Donald Trump ha riportato al centro dell’attenzione internazionale la questione degli ostaggi israeliani detenuti da Hamas a Gaza con dichiarazioni che hanno subito innescato reazioni a livello politico e diplomatico. Intervenendo dalla Casa Bianca in occasione di un annuncio sui prossimi Mondiali di calcio (2026), Trump ha affermato che i prigionieri israeliani ancora in vita sarebbero meno di 20, ipotizzando che alcuni possano già essere deceduti. Ha inoltre rivendicato il merito di aver fatto uscire «molte persone» da Gaza, richiamando il ruolo dell’amministrazione statunitense nei precedenti cessate il fuoco. Le sue parole hanno avuto un effetto immediato: il Forum delle famiglie dei rapiti e dei dispersi ha diffuso una nota di forte critica, ribadendo che per loro gli ostaggi sono 50 e che ognuno rappresenta «un mondo intero».
Le affermazioni di Trump hanno così aperto un nuovo fronte di tensione tra le famiglie, le autorità israeliane e la diplomazia americana, mettendo in luce quanto la gestione delle informazioni sugli ostaggi sia divenuta un terreno di scontro politico e simbolico. La posta in gioco non riguarda soltanto la sorte dei prigionieri, ma anche il controllo della narrazione, in un momento dove Israele deve affrontare contemporaneamente la pressione interna e l’attenzione della comunità internazionale. Sul piano mediatico e diplomatico le tensioni si estendono anche al tema umanitario. L’ambasciatore statunitense in Israele, Mike Huckabee, ha definito le Nazioni Unite «corrotte e incompetenti» per aver diffuso la valutazione che a Gaza sia in corso una carestia. Secondo Huckabee, mentre gli ostaggi rischiano di morire di fame, Hamas trae beneficio da una gestione distorta degli aiuti, e cibo e forniture restano inutilizzati. Sempre a proposito di Onu, Philippe Lazzarini, commissario generale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente (Unrwa) lascerà la sua funzione il prossimo marzo al termine del suo mandato. «Penso che due mandati siano sufficienti», ha detto rispondendo a una domanda sul suo futuro. È bene ricordare che sotto la sua guida l’Unrwa, secondo i servizi di sicurezza israeliani, è stata infiltrata in modo sistematico da Hamas e da altre organizzazioni radicali. Diversi dipendenti, tra cui insegnanti, sono stati collegati a manifestazioni a favore della lotta armata o a vere e proprie attività militari. Israele ha diffuso nomi e foto di funzionari accusati di aver partecipato ad attacchi o ricoperto ruoli operativi nelle brigate di Hamas.
Parallelamente, l’ambasciatore israeliano Jonathan Peled, commentando un’inchiesta giornalistica del Tempo, ha espresso preoccupazione per i legami di alcune figure che operano nel nostro Paese con Hamas, ricordando come alcune siano già state colpite da sanzioni statunitensi, vedi Mohammad Hannoun. Peled ha parlato apertamente di «guerra mediatica», sottolineando che Israele, pur prevalendo militarmente, starebbe perdendo la battaglia della comunicazione a causa di disinformazione, propaganda e pregiudizi antisionisti. Ha criticato inoltre la relatrice speciale Onu Francesca Albanese, accusandola di affermazioni «distorte e sproporzionate» sul ruolo di Hamas, e ha denunciato un forte aumento dell’antisemitismo in Europa e in Italia, sostenendo che la vita quotidiana per molti ebrei sia divenuta più difficile, tra minacce, aggressioni verbali e scritte offensive. Mentre sul versante diplomatico e mediatico si moltiplicano gli scontri, Hamas ha rilanciato la propria strategia di mobilitazione popolare con l’annuncio di un «pellegrinaggio di massa» verso la moschea di al-Aqsa, in risposta alle incursioni di gruppi di coloni israeliani. L’organizzazione ha parlato di «pratiche terroristiche e provocatorie» e ha invitato a intensificare gli sforzi contro l’espansione degli insediamenti israeliani, richiamando il valore simbolico e religioso del terzo luogo sacro dell’Islam per rafforzare la propria legittimità non solo a Gaza ma in tutto il mondo musulmano. Sul fronte militare Israele si prepara a una nuova offensiva su Gaza City, che secondo Channel 12 potrebbe iniziare a metà settembre, subito dopo la rimessa in servizio dei riservisti richiamati per il 2 del mese.
L’operazione, ribattezzata da Netanyahu «Iron Fist», dovrebbe prevedere l’evacuazione di circa un milione di palestinesi e sarà finalizzata a riprendere il controllo del principale centro urbano dell’enclave. Netanyahu e i vertici politici premono per accelerare l’avvio dell’operazione, convinti che la pressione militare aumenti la possibilità di ottenere concessioni da Hamas nei negoziati sugli ostaggi. Secondo il generale (rit.) Giorgio Battisti «il combattimento nei centri abitati ha caratteristiche proprie che rimangono simili nel tempo, poiché è il prodotto riflesso delle opportunità offerte da un ambiente creato dall’uomo per scopi pacifici ma capace di trasformarsi in una realtà ostile difficile da dominare: un inferno a tre dimensioni. L’estensione verticale costituisce l’aspetto cruciale delle operazioni in aree urbane. Si tratta di un terreno multidimensionale, costituito da sottosuolo (sotterranei, fognature, gallerie), superficie (livello stradale) e interno (edifici, parti superiori di edifici e spazio aereo), che rende anche più difficile l’evacuazione dei feriti. La minaccia può manifestarsi in vari modi, da parte di un nemico che conosce il campo di battaglia e si è preparato al combattimento, con imboscate, ordigni esplosivi improvvisati, franchi tiratori, lancio di droni esplosivi e incursioni alle spalle delle truppe avanzanti da parte di miliziani che utilizzano le vie del sottosuolo».
Mentre scriviamo alcuni media locali riferiscono che i carri armati delle forze israeliane hanno fatto ingresso nel quartiere di Sabra, situato nel cuore di Gaza City, nella parte centrale della Striscia. L’area si trova a nord rispetto al settore meridionale di al-Zaytoun, dove le truppe israeliane sono già impegnate nelle operazioni militari.







