomica all’interno di un documento dal titolo Il dibattito sul nucleare in Italia: stato dell’arte e prospettive, coordinato da Andrea Montanino e Simona Camerano.
All’interno dello studio, si sottolinea come la necessità di rispettare gli obiettivi climatici per il 2030 e il 2050 stia spingendo l’Unione europea a considerare il nucleare come fonte «programmabile», in grado di affiancare fonti rinnovabili intermittenti quali solare ed eolico, e di ridurre la dipendenza dalle importazioni di gas e petrolio, messa ancora una volta in crisi dal conflitto in Ucraina.
A livello globale, il 2023 si è chiuso con 410 reattori operativi, capaci di generare 2.600 Twh di elettricità, pari al 9 % della produzione mondiale. Un peso destinato a crescere nei prossimi decenni secondo l’International energy agency, che prevede una produzione atomica fino a 5.500 Twh entro il 2050, pur vedendo la sua quota sul totale rallentare sotto l’8 % a fronte della crescente domanda elettrica.
Nel frattempo, la filiera italiana conserva una sorprendente vitalità: pur non avendo centrali da quattro decenni, il nostro Paese vanta una rete di circa 70 aziende specializzate nel settore, che nel 2022 hanno generato un valore aggiunto di 457 milioni di euro e hanno occupato quasi 3.000 persone. L’Italia si posiziona quindicesima al mondo e settima in Europa per esportazioni di componenti e tecnologie nucleari, e figura al quinto posto per produzione scientifica sul tema, con un secondo posto per impatto delle pubblicazioni.
Il vero potenziale di svolta arriva tuttavia dalle tecnologie in arrivo: i Small modular reactor, reattori di potenza contenuta - fino a 300 Mw - assemblati in fabbrica e caratterizzati da costi di realizzazione e tempi di costruzione ridotti, si candidano a entrare in servizio già all’inizio del prossimo decennio. Progetto gemello, ma con orizzonte più avanzato, sono gli Advanced modular reactor di quarta generazione, mentre sul fronte della fusione nucleare alcune start up, in collaborazione con atenei come il Mit e grandi gruppi energetici, puntano a demo commerciali verso la seconda metà degli anni Trenta.
Come si spiega nel documento, però, restano nodi non secondari: la costruzione di impianti tradizionali sconta costi di investimento elevati, spesso triplicati o quadruplicati rispetto alle stime iniziali, e richiede garanzie finanziarie di lungo periodo che nemmeno il mercato dei capitali è sempre disposto a offrire. Nei Paesi più avanzati, come Francia e Regno Unito, si sono affermati meccanismi di prezzo indicizzato - il cosiddetto «strike price» - o contratti per differenza con durata ultradecennale, strumenti che permettono ai produttori di ammortizzare rischi e capitali su orizzonti temporali certi.
È in questo quadro che il Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) disegna un percorso di reinserimento del nucleare italiano, prevedendo l’installazione di 400 Mw di piccoli reattori entro il 2035 e fino a 7,6 Gw entro il 2050, con un risparmio stimato di almeno 17 miliardi di euro rispetto a uno scenario privo di energia atomica. La legge delega approvata nel febbraio 2025 affida al governo il compito di definire, entro 12 mesi, decreti legislativi che regolamentino l’intero ciclo di vita dei nuovi reattori, dall’individuazione dei siti fino allo smantellamento, includendo la gestione dei rifiuti e istituendo un’autorità indipendente per la vigilanza.
Senza dubbio, l’Italia è chiamata a scrivere rapidamente le regole di un settore che potrebbe tornare a occupare un ruolo centrale nello scenario energetico nazionale e internazionale. Le competenze già presenti nel nostro Paese, unite alla spinta tecnologica di reattori innovativi e nuove tecnologie di fusione, rendono plausibile un ritorno dell’atomo più sostenibile e competitivo, a patto di garantire certezze normative e meccanismi di sostegno adeguati.
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Riduci
L’aumento dei consumi energetici ha spinto l’impiego in termini assoluti di gas, carbone e petrolio nonostante solare & company.
Nell’articolo dello scorso giovedì 6 marzo dimostravamo in modo inequivocabile che le nostre aggiunte in atmosfera di CO2 non possono avere alcun effetto significativo sull’effetto serra e, men che meno, sul clima. Pertanto, concludevamo, quello di decarbonizzare la nostra fonte energetica e, di conseguenza, la nostra economia, è un proposito sciocco. Anzi, è un proposito dannoso perché, precisavamo, aumentare la CO2 in atmosfera farebbe bene all’ambiente perché la CO2 è il cibo delle piante e una sua maggiore concentrazione in atmosfera comporta un pianeta con più rigogliosa vegetazione.
Naturalmente non abbiamo esplorato altre ragioni - diverse da quella, inesistente, climatica - che potrebbero indurci a decarbonizzare. Nell’attesa che i sostenitori della decarbonizzazione ci dicano queste altre ragioni, possiamo dimostrare che il proposito è comunque destinato a fallire. E non è, questa, un’opinione, ma un fatto. Il detto proposito non è di questi giorni, ma nacque circa 30 anni fa, e fu concretamente avviato col Protocollo di Kyoto che divenne operativo nei primi anni di questo millennio. Altre iniziative son state prese nel mondo, dal Patto 20-20-20 per il clima, al Green new deal, al Repowereu. L’impegno economico negli ultimi 20 anni è stato di diversi trilioni di dollari: solo di impianti fotovoltaici possiamo stimare, nel mondo, oltre 5 trilioni di dollari, ai quali bisogna aggiungere i trilioni per eolico, idrogeno e tutto il resto in nome della decarbonizzazione. Risultato? Giudicate voi stessi dal grafico in alto.
Come vedete, nel 1965 il contributo dei combustibili fossili al fabbisogno energetico era dell’80% e, a parte insignificanti fluttuazioni, tale è rimasto nel tempo. In particolare, tale è rimasto nel corso degli ultimi 20 anni, a dispetto dell’impegno multi trilionario detto sopra. Non fatevi ingannare dalla falsa impressione che potrebbe lasciare il grafico e cioè che almeno saremmo stati capaci di fermare l’aumento dell’uso del carbonio. Perché il suo contributo percentuale è, sì, rimasto costante, ma l’energia usata dall’umanità è cresciuta e, di conseguenza, è cresciuto l’uso di petrolio, carbone e gas naturale e, con esso, son cresciute le emissioni. Per farla breve, esse sono oggi il 60% in più di quelle che furono nel 1990. Nella figura la linea verde vorrebbe indicare come avrebbe dovuto diminuire l’uso dei combustibili fossili nel tempo, da quando fu compiuto quel «primo passo» che si chiama Protocollo di Kyoto fino al 2050 quando secondo i fenomeni che guidano la Ue il detto uso dovrebbe azzerarsi. Lo chiamano net zero. Come si vede, la realtà degli ultimi 20 anni è stata ben diversa dal programmato; e anche la realtà degli anni 2025-50 non avrà nulla che rassomigli al programmato. Come mai, vi chiederete. La risposta dipende dalle misure adottate. Ecco qualche esempio.
Si vorrebbe raggiungere il net zero col nucleare? Dei 3000 gigawatt elettrici mondiali, 300 Gw sono prodotti dal nucleare e 1800 Gw sono prodotti dal carbonio, cosicché dovremmo sestuplicare il parco nucleare mondiale entro il 2050, cioè aggiungere circa 2.500 reattori a quelli attualmente in esercizio (poco più di 400). Un’impresa molto improbabile (anche se, sulla carta, possibile): in ogni caso, non si sarebbe raggiunto il net zero, visto che avremmo così decarbonizzato solo il settore elettrico.
Passiamo ora dall’improbabile all’impossibile. Si vorrebbe raggiungere il net zero con l’economia a idrogeno? Impossibile: l’idrogeno neanche esiste sulla Terra e non voglio stare a elucubrare oltre. Con fotovoltaico ed eolico? Altrettanto impossibile. Intanto che lo dicono i fatti, come detto sopra: a dispetto dei trilioni di denaro dei contribuenti finora impegnati, l’uso del carbonio è aumentato del 60% dal 1990 a oggi. Ma perché?, insistete giustamente. La risposta è che potete installare tutti gli impianti fotovoltaici ed eolici che volete ma non potrete chiuderne uno solo di quelli che vanno a carbonio. Questi erogano energia quando dite voi, quelli solo quando brilla il sole o soffia il vento e, quando ciò non accade, quegli impianti è come se non ci fossero. Per esempio tra le 17 di ogni giorno e le 9 del giorno dopo il sole certamente non brilla, ma la massima domanda elettrica si ha alle 19 della sera. La figura in basso illustra la potenza elettrica installata in Germania nel corso degli ultimi 20 anni. Come si vede, la potenza convenzionale 100 Gw era nel 2002 e 100 Gw è rimasta nel 2023: i 150 Gw di fotovoltaico ed eolico installati in Germania nel 2023 (quasi assenti nel 2002) non hanno fatto chiudere neanche un singolo watt di potenza convenzionale.
In conclusione, totalmente immotivata da ragioni ambientali, decarbonizzare entro il 2050 è un’impresa semplicemente impossibile. Ogni denaro impegnato in essa è tolto alla cura della nostra salute, all’istruzione e, tutto sommato, anche alla cura dell’ambiente. Una chiosa finale è, oggi, d’obbligo: gli unici venti che soffiano sono quelli di guerra e, invece che il sole, brillano le armi: a Ursula von der Leyen piacciono le rime e tutta la sua politica è indubbiamente una poesia, e Repowereu fa rima con Rearm Eu, ma come si riarmerà la Eu e, al contempo, avere emissioni zero è un mistero.
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Riduci
Il ministro Giancarlo Giorgetti con il premier Giorgia Meloni (Ansa)
Per il premier la bozza non sarebbe soddisfacente. La Schlein strumentalizza i rincari.
Il decreto Bollette slitta a venerdì. «Servono misure più efficaci», ha detto, secondo quanto appreso dall’Ansa, Giorgia Meloni, che ha chiesto di «approfondire» ulteriori misure per dare «una risposta più efficace». Il tema caldo sono le coperture: ci sarebbero all’appello solo 600 milioni legati all’utilizzo delle quote Ets, le tasse sulle emissioni di CO2 pagate dalle aziende. Pochi rispetto ai 2,8-3 miliardi necessari. Solo per il bonus sociale destinato alle famiglie disagiate servirebbero tra 1,3 e 1,5 miliardi. Il tetto dell’Isee verrebbe alzato da 9.530 a 12.000 o 15.000 euro. L’onere dipende dall’allargamento della platea dei beneficiari. La versione più estesa andrebbe ad abbracciare oltre 10 milioni di persone con un costo di circa 1,5 miliardi. Nel 2023 ne hanno beneficiato 4.577.000 nuclei con una spesa di 1,7 miliardi. Inoltre, l’Acquirente unico acquisterebbe all’ingrosso sui mercati del giorno prima anziché sui mercati spot.
Un altro punto interrogativo riguarda la durata del decreto: nelle intenzioni dovrebbe coprire sei mesi ma dipenderà dalle risorse. Per le coperture, oltre alle maggiori entrate legate all’aumento del gas e quindi dell’Iva versata, c’è l’ipotesi di una stretta sugli operatori che caricano in bolletta extracosti o non erogano gli sconti dovuti. Un altro intervento allo studio è ridurre le differenze tra il prezzo del gas sul mercato di riferimento europeo (l’indice Ttf della Borsa di Amsterdam) e quello sul mercato all’ingrosso italiano (chiamato Psv). Lo spread tra i due mercati è uno degli elementi che fa sì che in Italia l’energia costi molto più che in altri grandi Paesi europei. La riduzione di solo 1 euro di questa differenza avrebbe un impatto sulle bollette di almeno 2 euro di risparmio.
Per aiutare le imprese ci sarebbe l’estensione del sistema di energy release, oggi riservato alle energivore, che consente di acquistare energia rinnovabile a prezzo calmierato in cambio dell’impegno a sviluppare nuova capacità rinnovabile nei prossimi 30 anni. Inoltre c’è l’ipotesi di aumentare i contratti a lungo termine Ppa (Power purchase agreement) che regolano la fornitura di energia elettrica da fonte rinnovabile tra un soggetto produttore (che possiede l’impianto) e un soggetto acquirente. Infine sarebbe ammessa l’adesione alle Cer (le comunità che aggregano produttori da fonti rinnovabili e consumatori di energia) anche gli istituti pubblici di beneficenza e assistenza.
Nel frattempo il fuoco di sbarramento del Pd aumenta. Nemmeno l’ipotesi che venga allargata la platea dei beneficiari del bonus riesce a tacitare il segretario, Elly Schlein, che in diretta Instagram arringa contro il governo Meloni colpevole «di non aver fatto nulla per due anni» e di «svegliarsi solo ora». Poi la proposta di «disaccoppiare il prezzo dell’energia elettrica da quella del gas». Critiche interessate da Carlo Calenda, a cui risponde Maurizio Gasparri: «Troviamo discutibile che Calenda, sull’onda di teorie fantasiose fini a se stesse e fondate su annunci roboanti, continui a proporre soluzioni valide (magari) solo sulla carta».
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Riduci
- L’Irlanda vieta la costruzione di un data center a Google perché sarebbe mancata l’elettricità per famiglie e imprese.
- Il ministero dell’Ambiente vara le linee guida in un settore che vale da noi 15 miliardi.
Lo speciale contiene due articoli.
La transizione energetica si scontra con quella digitale, evidenziando, ancora una volta, le contraddizioni insite nel modello di sviluppo che le élite contemporanee stanno portando avanti.
Le notizie di questi giorni sottolineano come le due «rivoluzioni» tecnologiche non solo non vanno a braccetto, ma ora entrano in chiaro conflitto.
Qualcuno ha fatto i conti e, come riporta Il Sole24ore di ieri, risulta che i big della Silicon Valley hanno molta fame di energia, e non certo per l’aria condizionata degli uffici. Sono i data center, gli enormi contenitori di potenti server, a richiedere quantità massicce di energia, per il funzionamento e il raffrescamento. Ciascuna delle due maggiori società americane del settore, Microsoft e Google, ha consumato nel 2023 circa 24 miliardi di kilowattora di energia elettrica per le proprie attività di cloud computing, compresa l’Intelligenza Artificiale (AI). Il che significa che, insieme, le due compagnie hanno consumato il 50% in più di interi paesi come la Nigeria (che ha 230 milioni di abitanti) o la Serbia.
Qualche giorno fa, poi, è emerso che il South Dublin County Council, in Irlanda, ha negato il permesso a Google di espandersi per costruire un nuovo datacenter nell’area metropolitana di Dublino. Ci sono valide ragioni, per questo diniego.
Nell’isola britannica vi sono già 82 data center, la maggior parte nell’area sud di Dublino, con un impegno di potenza di oltre 1.200 megawatt in tutte le ore del giorno. Nel 2023, il 21% dei consumi elettrici in Irlanda era dovuto ai datacenter, contro il 18% dei consumi delle famiglie. Secondo le stime di EirGrid, il gestore della rete elettrica, nel 2030 oltre un terzo dei consumi elettrici irlandesi sarà dovuto ai datacenter.
Il regolatore irlandese, Commission for the Regulation of Utilities, nel 2021 ha innalzato i requisiti per le connessioni alla rete elettrica dei datacenter. Dal gennaio 2022 le domande per costruire le strutture nell’area di Dublino sono sottoposte ad una moratoria di fatto sino al 2028. È in questo stop è incappata Google: il punto è che le reti non sono adeguate e non c’è abbastanza energia green
Tra le motivazioni che spingono le compagnie tecnologiche di tutto il mondo a stabilire in Irlanda le proprie infrastrutture, secondo molti, vi sarebbero il clima, la lingua e la poca burocrazia. Ma un fattore ben più rilevante è che l’Irlanda è un paradiso fiscale all’interno della zona euro (aliquota combinata pari all’11%), da cui è assai conveniente esportare ricchi servizi informatici. Nel 2023 l’export di servizi dall’isola è stato pari a 340 miliardi di euro, di cui il 60% circa di servizi in Information e Communication Technology, per un controvalore di 196 miliardi di euro. Davvero buono, il clima, in Irlanda.
Irlanda a parte, se ai consumi mostruosi del digitale mondiale si aggiunge la spinta all’elettrificazione dei consumi energetici imposta dal green deal, è chiaro che tra pochi anni i sistemi elettrici rischiano di saltare. Il problema è produrre energia in abbondanza, a basso costo, in sistemi elettrici affidabili e sicuri. Ma il green deal sta portando il mondo esattamente sulla strada opposta.
La crescita vertiginosa delle attività digitali richiede robusti interventi nel mondo fisico. I data center consumano una quantità spropositata di risorse fisiche, e siamo solo all’inizio di una crescita che durerà per molto tempo ancora, a meno di buttare via i miliardi di investimenti sostenuti sin qui nel digitale. Ciò che è appare sempre più irrealistica è la transizione energetica a base di rinnovabili e buone intenzioni.
I sistemi elettrici non sono pronti a reggere una tale quantità di domanda elettrica, per diversi motivi. Intanto la rete: questa non è adeguata e servono investimenti miliardari, ma chi paga? Se si fa come si è sempre fatto (cioè attraverso le tariffe che tutti pagano al distributore) succede che sono i cittadini a pagare per una rete che senza data center, in precedenza, era adeguata ai fabbisogni di un consumo normale. Ne consegue che far pagare ai cittadini il rifacimento delle reti elettriche è un regalo all’high tech, che non sembra ne abbia particolare bisogno. Dovrebbero essere le stesse compagnie high tech a sostenere i costi dell’ampliamento delle reti?
Dall’altra parte, il consumo elettrico tipico dei datacenter è un carico di base senza alcuna flessibilità, cioè un profilo identico in tutte le ore del giorno e della notte. Un sistema elettrico alimentato da fonte solare ed eolica, per natura discontinue, non può garantire questo tipo di fornitura, a meno di ricorrere ad accumuli il cui costo e la cui affidabilità nel lungo termine sono ancora un grande interrogativo. In sintesi, la concorrenza fiscale tra stati e la transizione digitale stanno provocando squilibri nei sistemi energetici, già sotto grave stress per il green deal. Una strategia che sta mostrando tutti i suoi limiti di praticabilità e di costi ma che, a quanto pare, la nuova Commissione europea continuerà indefessa a perseguire.
L’Italia mette un freno al far west dei cervelloni digitali energivori
Il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, ha diffuso le linee guida per la valutazione ambientale dei Data Center. In particolare, la direzione generale valutazioni ambientali ha adottato le direttive redatte dalla commissione tecnica di valutazione dell’impatto ambientale e di quella di valutazione ambientale strategica tenendole come riferimento per le procedure di valutazione di progetti di Data Center assistiti da gruppi elettrogeni di emergenza con potenza superiore a 50 megawatt. Si tratta di un passo importante perché, secondo le stime dell’Ue, i Data Center rappresentano quasi il 3 % della domanda di elettricità dell’Unione Europea, percentuale che crescerà nei prossimi anni, con l’obbligo di indirizzare gli operatori verso nuovi progetti di efficienza. In particolare, lo scopo di queste direttive è ridurre e gestire l’utilizzo di acqua e di ricorrere il più possibile a energie rinnovabili, tentando anche di riutilizzare il calore di scarto generato. Lo scopo di queste linee guida è definire i principali fattori che concorrono a una valutazione ambientale, mostrando e descrivendo le metodologie da applicare oltre che le modalità di adempimento degli obblighi previsti dalle normative di settore. Va, inoltre, ricordato, che all’interno del Pnrr sono previsti progetti riguardanti i Data Center come inizio del nuovo percorso di crescita economica.Il mercato dei Data Center in Italia vale circa 15 miliardi di euro e a contendersi la torta ci sono colossi come Google, Amazon e Microsoft o anche il gruppo Aruba che lanciato una nuova area per i dati a Roma. L’Italia, tra l’altro, si sta posizionando come importante punto di snodo per i Data Center dopo che altre aree europee come Francoforte, Londra, Amsterdam e Parigi sono ormai vicine alla saturazione. In particolare, la città di Milano sta diventando sempre più importante per via della posizione geografica favorevole e della presenza di infrastrutture avanzate come il cavo Sparkle che va da Genova a Mumbai e che si aggiunge al progetto Medusa per collegare il continente africano.Secondo uno studio dell’Osservatorio Data Center del Politecnico di Milano, il mercato delle strutture per l’immagazzinamento dei dati sta godendo di una importante crescita. Tra il 2023 e il 2025, 23 istituzioni, incluse otto nuove aziende, hanno prospettato la costruzione di 83 nuove strutture, con investimenti che potrebbero sfiorare i 5 miliardi di euro. Milano e la Lombardia, con il ruolo centri finanziari del Paese, sono al centro di questo mercato, con l’Italia che potrebbe essere un punto nevralgico tra Europa centrale e Mediterraneo, attirando l’interesse di investitori internazionali.Ora, insomma, l’obiettivo è quello di mettere ordine nel settore a livello di efficienza energetica. Anche perché, ad oggi i data center sono classificati come edifici industriali generici, causando incertezze e disomogeneità nelle procedure di costruzione a livello locale. Certo, la tecnologia sta facendo passi da gigante e i nuovi Data Center oggi sono in grado di ridurre il consumo di energia elettrica fino al 70% rispetto alle vecchie infrastrutture. L’obiettivo è quello di portare in Italia investitori internazionali con capitali freschi da investire nel settore. Il progetto del governo «Invest in Italy» voluto da Mimit, pensato per supportare gli imprenditori stranieri che vogliono investire in Italia potrebbe essere di grande utilità per il settore dei Data Center e per il suo efficientamento energetico.
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