Ospite della nuova puntata del talk condotto da Daniele Capezzone negli studi Utopia, l’on. Massimo Misiti (M5S): focus su situazione Cinquestelle, Sud e sanità.
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Il comico va nella Capitale per gestire la crisi della sua creatura. Ma come in Umbria, la sconfitta è figlia del governo Conte bis.
Stavolta Beppe Grillo si è beccato un vaffa di dimensioni bibliche: il voto sulla piattaforma Rousseau degli attivisti M5s, che hanno sonoramente bocciato la proposta del (quasi ex) capo politico, Luigi Di Maio, di una «pausa elettorale» che sarebbe consistita nel non presentare le liste alle regionali in Emilia Romagna e Calabria, segna in realtà l'inizio della fine della carriera politica del comico genovese. È Grillo, molto più che Di Maio, il grande sconfitto della consultazione su Rousseau, in quanto principale responsabile dell'alleanza con Il Pd, respinta con sdegno dai militanti. È Grillo, che non a caso ieri si è precipitato a Roma, dopo aver sempre pilotato il M5s col joystick dal divano di casa, a essere stato drammaticamente sfiduciato dalla base del Movimento, che ha voltato le spalle alla svolta partitocratica e filopiddina di Beppe, maturata nel corso della scorsa estate. Un'estate travagliata assai, quella del 2019, per Grillo e per l'Italia. Mentre Matteo Salvini apriva la crisi di governo, mentre l'Italia si chiedeva se fosse arrivato il momento di tornare al voto, il figlio di Beppe, Ciro, di 19 anni, doveva difendersi insieme a tre suoi amici dall'accusa di violenza sessuale di gruppo. A denunciare il presunto stupro una giovane modella scandinava: i fatti sarebbero avvenuti in Costa Smeralda, dove si trova la residenza del fondatore del M5s. La notizia venne fuori il 6 settembre, 24 ore dopo il giuramento del governo giallorosso, mentre i fatti si sarebbero verificati il 16 luglio: «Quaranta giorni sotto il pelo dell'acqua», scrisse La Verità il 7 settembre, «mentre Grillo si concentrava nel suo editto: salviamo l'Italia dai barbari, mentre il Pd renziano stringeva accordi e convinceva i riottosi, mentre il presidente Sergio Mattarella si persuadeva a non mandare gli italiani al voto, mentre si edificava mattone dopo mattone un governo non di popolo, ma di potere e di sistema. Se lo scandalo fosse esploso in tempo reale (come da consuetudine per la classe politica di ogni ordine e grado) tutte le trame sarebbero diventate più complicate». Beppe, ormai parodia di sé stesso, aveva fatto di tutto, ma proprio di tutto, perché l'alleanza col Pd, che la stragrande maggioranza dei simpatizzanti del M5s già in quei giorni non voleva assolutamente, è stato il vero artefice dell'accordo giallorosso. Gli esempi sono numerosissimi: «Mi rivolgo al Pd», pontificava Grillo il 31 agosto, mentre le trattative sembravano sul punto di incepparsi, «alla base dei ragazzi del Pd: siate contenti, è il vostro momento questo, abbiamo un'occasione unica, Dio mio, unica, che non si riproporrà più così. Questa pena che vedo, questa mancanza di ironia, dovete sedervi a un tavolo ed essere euforici perché appartenete a questo momento straordinario di cambiamento. Abbiamo da progettare il mondo, invece ci abbrutiamo, e le scalette e il posto lo do a chi, e i dieci punti, i venti punti, basta!».«Non voglio», insisteva Beppe il 12 ottobre, rivolgendosi ai militanti alla kermesse nazionale di Napoli, «che rimanete qui a dire sempre Pd, Pd. Stavolta vaffanculo a voi!». Vaffanculo a te, stavolta, Beppe, gli hanno urlato in faccia i militanti e gli iscritti, affossando l'altro ieri con il 70% di no quella desistenza mascherata da «pausa» che avrebbe consentito alla sinistra, in Emilia Romagna e in Calabria, di giovarsi dell'assenza del M5s sulla scheda elettorale. Un vaffa che era già arrivato, magari meno clamorosamente, quando lo scorso 27 ottobre i cittadini dell'Umbria avevano sonoramente castigato il M5s, che si era alleato col Pd dopo averne denunciato per anni sprechi, nefandezze, incapacità politica e amministrativa. Così, ieri, Beppe Grillo si è fiondato a Roma, per tentare di rianimare la sua creatura, ormai esangue, ma anche per provare forse a riannodare i fili di un rapporto con il suo elettorato che è ormai incrinato, probabilmente in maniera irrimediabile. Giunto nella capitale nel tardo pomeriggio, Grillo, visibilmente nervoso, insofferente alle domande dei giornalisti che lo aspettavano all'esterno dell'albergo, ha risposto ruvido a chi gli ha chiesto se il M5s fosse biodegradabile: «Ormai i comici siete voi», ha sibilato il fondatore del M5s, ormai nei panni dell'affondatore, prima di incontrare il senatore Elio Lannutti, suo vecchio amico. È arrivato a Roma mentre Luigi Di Maio era in Sicilia e Roberto Fico a Napoli, il Grillo sfanculato e probabilmente ossessionato dai suoi errori, a partire da quella incomprensibile forzatura che ha portato il movimento all'abbraccio mortale col Pd. Una mossa repentina, spericolata, inattesa, contraria ai principi del fu M5s, per molti versi ancora avvolta nel mistero.
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2019-11-16
La pioggia di razzi su Israele manda in tilt la Farnesina: Di Maio nicchia, Di Stefano incontra l'Iran
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Nel corso di questa settimana, a seguito dell'eliminazione mirata da parte di Israele di un pericoloso jihadista (è stata distrutta a Gaza l'abitazione di Bahaa Abu Al-Ata, il leader della jihad islamica palestinese), è iniziato per ritorsione un attacco missilistico contro lo stato ebraico. Mentre il ministro dice di sostenere il diritto alla difesa, non risultano note ufficiali della Farnesina sui fatti di questa settimana in Israele. Poi, in contemporanea con l'audizione di Di Maio, il suo sottosegretario Manlio Di Stefano (tuttora sprovvisto di deleghe) ha incontrato alla Farnesina l'ambasciatore iraniano in Italia, Hamid Bayat, auspicando e promettendo cooperazione.
Una reazione - quella della jihad islamica - per molti versi sconclusionata e quasi "artigianale", compiuta con materiali giunti attraverso i tunnel sotterranei e variamente assemblati, e tradottasi in una pioggia di razzi su Israele.
Molti i feriti, ma danni non gravi, anche grazie all'opera sistematica di intercettazione compiuta dal sistema israeliano Iron Dome. Tuttavia, è stata inevitabile la chiusura di scuole e uffici: e resta comunque l'obiettivo di sempre dei jihadisti, quello di trasmettere agli israeliani l'idea che la loro vita non sarà normale, sarà costantemente oggetto di uno stillicidio di attentati e attacchi.
Notevole – con poche eccezioni – la distrazione e la sottovalutazione di questa vicenda da parte dei media italiani: assai mobilitati sulla cosiddetta "emergenza" dell'antisemitismo (anche fabbricando e sovrastimando, come ora è chiaro, l'allarme degli insulti online e sui social), ma poi improvvisamente silenziosi o avari di informazioni e analisi davanti a un attacco reale, fisico, concreto, tangibile, contro i cittadini di Israele.
Gli analisti consultati dalla Verità hanno un dubbio e una certezza su questa pioggia di attacchi della jihad. Il dubbio è se vi sia stato o no un semaforo verde iraniano a questa specifica azione, pur essendo certamente iraniana la regia che da anni consente il transito e l'arrivo di armi e materiali. La quasi certezza è che stavolta Hamas non sia riuscita a controllare i jihadisti: la valutazione è che, dinanzi a una crisi sociale che morde, Hamas difficilmente avrebbe investito risorse in questo modo, con attacchi velleitari ma comunque costosi.
Quanto alla politica italiana, merita attenzione una frattura – l'ennesima – all'interno dei Cinquestelle anche su questa delicata questione.
In settimana, audito dalle Commissioni Esteri di Camera e Senato (ma si trattava di un'audizione programmata e programmatica: quella in cui il ministro espone le linee guida del suo mandato), il titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, rispondendo a una domanda di un commissario, ha per un verso riproposto il solito slogan "due popoli, due stati", ma per altro verso (il che è indubbiamente una novità positiva in casa grillina) ha difeso in modo piuttosto netto il diritto all'esistenza di Israele, con relativo diritto a difendersi. E, incalzato in seconda battuta nel corso dell'audizione proprio dai banchi grillini, Di Maio ha ribadito di avere già risposto su Israele, in qualche misura lasciando a verbale solo l'affermazione pro Israele, ed evitando di attenuarla o correggerla.
A questa dichiarazione del ministro Di Maio hanno però fatto da contraltare alcuni segnali di tenore opposto. Intanto, Già la mancanza di deleghe non consente di comprendere a quale titolo, su quali basi e con quale mandato Di Stefano abbia condotto questo incontro: e semmai ne valorizza il connotato tutto politico.
Né risultano passi indietro da parte dei numerosi parlamentari grillini che restano attestati su posizioni oltranziste (il più visibile, il senatore Gianluca Ferrara). Proprio Ferrara, l'estate scorsa, ha depositato una mozione (sottoscritta da ben 40 senatori M5S, eccone testo e firmatari) per il riconoscimento dello stato palestinese. Un testo impressionante nel linguaggio e nell'impostazione, totalmente unilaterale, e che descrive Israele come responsabile di umiliazioni e violenze, di fatto sorvolando sul terrorismo palestinese, citato solo marginalmente.
Davanti a questa divaricazione tra le parole del ministro Di Maio e gli atti dei suoi colleghi, resta da capire se i Cinquestelle si decideranno a fare chiarezza, o manterranno questa ambiguità, inevitabilmente destinata a proiettare un'ombra non positiva sulla politica estera italiana.
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Studio del «Guardian» sul fenomeno in 31 Paesi. L'ascesa delle destre è globale. E le élite per difendersi zittiscono Steve Bannon.
I populisti sono in rapida ascesa in tutta Europa. Negli ultimi 20 anni non hanno fatto che crescere, passando da forza marginale a elemento che rischia di essere maggioritario nelle prossime elezioni europee. Ciò sta mettendo in subbuglio anche i maggiori centri di ricerca e think tank internazionali. Cominciano a essere ora presentati i risultati, raccolti da accurati studi del quotidiano britannico The Guardian, sulle elezioni politiche nazionali degli ultimi 20 anni in 31 Paesi europei con la collaborazione di 20 scienziati politici di primo piano. Vent'anni fa i populisti erano ancora una forza marginale ma nelle ultime elezioni hanno conquistato un voto ogni quattro, e una posizione centrale nel quadro politico. Ma secondo le proiezioni sono ancora in crescita, e ciò non tranquillizza affatto la maggior parte dei centri studi, legati in un modo o nell'altro a quelli dei poteri tradizionali.
«Oggi è difficile capire la politica senza tener conto del populismo», ammette il professor Matthijs Rooduijn, sociologo della politica dell'università di Amsterdam, che ha guidato il progetto di ricerca del Guardian. «Molti dei più significativi sviluppi politici, come il referendum per la Brexit e l'elezione di Donald Trump sono ormai incomprensibili al di fuori di esso. Il suo terreno di crescita è sempre più fertile e i partiti populisti sempre più capaci di ottenere riconoscimenti».
Ma quale è la ragione di questo sviluppo? I sostenitori del populismo sostengono che esso difende l'uomo della strada nei confronti dei diritti consolidati e dalle posizioni di rendita, e quindi è una forza vitale della democrazia. Ma i suoi critici sostengono che il populismo al potere spesso sovverte le regole democratiche o indebolendo l'informazione, o calpestando i diritti delle minoranze.
Di fronte allo scenario di continuo sviluppo di voti e influenza del campo populista comunque il Guardian, tradizionalmente laburista ma anche con una forte e qualificata componente popolare, lancia sei mesi di studi e ricerche per capire meglio e approfondire il fenomeno: chi siano i populisti, cosa li ha portati al potere e come lo esercitano.
Dal materiale raccolto fino a ora molti prevedono che dalle prossime Europee uscirà alla Camera dei 751 parlamentari europei un numero di deputati delle destra populista maggiore di quanto si sia mai visto fino a ora. E già si predispongono - come vedremo fra poco - attenzioni e misure giuridiche e istituzionali per cercare di evitare che ciò possa accadere. Uno sguardo panoramico sul fenomeno mostra comunque che a un primo sviluppo del populismo «di sinistra», cresciuto soprattutto nel periodo immediatamente successivo allo scoppio della crisi economica, ma oggi lontano da posti di comando al di fuori della Grecia, è succeduto quello della destra populista, guidata da Matteo Salvini e Viktor Orbán, figure oggi alla guida del populismo internazionale.
Nel frattempo il populismo non si è affermato comunque solo in Europa. Oggi leader populisti sono stati eletti - come ricorda lo studio del Guardian - ai posti di comando di cinque delle sette maggiori democrazie del mondo: l'India, gli Stati Uniti, le Filippine, il Brasile e il Messico.
È anche per questo che c'è una grande agitazione nel mondo politico internazionale per cercare di privare intanto i populisti europei della consulenza e partecipazione di Steve Bannon, già consulente di Donald Trump e fondatore nell'ultimo anno a Bruxelles del movimento The Movement di ispirazione populista. Bannon è molto interessato a coordinare e supportare le numerosissime formazioni populiste presenti nel continente. Ma sempre il Guardian, nella sua inchiesta ad ampio raggio sulle prospettive del populismo oggi, avrebbe appurato che in nove dei 13 Paesi in cui Steve Bannon vorrebbe operare, ne sarebbe impedito dalle istituzioni: i comitati elettorali e importanti ministeri.
La ragione addotta per impedire la collaborazione tra i partiti populisti e Bannon sarebbe l'interferenza di Stati esteri nelle elezione dei vari Stati. Ma io non sono uno Stato, sostiene Steve Bannon, molto «cool», senza scomporsi. Ha dichiarato al Guardian: «Non c'entro nulla con la Russia, i cinesi, o altra gente che cerchi di influenzare la situazione. Sono un privato cittadino. E non sono un uomo della Casa Bianca».
I due soli Paesi dove Bannon potrebbe operare liberamente, secondo la versione del Guardian, sarebbero l'Olanda, dove Geert Wilders si è dichiarato molto interessato, e l'Italia, dove però l'accesso sarebbe impedito (per lo meno ad aiuti economici) dall'approvazione della nuova legge sul finanziamento ai partiti. Bannon ha comunque dichiarato che non intende fare nulla che violi le leggi di vari Paesi, anche se rimane molto interessato ad aiutare in tutti i modi possibili e leciti i movimenti populisti. È certo però che anche il nervosismo sulle mosse di colui che è stato certamente uno dei principali attori della vittoria di Donald Trump rivela l'attuale insicurezza (e anche aggressività) delle strutture di potere precedenti ai successi del movimento populista.
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- Il vicepremier dalla Cina: «Si può rientrare dal debito in due o tre anni». Su Giovanni Tria la tensione, sotto traccia, resta. Giuseppe Conte ai capigruppo M5s: «Reddito di cittadinanza in manovra». Pensioni, nel nuovo testo tagli sopra i 4.500 euro.
- Dopo aver tifato spread, Europa ed Emmanuel Macron, i dem contestano la pace fiscale promessa. L'ennesimo scollamento dalla realtà in nome di un principio: stangare il contribuente.
Lo speciale contiene due articoli.
Dopo il vertice di pochi giorni fa a Palazzo Chigi e i malumori che ne sono nati tra Lega e Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio ha deciso di iniziare la sua offensiva. Il concetto è semplice: le risorse per la prossima legge di bilancio si possono trovare attingendo un po' al deficit, facendo poi rientrare il debito nei prossimi due-tre anni.
Il vicepremier e ministro del Lavoro Luigi Di Maio, incontrando i giornalisti nella sua visita cinese a Chengdu, ha spiegato chiaramente che questa è la soluzione che propone. Il ministro ha spiegato che «un governo serio che ha fatto delle promesse, i fondi li trova. Li troviamo dai tagli, ma qualora non si dovessero trovare tutti i soldi dai tagli, sappiamo che nei prossimi anni potremo tagliare tanti altri sprechi, ma non possiamo aspettare anni per mantenere le promesse e per questo si attinge un po' al deficit per far rientrare il debito nei prossimi anni, tenendo i conti in ordine senza fare una manovra distruttiva». Di Maio ha poi precisato che «l'obiettivo di una legge di bilancio non è rassicurare i mercati, ma migliorare la vita degli italiani. Dobbiamo fare il nostro dovere, cioè mantenere le promesse». Il vicepremier ha anche ribadito che flat tax, reddito di cittadinanza, superamento della legge Fornero «sono priorità e saranno nella legge di bilancio».
Per quanto riguarda le tensioni all'interno del governo sulla prossima manovra, Di Maio ha poi voluto puntualizzare (dopo alcune indiscrezioni secondo cui il vicepremier aveva invitato Giovanni Tria a lasciare il governo se non avesse trovato le risorse per il reddito di cittadinanza) di avere «piena fiducia nel ministro dell'Economia in quello che sta facendo e nel gioco di squadra che stiamo facendo come governo». Le tensioni però non sembrano del tutto sopite e una frase di Matteo Salvini è parsa sibillina. Alla domanda se Tria potesse dormire sonni tranquilli ha risposto: «Gli italiani possono dormire sonni tranquilli».
Di certo, insomma, in questo momento la preoccupazione non manca tra gli esponenti del Movimento 5 stelle. Tanto che ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha voluto incontrare i capigruppo del M5s, Francesco D'Uva e Stefano Patuanelli per gettare acqua sul fuoco. «Al centro del nostro colloquio», ha scritto il premier sulla sua pagina Facebook, «c'è stato un aggiornamento sulle attività parlamentari e sulle prossime iniziative che dobbiamo portare avanti per offrire risposte alle urgenze che ci segnalano i cittadini. Abbiamo ragionato anche della necessità che la riforma del reddito di cittadinanza che sarà inserita nella manovra economica abbia un impatto significativo sul piano sociale, in modo da alleviare la condizione di tutti coloro che vivono in condizione di povertà assoluta».
Anche Matteo Salvini, ministro dell'Interno e vicepremier, ha voluto mostrare ottimismo sulla legge di bilancio, precisando che «abbiamo le idee chiare, sono assolutamente sicuro che si troverà un equilibrio tra vincoli di bilancio e diritto dei cittadini alla qualità della vita, alla salute». Nella legge di bilancio, aggiunge, «ci sarà quota 100, ci sarà la riduzione fiscale e ci sarà la chiusura di milioni di cartelle di Equitalia».
Proprio su quota 100, in effetti, un po' di chiarezza va fatta. Ieri l'Huffington Post spiegava che i tecnici del Carroccio starebbero pensando di inserire un tetto minimo per l'uscita anticipata: 35 anni di contributi e 65 anni di età. Una fonte contattata dalla Verità ha però smentito questa indiscrezione. «Si potrebbe fare solo attraverso la partecipazione dei fondi privati di categoria. Diversamente non ci sarebbero le coperture», ha detto.
Proprio sulle pensioni ieri è stato presentato alla Camera un nuovo testo simile a quello già presentato ad agosto che propone un «tetto» a 4.500 euro netti al mese (mediazione tra i 4.000 voluti dai 5 Stelle e i 5.000 della Lega) , soglia sotto la quale non ci sarà nessun ricalcolo a livello previdenziale. Nel testo c'è anche una stretta contro gli assegni pensionistici dei sindacalisti: via la norma del 1996 che permette di incrementare la pensione attraverso il versamento di una quota di contribuzione aggiuntiva poco prima di lasciare il lavoro al sindacato.
Sempre ieri, inoltre, Lega e Movimento 5 stelle hanno presentato una proposta di legge dal titolo «Misure di semplificazione fiscale, sostegno all'economia reale e contrasto all'evasione fiscale», un insieme di norme che dovrebbe rendere più facile la burocrazia italiana in materia fiscale.
La manovra, dunque, sta smuovendo molte acque all'interno della maggioranza. Lega e 5 stelle hanno bene in mente cosa vogliono portare all'interno del Def. Ma le risorse non ci sono per accontentare tutti. Qualcuno, per forza, dovrà fare un passo indietro.
Il Pd prigioniero di «forza Equitalia»
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