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2019-11-23
Questa volta il vaffa è tutto per Grillo. La base non perdona la svolta a sinistra
Ansa
Stavolta Beppe Grillo si è beccato un vaffa di dimensioni bibliche: il voto sulla piattaforma Rousseau degli attivisti M5s, che hanno sonoramente bocciato la proposta del (quasi ex) capo politico, Luigi Di Maio, di una «pausa elettorale» che sarebbe consistita nel non presentare le liste alle regionali in Emilia Romagna e Calabria, segna in realtà l'inizio della fine della carriera politica del comico genovese. È Grillo, molto più che Di Maio, il grande sconfitto della consultazione su Rousseau, in quanto principale responsabile dell'alleanza con Il Pd, respinta con sdegno dai militanti. È Grillo, che non a caso ieri si è precipitato a Roma, dopo aver sempre pilotato il M5s col joystick dal divano di casa, a essere stato drammaticamente sfiduciato dalla base del Movimento, che ha voltato le spalle alla svolta partitocratica e filopiddina di Beppe, maturata nel corso della scorsa estate. Un'estate travagliata assai, quella del 2019, per Grillo e per l'Italia. Mentre Matteo Salvini apriva la crisi di governo, mentre l'Italia si chiedeva se fosse arrivato il momento di tornare al voto, il figlio di Beppe, Ciro, di 19 anni, doveva difendersi insieme a tre suoi amici dall'accusa di violenza sessuale di gruppo. A denunciare il presunto stupro una giovane modella scandinava: i fatti sarebbero avvenuti in Costa Smeralda, dove si trova la residenza del fondatore del M5s. La notizia venne fuori il 6 settembre, 24 ore dopo il giuramento del governo giallorosso, mentre i fatti si sarebbero verificati il 16 luglio: «Quaranta giorni sotto il pelo dell'acqua», scrisse La Verità il 7 settembre, «mentre Grillo si concentrava nel suo editto: salviamo l'Italia dai barbari, mentre il Pd renziano stringeva accordi e convinceva i riottosi, mentre il presidente Sergio Mattarella si persuadeva a non mandare gli italiani al voto, mentre si edificava mattone dopo mattone un governo non di popolo, ma di potere e di sistema. Se lo scandalo fosse esploso in tempo reale (come da consuetudine per la classe politica di ogni ordine e grado) tutte le trame sarebbero diventate più complicate». Beppe, ormai parodia di sé stesso, aveva fatto di tutto, ma proprio di tutto, perché l'alleanza col Pd, che la stragrande maggioranza dei simpatizzanti del M5s già in quei giorni non voleva assolutamente, è stato il vero artefice dell'accordo giallorosso. Gli esempi sono numerosissimi: «Mi rivolgo al Pd», pontificava Grillo il 31 agosto, mentre le trattative sembravano sul punto di incepparsi, «alla base dei ragazzi del Pd: siate contenti, è il vostro momento questo, abbiamo un'occasione unica, Dio mio, unica, che non si riproporrà più così. Questa pena che vedo, questa mancanza di ironia, dovete sedervi a un tavolo ed essere euforici perché appartenete a questo momento straordinario di cambiamento. Abbiamo da progettare il mondo, invece ci abbrutiamo, e le scalette e il posto lo do a chi, e i dieci punti, i venti punti, basta!».«Non voglio», insisteva Beppe il 12 ottobre, rivolgendosi ai militanti alla kermesse nazionale di Napoli, «che rimanete qui a dire sempre Pd, Pd. Stavolta vaffanculo a voi!». Vaffanculo a te, stavolta, Beppe, gli hanno urlato in faccia i militanti e gli iscritti, affossando l'altro ieri con il 70% di no quella desistenza mascherata da «pausa» che avrebbe consentito alla sinistra, in Emilia Romagna e in Calabria, di giovarsi dell'assenza del M5s sulla scheda elettorale. Un vaffa che era già arrivato, magari meno clamorosamente, quando lo scorso 27 ottobre i cittadini dell'Umbria avevano sonoramente castigato il M5s, che si era alleato col Pd dopo averne denunciato per anni sprechi, nefandezze, incapacità politica e amministrativa. Così, ieri, Beppe Grillo si è fiondato a Roma, per tentare di rianimare la sua creatura, ormai esangue, ma anche per provare forse a riannodare i fili di un rapporto con il suo elettorato che è ormai incrinato, probabilmente in maniera irrimediabile. Giunto nella capitale nel tardo pomeriggio, Grillo, visibilmente nervoso, insofferente alle domande dei giornalisti che lo aspettavano all'esterno dell'albergo, ha risposto ruvido a chi gli ha chiesto se il M5s fosse biodegradabile: «Ormai i comici siete voi», ha sibilato il fondatore del M5s, ormai nei panni dell'affondatore, prima di incontrare il senatore Elio Lannutti, suo vecchio amico. È arrivato a Roma mentre Luigi Di Maio era in Sicilia e Roberto Fico a Napoli, il Grillo sfanculato e probabilmente ossessionato dai suoi errori, a partire da quella incomprensibile forzatura che ha portato il movimento all'abbraccio mortale col Pd. Una mossa repentina, spericolata, inattesa, contraria ai principi del fu M5s, per molti versi ancora avvolta nel mistero.
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Il comico va nella Capitale per gestire la crisi della sua creatura. Ma come in Umbria, la sconfitta è figlia del governo Conte bis.Stavolta Beppe Grillo si è beccato un vaffa di dimensioni bibliche: il voto sulla piattaforma Rousseau degli attivisti M5s, che hanno sonoramente bocciato la proposta del (quasi ex) capo politico, Luigi Di Maio, di una «pausa elettorale» che sarebbe consistita nel non presentare le liste alle regionali in Emilia Romagna e Calabria, segna in realtà l'inizio della fine della carriera politica del comico genovese. È Grillo, molto più che Di Maio, il grande sconfitto della consultazione su Rousseau, in quanto principale responsabile dell'alleanza con Il Pd, respinta con sdegno dai militanti. È Grillo, che non a caso ieri si è precipitato a Roma, dopo aver sempre pilotato il M5s col joystick dal divano di casa, a essere stato drammaticamente sfiduciato dalla base del Movimento, che ha voltato le spalle alla svolta partitocratica e filopiddina di Beppe, maturata nel corso della scorsa estate. Un'estate travagliata assai, quella del 2019, per Grillo e per l'Italia. Mentre Matteo Salvini apriva la crisi di governo, mentre l'Italia si chiedeva se fosse arrivato il momento di tornare al voto, il figlio di Beppe, Ciro, di 19 anni, doveva difendersi insieme a tre suoi amici dall'accusa di violenza sessuale di gruppo. A denunciare il presunto stupro una giovane modella scandinava: i fatti sarebbero avvenuti in Costa Smeralda, dove si trova la residenza del fondatore del M5s. La notizia venne fuori il 6 settembre, 24 ore dopo il giuramento del governo giallorosso, mentre i fatti si sarebbero verificati il 16 luglio: «Quaranta giorni sotto il pelo dell'acqua», scrisse La Verità il 7 settembre, «mentre Grillo si concentrava nel suo editto: salviamo l'Italia dai barbari, mentre il Pd renziano stringeva accordi e convinceva i riottosi, mentre il presidente Sergio Mattarella si persuadeva a non mandare gli italiani al voto, mentre si edificava mattone dopo mattone un governo non di popolo, ma di potere e di sistema. Se lo scandalo fosse esploso in tempo reale (come da consuetudine per la classe politica di ogni ordine e grado) tutte le trame sarebbero diventate più complicate». Beppe, ormai parodia di sé stesso, aveva fatto di tutto, ma proprio di tutto, perché l'alleanza col Pd, che la stragrande maggioranza dei simpatizzanti del M5s già in quei giorni non voleva assolutamente, è stato il vero artefice dell'accordo giallorosso. Gli esempi sono numerosissimi: «Mi rivolgo al Pd», pontificava Grillo il 31 agosto, mentre le trattative sembravano sul punto di incepparsi, «alla base dei ragazzi del Pd: siate contenti, è il vostro momento questo, abbiamo un'occasione unica, Dio mio, unica, che non si riproporrà più così. Questa pena che vedo, questa mancanza di ironia, dovete sedervi a un tavolo ed essere euforici perché appartenete a questo momento straordinario di cambiamento. Abbiamo da progettare il mondo, invece ci abbrutiamo, e le scalette e il posto lo do a chi, e i dieci punti, i venti punti, basta!».«Non voglio», insisteva Beppe il 12 ottobre, rivolgendosi ai militanti alla kermesse nazionale di Napoli, «che rimanete qui a dire sempre Pd, Pd. Stavolta vaffanculo a voi!». Vaffanculo a te, stavolta, Beppe, gli hanno urlato in faccia i militanti e gli iscritti, affossando l'altro ieri con il 70% di no quella desistenza mascherata da «pausa» che avrebbe consentito alla sinistra, in Emilia Romagna e in Calabria, di giovarsi dell'assenza del M5s sulla scheda elettorale. Un vaffa che era già arrivato, magari meno clamorosamente, quando lo scorso 27 ottobre i cittadini dell'Umbria avevano sonoramente castigato il M5s, che si era alleato col Pd dopo averne denunciato per anni sprechi, nefandezze, incapacità politica e amministrativa. Così, ieri, Beppe Grillo si è fiondato a Roma, per tentare di rianimare la sua creatura, ormai esangue, ma anche per provare forse a riannodare i fili di un rapporto con il suo elettorato che è ormai incrinato, probabilmente in maniera irrimediabile. Giunto nella capitale nel tardo pomeriggio, Grillo, visibilmente nervoso, insofferente alle domande dei giornalisti che lo aspettavano all'esterno dell'albergo, ha risposto ruvido a chi gli ha chiesto se il M5s fosse biodegradabile: «Ormai i comici siete voi», ha sibilato il fondatore del M5s, ormai nei panni dell'affondatore, prima di incontrare il senatore Elio Lannutti, suo vecchio amico. È arrivato a Roma mentre Luigi Di Maio era in Sicilia e Roberto Fico a Napoli, il Grillo sfanculato e probabilmente ossessionato dai suoi errori, a partire da quella incomprensibile forzatura che ha portato il movimento all'abbraccio mortale col Pd. Una mossa repentina, spericolata, inattesa, contraria ai principi del fu M5s, per molti versi ancora avvolta nel mistero.
Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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Ecco #DimmiLaVerità del 10 dicembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico analizziamo gli ostacoli che molti leader europei mettono sulla strada della pace in Ucraina.
L’intesa riguarda l’acquisto di un’area di 15.000 metri quadrati dal Consorzio ZAI e prevede un investimento complessivo di circa 20 milioni di euro. Si tratta di un progetto greenfield, cioè realizzato ex novo, che darà vita a un centro di manutenzione pensato fin dall’origine per rispondere alle esigenze della logistica ferroviaria europea e alla crescita del traffico merci su rotaia.
Il nuovo impianto sarà concepito secondo un modello open access, dunque accessibile a locomotive di diversi costruttori. L’hub ospiterà cinque binari dedicati alla manutenzione leggera e un binario riservato al tornio per la riprofilatura delle ruote, consentendo di effettuare test e interventi su locomotive multisistema e in corrente continua, compatibili con i principali sistemi di segnalamento europei. L’obiettivo è garantire elevati livelli di affidabilità e disponibilità operativa dei mezzi attraverso ispezioni programmate e interventi rapidi lungo l’intero ciclo di vita dei veicoli.
La scelta di Verona si lega alla centralità del corridoio Verona–Brennero, infrastruttura destinata a un deciso aumento della capacità ferroviaria con l’apertura della Galleria di Base del Brennero, prevista per il 2032. Il nuovo hub si inserirà inoltre in una rete già consolidata, integrandosi con il Rail Service Center di Siemens Mobility a Novara, operativo dal 2015 sul corridoio TEN-T Reno-Alpi e oggi punto di riferimento per la manutenzione di oltre 120 locomotive di operatori europei.
«Questo investimento rappresenta un ulteriore passo nel nostro impegno a favore di un trasporto merci sempre più sostenibile», ha dichiarato Pierfrancesco De Rossi, Ceo di Siemens Mobility in Italia. Secondo De Rossi, il nuovo hub di Verona è «una scelta strategica che conferma la fiducia di Siemens Mobility nel Paese e nel suo ruolo centrale nello sviluppo del settore», con l’obiettivo di rafforzare la posizione dell’Italia nella rete logistica europea e sostenere il passaggio verso modalità di trasporto meno impattanti.
Il progetto nasce dall’integrazione delle competenze delle due aziende. Siemens Mobility porterà a Verona l’esperienza maturata nella manutenzione delle locomotive dedicate al trasporto merci, mentre RAILPOOL contribuirà con il know-how sviluppato a livello europeo, facendo leva su sei officine di proprietà e su una rete di supporto che può contare su oltre 4.500 parti di ricambio disponibili a magazzino.
«Con il nuovo centro di manutenzione di Verona ampliamo il nostro potenziale manutentivo in una delle aree logistiche più strategiche d’Europa», ha spiegato Alberto Lacchini, General Manager di RAILPOOL Italia. Si tratta, ha aggiunto, di un investimento che riflette «un impegno di lungo periodo nel fornire soluzioni di leasing affidabili e complete», in grado di rispondere a esigenze operative in continua evoluzione.
La collaborazione tra Siemens Mobility e RAILPOOL si inserisce in un percorso avviato nel 2024, quando le due società hanno sottoscritto un accordo quadro per la fornitura a RAILPOOL di circa 250 locomotive, incluse le varianti multisistema Vectron oggi operative in 16 Paesi lungo i principali corridoi ferroviari europei.
Sul valore dell’investimento è intervenuta anche Barbara Cimmino, vice presidente di Confindustria per l’Export e l’Attrazione degli Investimenti e presidente dell’Advisory Board Investitori Esteri. «L’investimento di Siemens Mobility in Veneto è un segnale significativo per la competitività italiana», ha affermato, sottolineando come il progetto confermi la centralità del Paese nella logistica ferroviaria europea e nei processi di transizione sostenibile. Un’iniziativa che, secondo Cimmino, evidenzia il contributo degli investitori internazionali nel rafforzare le filiere strategiche e la capacità dell’Italia di offrire ecosistemi solidi e competenze tecniche avanzate.
Per Siemens Mobility, la manutenzione delle locomotive resta una delle attività centrali anche in Italia, all’interno di una rete globale che comprende oltre 100 sedi in più di 30 Paesi e circa 7.000 specialisti. L’apertura del nuovo hub di Verona consolida questo presidio e rafforza il ruolo del Paese come snodo industriale e logistico in una fase di forte crescita del trasporto merci su ferro.
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