Dopo le parole di Amara alla «Verità», trasmessa in Cassazione una relazione sul pm «in ginocchio». Si può riaprire il caso Palamara. Le analogie con le inchieste sulla toga Duchini e sulla ex governatrice Marini.
Da settimane i media si stanno occupando del cosiddetto Sistema Pavia, un coacervo melmoso di indagini e affari scoperchiato mediaticamente anche grazie agli scoop della Verità. Ora, sempre grazie al nostro lavoro, sta emergendo come anche in Umbria i pm abbiano usato metodi non proprio ortodossi per raggiungere i propri obiettivi. Ricordiamo che la Procura di Perugia ha la titolarità delle inchieste che coinvolgono i magistrati del distretto di Roma. Una funzione che rende quegli uffici giudiziari una delle Procure più influenti del Paese. Nonostante la sua centralità, resta, però, dal punto di vista dell’organico e forse dell’attitudine, un ufficio di provincia, dove tutti si conoscono e le vite delle persone si intrecciano indissolubilmente.
Immersa in questo humus, la Procura di Perugia ha dovuto affrontare indagini forse troppo grandi ed è stata accusata di clamorosi sfondoni giudiziari. Due esempi? L’inchiesta sul mostro di Firenze, finita nel nulla, o le accuse, successivamente cadute, ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher. Ma il procedimento più controverso avviato dalla Procura umbra è stato il cosiddetto caso Palamara che adesso qualcuno sembra pronto a riscrivere. Lunedì La Verità ha pubblicato un’intervista a Piero Amara, un avvocato accusato di avere corrotto giudici e organizzato logge massoniche. Con noi ha detto testualmente: «Durante l’indagine perugina nei confronti miei e di Luca Palamara […], un pm, scherzosamente, si mise in ginocchio dinanzi a me, nel senso letterale del termine, e mi disse: “Avvocato mi faccia fare l’indagine della vita su Palamara”. Io ho continuato a dire la verità e cioè che non avevo corrotto Palamara».
Quel magistrato sarebbe Mario Formisano, il quale, in una relazione inviata nelle scorse ore al procuratore Raffaele Cantone, ha negato la ricostruzione dell’ex legale e, a sostegno della propria tesi, ha ricordato che l’interrogatorio era registrato (ma durante le verbalizzazioni ci sono anche delle interruzioni). In Procura ricordano che, durante l’esame di Amara nel processo a Palamara e al pm Stefano Fava, l’ex legale avrebbe dedicato a Formisano una sviolinata, mentre oggi lo accusa di un gesto grave. Il dato certo è che ci troviamo di fronte a un doloroso contrappasso: per mesi diverse Procure italiane hanno trattato Amara, un professionista delle confessioni a rate, come un testimone credibile, un pentito a 24 carati. Ma adesso le sue dichiarazioni potrebbero mettere in difficoltà coloro i quali lo avevano coccolato e utilizzato come piede di porco per scardinare la difesa di questo o quell’indagato.
Per esempio, sarà difficile per Formisano dare del bugiardo a un uomo a cui aveva consegnato la patente di «pentito» affidabile quando accusava Palamara o Fava. I testimoni presenti all’interrogatorio del 12 giugno 2019, quello del presunto inginocchiamento, erano i due avvocati di Amara (Salvino Mondello e Francesco Montali) e due investigatori della Guardia di finanza (il maggiore Fabio Di Bella e il luogotenente Domenico Bilotti), che adesso potrebbero essere convocati sia dal Csm che dalla Procura generale della Corte suprema della Cassazione. Infatti, il procuratore generale di Perugia, Sergio Sottani, si è immediatamente attivato dopo avere letto l’articolo della Verità e, in un comunicato diramato ieri, ha spiegato che «preso atto della rilevanza delle dichiarazioni riportate e della necessità di un tempestivo approfondimento, ha immediatamente interpellato il procuratore della Repubblica di Perugia (Cantone, ndr). Quest’ultimo ha prontamente fornito ogni elemento utile alla valutazione del caso, assicurando piena collaborazione e trasparenza».
Sottani, «a seguito delle informazioni ricevute», mercoledì, «ha trasmesso alla Procura generale presso la Corte di cassazione una relazione dettagliata, contenente tutte le informazioni acquisite e gli approfondimenti ritenuti necessari per una compiuta valutazione della vicenda». Intanto anche tre consiglieri del Csm (i laici Isabella Bertolini e Claudia Eccher e il togato Andrea Mirenda), come abbiamo anticipato ieri, hanno chiesto l’apertura di una pratica di incompatibilità. In questo caso, a interessare i membri di Palazzo Bachelet sono anche le chat di tre pm (Formisano, Gemma Miliani e Paolo Abbritti) con l’ex cancelliere Raffaele Guadagno. In tali conversazioni i magistrati consigliavano all’impiegato di rilasciare dichiarazioni «fuori verbale» per «aprire l’ambiente» nei confronti dell’ex procuratore aggiunto di Perugia, Antonella Duchini, processata e assolta a Firenze. Nelle comunicazioni rintracciate sui telefonini veniva concertata anche una campagna mediatica contro la stessa Duchini.
La vicenda Palamara ha svelato come l’allontanamento della donna da Perugia fosse considerato una priorità dai pm della Procura e come questi avessero fatto apposite pressioni sull’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, all’epoca snodo di tutte le nomine e dei procedimenti disciplinari dentro al Csm. Con persone a lui vicine, Palamara ha sostenuto di aver subito una forte pressione psicologica, dal momento che a Perugia, nel maggio del 2018, era stata trasmessa un’informativa che riguardava i suoi presunti rapporti di tipo economico con il lobbista Fabrizio Centofanti. Un’annotazione che avrebbe dato il via all’inchiesta che ha portato alla sua radiazione dalla magistratura. Insomma, una spada di Damocle che avrebbe costretto Palamara ad assecondare le richieste dei colleghi della Procura di Perugia.
L’ex ras delle nomine si sentiva sotto scacco e, per questo, si sarebbe interessato al procedimento disciplinare della Duchini, su input dei colleghi umbri. L’ex consigliere del Csm, in un’intercettazione, cita un colloquio che avrebbe avuto con il pm perugino Abbritti: «Paolo, guarda che se c’è qualcosa, io non posso fare questo processo alla Duchini», avrebbe detto. Ricevendo questa rassicurazione: «No, tu fallo tranquillamente, non c’è niente, non c’è niente». A maggio, al congresso di Unicost, la corrente di tutti e tre, Abbritti e Formisano avrebbero iniziato a convincere Palamara a interessarsi del caso Duchini, la quale, a marzo, aveva ricevuto un’informazione di garanzia da Firenze. Il 21 luglio 2018 il gip di Firenze respinge la richiesta di misura cautelare interdittiva nei confronti della Duchini. A proporla era stato l’allora procuratore aggiunto Luca Turco,che per questo, secondo Abbritti, avrebbe chiesto di far circolare la notizia del provvedimento disciplinare del Csm «per far aprire l’ambiente».
Il 27 luglio 2018 Abbritti scrive su Telegram a Palamara: «Firenze ci chiede se entro lunedì verrà sciolta la riserva sul cautelare (da parte del Csm, ndr). Devono decidere se impugnare ordinanza gip». Palamara risponde: «Il relatore deve depositare provvedimento perché lo sta scrivendo. Appena deposita ti avverto». Abbritti è riconoscente: «Grazie mille, ti abbraccio forte». Il 3 agosto arrivano buone notizie. Dalla segreteria della sezione disciplinare informano Palamara: «Ordinanza Duchini depositata... Ora stanno partendo le comunicazioni». Palamara invia immediatamente questo messaggio ad Abbritti: «Aggiorna il tuo capo (l’ex procuratore Luigi de Ficchy, ndr)». Il collega domanda: «Trasferimento ad Ancona? Si può avere?». In effetti, la donna è stata appena trasferita alla Corte di appello del capoluogo marchigiano con funzioni di consigliere. Passano dieci minuti e Abbritti comunica: «Avvisato il capo. Molto contento. Ti ringrazia». Anche perché sanno che il lavoro di Palamara non è scontato. Come si evince da un altro messaggio, relativo ad alcune nomine: «Intanto ti ringrazio per questo. So che avevi tante pressioni». Qualche anno dopo, durante il suo processo, Palamara chiede al gip se debba ricostruire questa storia. Ma il giudice preferisce passare oltre: «In realtà è una vicenda ulteriore». E nessuno la approfondisce più. Sino al nostro scoop.
Una notizia che ha destato l’attenzione dell’ex governatrice dell’Umbria, Catiuscia Marini, che ha trovato molte similitudini tra le sue peripezie giudiziarie e quelle di Palamara. Al punto da sentirsi l’ennesima vittima del Sistema Perugia. «Non appena l’indagine della Procura nei miei confronti è stata resa nota (venerdì 12 aprile 2019, sottolineo venerdì perché fino al lunedì successivo non abbiamo avuto accesso agli atti), i contenuti, compresi quelli delle captazioni che, da quanto mi risulta, non avrebbero potuto essere divulgati, erano, in realtà, nella piena disponibilità di alcuni organi di informazione locali e nazionali». Il riferimento è in particolare al Corriere della Sera. «Proprio un giornalista, a cui avevo domandato dove avesse recuperato quelle informazioni, di cui io non ero in possesso, aveva fatto esplicito riferimento ad “ambienti della Procura”». In quel periodo la Marini era presidente della Regione e la sua vicenda assume un rilievo nazionale: «Vengo sottoposta a una travolgente gogna mediatica per un presunto abuso di ufficio: si mette in moto un violento attacco giudiziario-mediatico-politico che da lì a un mese mi costringe alle dimissioni». In quel lasso di tempo, però, la Procura non aveva sentito l’esigenza di interrogarla. La Marini rivela anche un altro aspetto preoccupante della sua vicenda: «Esponenti politici e istituzionali del Pd, partito al quale fino al 2019 ero iscritta, avevano un contatto diretto con gli inquirenti, al punto da conoscere dettagli dell’inchiesta che non avrebbero dovuto sapere. L’onorevole Valter Verini, nominato commissario regionale del Pd, fece pressioni indebite per tutta la giornata del 16 aprile 2019, anche in presenza di testimoni, per obbligarmi alle dimissioni facendo esplicito riferimento ai possibili futuri sviluppi dell’inchiesta».
L’ex governatrice venne anche contattata dal cancelliere Guadagno, l’uomo dei misteri. «Qualche tempo dopo le mie dimissioni, mi contattò sui social e mi propose di prendere un caffè. Successivamente ho capito che voleva parlarmi della mia vicenda giudiziaria e dell’eco avuta sulla stampa. Su questo episodio sono stata sentita in Procura, ma non ho mai saputo che evoluzione abbia avuto l’indagine». L’ex esponente dem ha maturato un suo convincimento: «Dalla lettura dei vostri articoli ho capito che questa persona era probabilmente il tramite con la stampa, almeno con quella locale».
La Marini, dunque, riscontra molte analogie tra il suo caso e quello di Palamara, anche nell’utilizzo dei testimoni: «Ritengo grave e incomprensibile il ruolo di “testimone” a mio carico attribuito a un ex collaboratore della presidenza della Regione (Valentino Valentini), che, a mio giudizio, avrebbe dovuto essere sentito, come “indagato”: nella stessa giornata del 12 aprile 2019 trascorre circa 5 ore negli uffici prima della Guardia di finanza e poi della Procura, rispondendo a due distinti interrogatori (negli atti le sue dichiarazioni sono riassunte in non più di 12-14 righe) che si contraddicono. Mi è sempre sembrato impossibile che con le dichiarazioni che lui ha reso non sia finito sotto inchiesta e sia stato utilizzato come testimone contro di me». Così veniva amministrata la giustizia in Umbria quando i pm potevano costringere alle dimissioni governatori e consiglieri del Csm sulla base di accuse fumose.







