Ecco #LaVeritaAlleSette del 1° febbraio 2022. Ospite Camilla Conti.
L'argomento di oggi è: «Caos pandemico e dossier economici roventi (Saipem)"
Ecco #LaVeritaAlleSette del 1° febbraio 2022. Ospite Camilla Conti.
L'argomento di oggi è: «Caos pandemico e dossier economici roventi (Saipem)"
In ordine sparso, senza regole comuni, ognuno fa quello che può: è questa la fotografia della scuola italiana a dieci giorni dalla ripresa post-natalizia e a due anni da inizio pandemia. Un caos che il ministro Bianchi tenta di contenere, almeno formalmente, attraverso la «guerra dei dati» ingaggiata con l’Associazione nazionale presidi. Questa, due giorni fa, stimava le classi aperte intorno al 50%, il ministro ha replicato che «i dati li dà il ministero, non l’Anp» e puntualmente ieri sono arrivati: secondo Bianchi le classi sono in presenza «al 93%», quindi non c’è allarme. Difficile dire chi abbia ragione: i presidi riferiscono situazioni specifiche e più nel dettaglio, dato che molte classi sono in modalità «blended» (mista), ossia con parte della classe in Dad (per dieci giorni) per positività o perché gli alunni sono contatti stretti di qualche familiare, e il resto in classe. Il ministro, da parte sua, riferisce la contabilità delle classi «tecnicamente aperte» che, non considerando i singoli alunni in Dad, di fatto alimentano il bollettino positivo del ministero. . L’elemento portante è che in Italia, da due anni, non solo le Regioni, non solo i Comuni ma addirittura i singoli istituti applicano ognuno regole diverse.
Lombardia, istituto comprensivo in provincia di Milano: medie tutte in Dad, primaria esce a pranzo. Avezzano: i genitori pro dad vogliono chiudere le scuole, il sindaco resiste. Benevento: l’ormai settantaquattrenne sindaco Mastella, rispettoso delle gerarchie, come si confà ai politici della prima Repubblica, tiene le scuole aperte come richiesto dal premier Draghi, ma non si esime dal denunciare che le mamme della sua città vogliono tenere i bambini a casa e lamentano che «i loro figli non sono cavie», nonostante nel Sannio a oggi quasi il 50 per cento dei bambini della fascia di età 5-11 anni sia già vaccinata. Varese: i dirigenti scolastici chiedono ai bambini la mascherina Ffp2 a scuola, nonostante l’art. 16 del Dl 221 espliciti chiaramente che vanno utilizzate soltanto dagli insegnanti, e solo in quelle classi ove ci siano studenti esentati dall’indossare le mascherine. Bari: le assenze in diversi istituti arrivano all’80%, una preside lancia l’appello ai genitori per «portare i bambini in classe». Piemonte: da ieri nelle scuole primarie piemontesi al primo caso positivo tutta la classe va in Dad. Una posizione che ha fatto esplodere la protesta delle famiglie, riunite nel Comitato Priorità alla scuola, che in una missiva se la prendono proprio con la Regione. «Le famiglie piemontesi – si legge nella lettera indirizzata tra gli altri al governatore Alberto Cirio e al ministro Patrizio Bianchi – hanno appreso prima dalle scuole, poi da anticipazioni di stampa che la Regione, il Dirmei e le Asl hanno valutato di non applicare i protocolli nazionali relativi alle quarantene scolastiche nella scuola primaria». La Dad con un solo caso positivo, infatti, «contraddice le “regole chiare per una scuola in presenza” varate poco più di 10 giorni fa dal governo, anche se nella prassi già avveniva da tempo».
Emilia Romagna: Paolo Pandolfi, direttore di Asl Bologna, ha pubblicamente dichiarato che la Asl avrebbe fornito ai dirigenti scolastici le liste degli studenti vaccinati e non; a Faenza i ragazzi sono dovuti andare a scuola con la fotocopia del green pass dove hanno dovuto appuntare a matita il calcolo dei 120 giorni dalla data di vaccinazione o guarigione. Firenze: una classe in Dad per tre positivi asintomatici. Meglio fermarsi qui, ma il cahier des doléances è infinito.
Non parliamo poi del protocollo avviato a novembre dal ministero, e durato l’espace d’un matin (fino a prima delle vacanze) perché caduto sotto il fuoco di fila dei tamponi che hanno mandato in tilt le Asl italiane: il «test to stay». Il protocollo prevedeva, in caso di un alunno positivo in classe, il tampone al «tempo zero» (T0, il giorno in cui veniva accertata la positività dell’unico alunno contagiato) e un test di controllo al quinto giorno (T5). Come pensate che sia finita? È finita che le Asl, tra tamponi per i lavoratori senza green pass da vaccino, screening e sintomatici, non hanno potuto sostenere questa mole di lavoro. Risultato: prima di poter fare il tampone iniziale passavano giorni, durante i quali i ragazzi restavano in Dad («per prudenza», ovviamente). Al rientro, il protocollo è stato lasciato soltanto per la scuola primaria. Il messaggio che ne esce, però, non è edificante: l’accesso all’istruzione, bene primario e diritto naturale, non può essere condizionato alla vaccinazione anti Covid. Vaccinazione richiesta con insistenza, anche quando arriva dal Cdc la conferma dell’innocuità di Omicron, ormai prevalente nel nostro Paese: - 91% di decessi rispetto alla variante Delta, -53% di ospedalizzazioni e -74% di terapie intensive.
Come uscire da questa impasse? Semplicemente, «facendo sì che il tampone ritorni a essere uno strumento diagnostico affidato ai medici e pediatri», come rileva la Rete Nazionale Scuola in Presenza, che ha indirizzato proprio ieri una lettera appello alle istituzioni per sollecitare una rapida uscita dal caos. Le continue quarantene mettono in difficoltà i minori, che a loro volta mettono in difficoltà le famiglie, che a loro volta mettono in difficoltà gli uffici e le aziende in cui lavorano, che a loro volta mettono in difficoltà l’economia del Paese. «Dobbiamo - scrive la Rete - iniziare a tamponare solo chi presenta sintomi; chi è negativo resta in classe, chi è positivo resta a casa, in modo di tutelare maggiormentela continuità didattica degli studenti». Gli studenti devono tornare in classe in presenza, insomma. Perché, come ormai è chiaro, se chiude la scuola, chiude il Paese.
Code per farsi il tampone pur avendo la prenotazione o la prescrizione del medico, code per ricevere il vaccino nel freddo e con i disagi di chi si porta appresso bambini o anziani. Dosi di anti Covid negate, se non le prenoti su intasatissime piattaforme, come avverte la Regione Lombardia. Bimbi portati a ricevere il siero negli hub predisposti ma che erano chiusi, nemmeno l’ombra di pediatri, come è successo a Padova.
Malati a casa che non ricevono cure né risposte dai loro medici come accade a Napoli, ma anche a Trieste dove a Capodanno c’era di turno una sola dottoressa per 200.000 abitanti. Lavoratori che si mettono in quarantena senza poter comprovare il contatto stretto con un positivo e che perciò rischiano di essere considerati assenti ingiustificati; quarantena non più rifinanziata quindi non assimilabile alla malattia.
Vaccinati con tre dosi, o due da meno di 120 giorni, liberi di poter andare al lavoro con mascherine Ffp2 se asintomatici, quando è ancora in vigore il protocollo che vieta l’accesso in fabbriche, uffici, negozi a chi abbia avuto contatti con positivi negli ultimi 14 giorni, perché può ancora trasmettere il virus.
L’elenco dei tormenti imposti ai cittadini è lungo, le previsioni a breve ancora più nefaste considerato che tra pochi giorni ai lavoratori non vaccinati sarà vietato salire su tram, bus, treni, traghetti. Se hanno una bicicletta o possono permettersi di usare l’auto, se possiedono una barca con cui raggiungere la terraferma dall’isoletta dove vivono, dal 10 gennaio potranno andare al lavoro. Altrimenti resteranno a casa, senza stipendio.
Che brutta cosa descrivere la situazione in cui è sprofondato questo Paese, grazie a una politica sanitaria dissennata. Un nuovo anno dovrebbe aprirsi all’insegna della speranza, anche se c’è una variante sudafricana che circola ed è tanto contagiosa ma non è la peste, i sintomi sono più lievi della Delta, non sta collassando ospedali e rianimazioni, invece non possiamo parlarne perché quella parola è tragicamente legata a un ministro che di salute non ha mai capito nulla.
I risultati li continuiamo a vedere, a distanza di due anni dall’inizio di un’emergenza in cui ministri e governo sembrano trovarsi così bene da non volerci più ridare la normalità. Tra le ultime, folli imposizioni, nella giungla di norme e protocolli in cui si trovano a brancolare positivi, guariti dal Covid, forzati della quarantena o dell’autoisolamento, forse l’unica buona notizia riguarda il green pass per i negativizzati. Verrà riattivato con un semplice tampone, è stato detto, senza bisogno del certificato di guarigione, documento quasi impossibile da ottenere visto che i medici di base non riescono a stare dietro alle richieste, e che stando alle promesse dovrebbe essere sostituito da una riattivazione automatica sulla piattaforma nazionale. Sei positivo? Il lasciapassare viene sospeso per tornare valido dopo un tampone negativo che non dovrà essere necessariamente un molecolare.
Molte Regioni hanno già dato queste disposizioni, definendo i test antigenici rapidi di «valore predittivo elevato e indicativo di una vera infezione da Covid», ovvero la malattia può essere correttamente diagnosticata, quindi non richiedono conferma con un tampone molecolare. Procedura finalmente autorizzata per semplificare e accelerare la presa in carico dei casi positivi e dei contatti stretti da parte dei dipartimenti di sanità pubblica, in base ai dati forniti dalle strutture pubbliche e private autorizzate a effettuare diagnostica rapida, e dalle farmacie convenzionate.
I tamponi rapidi permettono anche di determinare il periodo di fine isolamento, così come quello di fine quarantena, senza ricorrere alla Pcr. Ma se il cittadino che ha fretta di sapere se è tornato negativo perché deve ripresentarsi al lavoro e non può aspettare che il medico o l’Azienda sanitaria gli fissi l’appuntamento per il tampone, perciò decide di andare in farmacia a fare il test, può farlo o qualche agente gli farà la multa in quanto esce dalla quarantena senza autorizzazione? Questione non di poco conto, visti i tempi biblici per avere o scaricare i referti, ma che non trova risposta nelle «Faq» governative.
Il virus corre, ci viene ricordato con una comunicazione ossessiva, però ben poco sembra interessante quanto accade fuori da Pronto soccorso, reparti ordinari e terapie intensive. I cittadini che si scoprono positivi, o che confondono i sintomi influenzali con quelli del Covid, sono ancora una volta abbandonati a sé stessi, chiamano i medici e trovano linee occupate, telefoni che squillano a vuoto. Come la famiglia di Ponticelli, tutti vaccinati, con sintomi dopo il pranzo di Natale e che deve fare il test a domicilio ma «il medico di famiglia è andato in pensione e l’assistenza domiciliare programmata è rimasta nel limbo: non sanno a chi rivolgersi. E al distretto non risponde mai nessuno», scrive Il Mattino, descrivendo una delle tantissime situazioni che si sono create a Napoli e provincia.
In realtà in tutta Italia il cittadino è di nuovo in affanno. Gli viene detto di non andare al Pronto soccorso per non sovraccaricare le strutture ospedaliere, ma se resta a casa deve aspettarsi solo «tachipirina e vigile attesa», sempre che qualche medico volonteroso non rischi di suo per prescrivere terapie più adeguate.
Intanto i genitori, che rispondono ai pressanti inviti di immunizzare i bambini, inaugurano il nuovo anno facendo rischiare la polmonite ai figli perché devono stare ore all’aperto prima di entrare nel centro vaccinale della Fiera a Milano. E sanitari vaccinati che risultano ugualmente contagiati da Omicron, come i 13 infermieri del Pronto soccorso dell’ospedale Sant’Eugenio di Roma, vengono sostituiti dal personale di altri reparti, in questo modo non più operativi. Si procede così, verso il caos assoluto e ingiustificato.
Sabato, il governo ha tappato la clamorosa falla riscontrata nel sistema del green pass: il documento, infatti, rimaneva valido anche se il titolare, nel frattempo, era risultato positivo al Covid. Fino a pochi giorni fa, quindi, era la coscienza del singolo a costituire l’unico argine contro un uso sconsiderato della card: null’altro avrebbe impedito a un irresponsabile infetto, magari asintomatico, d’infischiarsene della quarantena.
Secondo le disposizioni del nuovo dpcm, da adesso in poi, la piattaforma Dgc, quella da cui già si scarica il foglio verde, genererà una revoca automatica, che scatterà nel momento in cui, «dal flusso dei tamponi molecolari che le Regioni e Province autonome inviano al Sistema Ts, risulti la positività al Sars-Cov-2 di una persona in possesso di certificazione verde», oppure se, a comunicare che il paziente è stato contagiato, sono «una struttura sanitaria afferente ai Servizi sanitari regionali, un medico di medicina generale, un pediatra di libera scelta». L’interessato riceverà quindi una notifica dell’avvenuto annullamento del suo lasciapassare. Elementare, Watson. Se non fosse che, tra il dire e il fare, c’è di mezzo il mare. Ovvero, l’oceano della filiera che parte, magari, dalla farmacia in cui si riceve la brutta notizia e arriva alle Asl, senza trascurare la frequente incomunicabilità tra diversi settori dello stesso apparato burocratico sanitario. Risultato: con buona pace di Palazzo Chigi, la solerzia con cui viene invalidata la tesserina dipende dal tempo che passa tra l’esecuzione del tampone positivo e l’effettivo avvio di una procedura che, in teoria, dovrebbe essere altamente automatizzata.
Che la trafila non sia fulminea, La Verità lo ha constatato ieri, esaminando, a titolo di esempio, il caso di una persona vaccinata con doppia dose, ammalatasi di Covid questo fine settimana, a Roma. Ironia della sorte, nelle stesse ore in cui veniva pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto di Mario Draghi.
Sabato sera si manifestano i tipici sintomi: febbre, tosse, dolori alle ossa, sensazione di debolezza; domenica mattina arriva il prevedibile verdetto del tampone; eppure, mentre il giornale andava in stampa, il green pass del nostro sfortunato testimone risultava ancora attivo a un regolare (e reiterato) controllo, che abbiamo effettuato tramite l’app messa a disposizione dal ministero della Salute, VerificaC19. Ancora nessun avviso era giunto dalla benedetta piattaforma nazionale Dcg. Nemmeno una telefonata da parte della Asl di competenza, almeno per informarsi sulle condizioni della persona malata - stavolta, un individuo giovane; ma se si fosse trattato di un nonnino, quante preziose ore sarebbero state perse senza curarlo? - e, soprattutto, per conoscere eventuali contatti a rischio da monitorare. Costoro, intanto, se non fossero stati allertati dal protagonista della spiacevole vicenda, disponendo a loro volta di una carta verde funzionante e inconsapevoli di potersi essere infettati, avrebbero avuto la facoltà di andarsene in giro per locali ed eventi. Alla faccia del green pass e della «garanzia di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose». Con tanti saluti al tracciamento.
Aspettiamo fiduciosi che i cervelloni elettronici elaborino le informazioni, o che gli uffici della Regione Lazio o della Capitale, all’uopo predisposti, portino a termine i compiti necessari. Vedremo quanti giorni passeranno prima che la persona infetta e sintomatica non sia più in grado di esibire un lasciapassare Covid valido.
D’altro canto, la medesima, farraginosa trafila sarebbe destinata a ripetersi in fase di riattivazione del certificato. Citiamo sempre il dpcm: «La revoca verrà annullata automaticamente a seguito dell’emissione della certificazione verde Covid-19 di guarigione dalla positività che l’ha generata». Quindi, lo sventurato interlocutore della Verità dovrebbe attendere la definitiva scomparsa dei sintomi, sottoporsi a un altro esame clinico dopo tre giorni e poi incrociare le dita. Lo sblocco sarebbe istantaneo, come avviene per il rilascio del super green pass in seguito alla vaccinazione? O si finirebbe ancora nella spirale degli uffici d’igiene, tra ritardi e persino arbitri, a leggere la testimonianza di una lettrice che riportiamo qui sotto?
E cosa accadrebbe, di preciso, alla carta verde? Se è corretta la nostra interpretazione, il titolare dovrebbe poter scaricare dalla piattaforma un lasciapassare come guarito, valido sei mesi dal giorno in cui è stata attestata la negatività al tampone, oltre a vedersi riattivato il precedente certificato Covid, fino a scadenza naturale. Abbiamo chiesto una conferma al dicastero, ma l’ufficio stampa ci ha invitati a inoltrare il nostro quesito via email. Una di quelle che, temiamo, di solito giacciono inerti nelle caselle di posta online degli uffici pubblici. Speriamo che non accada qualcosa di simile con i green pass degli ammalati.
«Dopo 5 mesi il vaccino perde ogni giorno un po’ di validità rispetto alla circolazione del virus e in un momento come questo bisogna anche pensare di ridurre la durata del pass», ha detto, Guido Rasi, ex direttore esecutivo Ema e consulente del commissario straordinario per l’emergenza Covid. Se quello di Rasi rimarrà solo un appello o no, temiamo di scoprirlo presto. Per la precisione il 23 dicembre a Palazzo Chigi in occasione della cabina di regia. Al netto di nuove e temporanee chiusure, cosa succederebbe se fosse accorciata nuovamente la durata del certificato? E se venisse ridotto ulteriormente il tempo massimo da far passare tra la seconda e la terza dose? Prima di delineare i possibili scenari da incubo, partiamo dalla fotografia della situazione attuale. In base ai dati aggiornati a ieri, il 77,72% della popolazione ha completato il ciclo vaccinale primario. Il 2,98% è in attesa di seconda dose. Il 23,83% ha fatto la terza dose. Considerando gli over 5, il 79,86% è vaccinato. Attenzione, però: al momento ci sono 14,1 milioni di persone che potrebbero ricevere la terza dose essendo passati 150 giorni, ma non l’hanno ancora avuta. Immaginate. Cambiando ancora le carte in tavola (il green pass all’inizio valeva nove mesi, poi 12, poi di nuovo nove) 14 milioni di persone si troverebbero improvvisamente no vax, no booster ed «espulsi dalla società», per citare il premier, senza aver mosso dito. Anche volendo correre a farsi rivaccinare si troverebbero di fronte a un problema di organizzazione degli slot: a Milano, per esempio, chi aveva prenotato rispondendo subito alla prima chiamata del governo sulla necessità di fare il terzo shot dopo 6 mesi e ora deve anticipare tutto di un mese deve cancellare la prenotazione con il rischio però di non trovare più posto, o di trovarlo a decine di chilometri di distanza da casa. C’è poi un altro problema. Le forniture programmate basteranno a soddisfare la domanda? L’ennesimo effetto imbuto sarebbe inevitabile. Le scorte di vaccini vanno pianificate: bisognerebbe, ad esempio, evitare fin da subito gli open day senza prenotazione che, come abbiamo visto in passato, non consente di organizzare adeguatamente l’utilizzo delle fiale nei magazzini delle Regioni. Un altro punto centrale, per calcolare il fabbisogno di dosi, sarà capire quanti italiani si sono già vaccinati entro la finestra temporale che verrebbe richiesta in modo da stimare anche i target di somministrazione necessari che la struttura commissariale dovrebbe richiedere alle Regioni. La campagna vaccinale viaggia attorno a una media settimanale di 500.000 iniezioni. Basterà per gestire il prevedibile flusso extra di richieste? Non solo, durante le feste natalizie gli hub viaggiano a ritmi ridotti, con i turni per le ferie di vaccinatori, medici e volontari. C’è, infine, l’aspetto logistico-tecnologico da non sottovalutare che riguarda la app per la verifica del green pass e il sottostante codice QrCode. L’idea di accorciare la durata della carta aprirebbe a un procedimento di revisione, semplice nella tecnica, ma difficilissimo nella gestione logistica per chi non ha smartphone oppure ha utilizzato le farmacie come tramite. La piattaforma dovrà emettere a tutti gli utenti una notifica per segnalare la nuova data di scadenza e avvisare della necessità di effettuare un nuovo download. I più anziani dovrebbero avere fornito anche un numero di cellulare di riferimento. Ma nessuno in questo momento può fornire la garanzia che saranno informati del cambio di durata. Il rischio si evince anche da un passaggio contenuto nel Dpcm finito in Gazzetta venerdì sera che fa fare al green pass un ulteriore passo in avanti nel violare la privacy delle persone. Alla sua nascita la carta verde non prevedeva la differenziazione tra positivi e negativi al virus. Un errore che a livello di contagi è costato caro, al di là della pericolosa narrazione della politica che ha identificato il possesso della carta verde a un lasciapassare sanitario. D’altro canto il garante della privacy si è più volte opposto a rendere palese lo stato di salute di un cittadino. L’altra sera è stato abbattuto anche questo ostacolo. Da oggi, le Ats avranno l’obbligo di segnalare ai gestori della piattaforma nazionale Dgc che gestisce il green pass la positività al Covid di un utente. A quel punto chi tiene le chiavi della blockchain disattiverà il relativo Qrcode fino alla ricezione del secondo messaggio da parte dell’Ats, in cui si certifica il ritorno alla negatività. Nel testo del Dpcm c’è il passaggio allarmante di cui abbiamo fatto cenno sopra. «La piattaforma invia la notifica della revoca all’interessato», si legge nel testo, «per il tramite dei dati di contatto eventualmente disponibili». In questo avverbio è contenuta la sintesi del caos che potrà scatenarsi. Un conto è annunciare l’obbligo della terza dose (ai fini del green pass) lasciando un lasso di tempo di quattro mesi per far scadere il pass. Un conto è allineare le date infilando 14 milioni di italiani in un imbuto. Qualcuno al governo ha già valutato gli effetti? Perché il track record sin qui non è certo dei migliori. Invece di smantellare gli hub per poi essere costretti a riaprirli in fretta ingolfando le prenotazioni delle terze dosi, invece di annunciare immunità di gregge mai raggiunte, alzando continuamente l’asticella e aumentando al contempo la platea da vaccinare o ri-vaccinare, sarebbe stato più opportuno dopo due anni di Covid cambiare il metodo con cui sono fatte, se vengono fatte, le valutazioni ex ante. Sarebbe il caso di voltare pagina e smettere di trattare gli italiani come capri espiatori, lasciandoli in balia di una burocrazia che è tanto più digitale quanto più pericolosa.

