Il premio Nobel tedesco, nominato uomo del secolo dalla rivista «Time» nel 1999, moriva a Princeton (Usa) il 18 aprile 1955.
Benedetto Croce (Ansa)
Benedetto Croce declinò l’invito di Pietro Nenni a divenire presidente della Repubblica, eventualità di cui aveva parlato anche con Albert Einstein nella loro corrispondenza. Il filosofo si reputò non all’altezza: un grande gesto, però così restano solo i mediocri.
Enrico De Nicola fu il primo, e tuttora ineguagliato, presidente della repubblica italiana. Parlamentare, sottosegretario e presidente della Camera fino al 1924, e rieletto nelle elezioni svoltesi quell’anno, non prestò giuramento e si ritirò dalla vita politica. Rientratovi dopo la caduta del fascismo, fu un amico a informarlo, con sua sorpresa, che era stato nominato presidente, perché lui non c’era. Andò allora da Torre del Greco a Roma con la sua macchina, rifiutò lo stipendio previsto per il capo dello Stato, giudicò improprio stabilirsi al Quirinale e continuò a spendere soldi suoi e a indossare un cappotto rivoltato. Di lui ricordo un aneddoto, che lessi molti anni fa e dà una buona idea della sua natura. Era venuto a trovarlo un nipote; dopo una chiacchierata, quando l’ospite era sul punto di congedarsi, De Nicola si affrettò a dargli le 35 lire che gli sarebbero servite per prendere il tram. Un’altra Italia! Con personaggi di questo calibro, credo che non ci sarebbero stati comici licenziati in tronco per essersi permessi una battuta su un presidente (Gronchi) o un giornalista condannato per averne diffamato un altro (Napolitano). Eppure avremmo potuto avere di meglio. Anche Benedetto Croce aveva partecipato alla vita politica fino ai primi anni Venti: senatore e, per un anno, ministro della pubblica Istruzione. Anche lui si era ritirato dalla vita politica poco dopo l’avvento del fascismo. Aveva rifiutato di compilare la scheda inviata a professori universitari e membri di accademie per darne una classificazione razziale ed era stato di conseguenza espulso da tutte le accademie di cui faceva parte (non insegnava all’università), inclusa quella dei Lincei; era rientrato in politica dopo il crollo del regime diventando presidente del Partito liberale. Era stato inoltre, per circa mezzo secolo, il filosofo italiano più famoso al mondo: non un membro di una cordata di entusiasti di un qualche pensatore d’Oltralpe ma un autore che sviluppò una propria riflessione personale. Io non credo che sia stato un grande filosofo, e nel capitolo che gli ho dedicato in Il pensiero come stile ho cercato di chiarire quali siano stati i suoi altri meriti di intellettuale; ma il mio giudizio non è pertinente al tema che sto trattando qui. È un fatto oggettivo che le sue opere fossero lette (non necessariamente in traduzione, perché l’italiano era allora una delle lingue della cultura internazionale) e commentate all’estero, dove avevano un loro seguito. Come è un fatto, che ho potuto appurare studiandolo, che quelle stesse opere contenessero citazioni in lingua originale inglese, francese, tedesca e spagnola, oltre che in latino e in greco antico; senza muoversi dal suo studio, aveva acquisito una competenza linguistica che dovrebbe far impallidire per i propri strafalcioni l’attuale folla sguaiata di politici, accademici, giornalisti e imprenditori.
Il 22 giugno 1946, mentre si avvicinava il voto che avrebbe eletto presidente De Nicola, Pietro Nenni scrisse a Croce la lettera seguente: «Illustre amico, i miei compagni della direzione del Partito desiderano sapere se Ella lascerà porre la Sua candidatura alla presidenza della repubblica. Noi saremmo lieti di dare a Lei i nostri voti nella convinzione, attinta alla coscienza che abbiamo dei più alti interessi del Paese, che nessuno meglio di Lei può oggi, di fronte al mondo, rappresentare l’Italia e garantire con sicura lealtà la vita della repubblica italiana». Non era la prima volta che qualcuno lo invitava a considerare una carica così prestigiosa: nel 1944 Albert Einstein gli aveva scritto ricordandogli il governo dei filosofi invocato da Platone.
Croce aveva risposto a Einstein, coerentemente con le sue idee filosofiche, che compito della filosofia è preparare l’azione, non sostituirla. La sua risposta a Nenni fu analoga: «Pregiatissimo amico, la fiducia che la direzione del Partito socialista italiano ha voluto attestare alla mia persona mi ha indotto a rinnovare un esame di coscienza che più volte, in casi simili, avevo fatto e che aveva avuto costantemente la stessa conclusione. Io, com’Ella sa, ho speso la vita negli studi; sebbene da tre anni in qua, per dovere di cittadino, abbia prestato opera nella politica, ho sempre badato a tenerla nei confini di quel che so e posso onestamente fare in relazione alla mia capacità e alle mie forze. Ma l’ufficio al quale mi si vorrebbe ora chiamare esce troppo da questi limiti e mi fa gravemente sentire l’inadeguatezza ad esercitarlo. Perciò non mi è consentito di lasciare porre la mia candidatura a presidente della Repubblica italiana e debbo pregare Lei di presentare le mie scuse e i miei vivi ringraziamenti ai suoi colleghi della direzione del Partito, che hanno voluto darmi una prova di benevolenza della quale serberò sempre memoria».
All’epoca, Croce aveva 80 anni; sarebbe morto nel 1952. E certamente tanta modestia, a fronte della sua straordinaria autorità intellettuale, gli fa onore e suscita, se paragonata agli atteggiamenti di chi fa politica oggi, una sconfinata ammirazione. Una modestia, del resto, che fu comune a De Nicola: nominato anche presidente del Senato e della Corte Costituzionale, mancò di poco l’exploit di ricoprire nella sua vita le cinque maggiori cariche istituzionali. Perché? Perché, proposto nel 1921 da Giolitti come suo successore alla presidenza del Consiglio, preferì rinunciare. Digerita l’ammirazione, però, subentra in me la tentazione di un rimprovero. Non dovrebbero, personaggi del genere, capire che, se rinunciano loro, aprono la strada a quegli altri, a quelli che abbiamo imparato a conoscere bene? Non dovrebbero sentire il dovere di non rinunciare?
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Ansa
La teoria dello scienziato sulla roulette: «Rubate i soldi al croupier quando non vi vede». Ma se fate pace col concetto, il vizio del tavolo verde può anche essere rilassante. Come insegnava un pezzo grosso della Dc.
Dopo tante pagine sul gioco d'azzardo, che vi ho dedicato nelle ultime settimane, penso che sia opportuno proporvi tre domande definitive. É conveniente giocare? Perché si gioca? Si può vincere, in tempi lunghi?
Cominciamo dalla terza, l'ultima, forse la più facile.
«L'unico metodo per battere la roulette consiste nel rubare i soldi mentre il croupier non guarda». Lo scrisse Albert Eistein (nato a Ulma, in Germania, il 14 marzo 1879, morto il 18 aprile 1955, a Plainsboro nel New Jersey, Stati Uniti). Einstein! Il fisico tedesco naturalizzato svizzero e statunitense, considerato il più importante del ventesimo secolo, conosciuto dal grande pubblico per la teoria della relatività, uno dei due pilastri della fisica moderna insieme alla meccanica quantistica premio Nobel nel 1921... Perfino lui si interessò all'azzardo, in particolare alla roulette, e arrivò a quella desolante battuta, a conclusione di un ponderoso studio sulle possibilità di vincita. E Einstein non fu certo il solo: la maggioranza degli appassionati ritiene che il gioco d'azzardo sia un divertente passatempo e mai un modo per mettersi in tasca un gruzzoletto. Il banco vince sempre, questo è sicuro! Tuttavia milioni di persone provano a giocare, in tutto il mondo o quasi.
Esistono le «quasi vincite», come il palo, la traversa nel calcio: sono quelle giocate che mancano il jackpot per un soffio. Che so: un numero mancante per vincere la lotteria, il cavallo arrivato secondo, il numero della roulette a fianco di quello appena puntato. Così si impreca contro la sfortuna o al contrario ci si convince che il colpo vincente stia per arrivare. Oppure - la scelta più gradita dal casinò - si puntano molti altri numeri: quelli immediatamente vicini, quelli abbastanza vicini... E spesso succede che il numero uscito è sempre uno a fianco di quelli giocati.
Molti pensano che vincere al gioco d'azzardo dipenda dal calcolo delle probabilità, da sapienti deduzioni matematiche. Macché, vincere al gioco non è improbabile: è quasi impossibile. Le analisi statistiche non funzionano, se si calcolano 100 o anche 1.000 numeri usciti alla roulette. È vero, statisticamente certo, che dopo decine di migliaia di colpi tutti i numeri sulla ruota (compreso l'odiatissimo o amatissimo numero zero) saranno usciti più o meno lo stesso numero di volte, e il colore rosso sarà uscito più o meno come il nero. Ma con quali sequenze? E quale giocatore ha tanto denaro in tasca per poter resistere al tavolo verde migliaia di colpi, per trarne le analisi statistiche più probabili?
Non facciamola lunga, vi racconto le mie esperienze e convinzioni personali. Se il rosso esce cinque o sei volte di seguito, quasi tutti pensano che inevitabilmente debba toccare al nero. Non io: punto sul rosso e ancora rosso e ancora e ancora finché il rosso non cade, come si dice in gergo. Sono un pazzo? Se mai, un pazzo lucido: perché credo nelle lunghe sequenze vincenti, direi che è l'unico modo per vincere in qualche misura significativa. Alla roulette, al black e jack, a punto è banco, a chemin de fer, ai dadi, a trente e quarante, in tutti i giochi... Un giorno, a Saint Vincent, mi avvicinai per caso a un tavolo di roulette e vidi che il 13 era uscito cinque volte di seguito. I giocatori erano fermi, nessuno puntava sul 13, pensando (con buon senso, il grande nemico dei giocatori) che l'uscita del 13 per la sesta volta di seguito fosse assolutamente improbabile. Una probabilità su 37... Sottovoce buttai un gettone al croupier e gli dissi: 13! Ma qualcuno ascoltò e mi guardò con ironia. Dopo pochi secondi il 13 uscì, e anche la settima e ottava volta... E vinsi una della sommetta. Grazie alla consuetudine (per me sacra) di lasciare un gettone sulla casella vinta. Perché la prima volta, sulla casella benedetta dalla fortuna e invocata dalla mia tenacia, c'era un gettone, la seconda volta due, la terza tre. Il 13, prima di arrendersi, era uscito otto volte consecutivamente. Fui premiato con un bel gruzzolo. Ma un giocatore più ricco e audace avrebbe fatto saltare il banco, puntando molto di più.
Anche al lotto (gioco raramente) mi guardo bene dall'inseguire i numeri ritardatari. Succede spesso che esistano ritardi incredibili e vi sembrerà assurdo, ma si ha notizia di giocatori del lotto che si sono rovinati puntando su numeri che non escono da alcune settimane o da molti mesi. All'inferno senza ritorno, si può dire così. Per quanto mi riguarda, preferisco farmi la mia brava giocata, in relazione a un mio sogno o a quelli di mia moglie o di un amico; non guardo neanche i numeri in ritardo. Ma il lotto paga poco, in rapporto alle probabilità di vincita, per me resta un piccolo sfizio, un divertimento occasionale.
Si perde sempre, dunque? No. Ci possono essere partite, serate fortunate. Si può vincere, come no? Il guaio è che, alla lunga, è pressoché impossibile vincere, salvo rare eccezioni, lo ripeto ancora.
È frequente sentir dire: «Ho il vizio del bere, del gioco…»; più raramente invece le persone affermano: «Sono un alcolista; un fumatore dipendente (tabagista); un giocatore patologico». Il proverbio è minaccioso: «Bacco, tabacco e Venere riducono l'uomo in cenere». E allora l'alcool, il fumo, il gioco d'azzardo sono vizio o malattia?
Il gioco d'azzardo è, se è esercitato con equilibrio e prudenza, un divertimento ludico e ricreativo. I problemi insorgono quando il gioco d'azzardo nasce da un impulso incontrollabile che può compromettere seriamente la vita dell'individuo. Attualmente, il gioco d'azzardo patologico è considerato una forma di «dipendenza senza sostanza»; un tempo, invece, era considerato una debolezza morale. Il vizio, infatti, è un comportamento deliberatamente messo in atto, al quale si riferiscono convincimenti moralistici negativi. Un comportamento che il giocatore può interrompere, volendo. La malattia invece è una condizione che il giocatore subisce e che lo priva di qualcosa (della salute in primo luogo) e diventa tale dal momento in cui insorgono le caratteristiche della dipendenza: il bisogno di avere sempre più gioco per ottenere lo stesso livello di eccitamento e soprattutto la presunzione di avere la capacità di smettere senza riuscirci nella realtà.
I giochi e le probabilità di vincere... Parliamone. La roulette come tutti i giochi d'azzardo garantisce al banco una percentuale matematica di vantaggio sul giocatore. Quella della roulette si aggira attorno al 2,70%, una delle quote più basse tra i vari giochi.
Le chance di vincita sono del 47% per roulette inglese e francese con scommesse su rosso/nero, pari/dispari, manque e passe (i numeri da 1 a 18 e da 19 a 36). Probabilità di vincere inferiore se si gioca alla roulette americana perché i numeri diventano 38: i furbi americani allo zero hanno affiancato il doppio zero. Quindi una probabilità su 38, anziché una su 37.
Il black jack è il secondo gioco con più alta percentuale di vincita. A questo aggiungete anche la vostra abilità nel contare le carte, per aumentare la vostra possibilità di vincita. Probabilità di vincere intorno al 40%.
I dadi sono il terzo gioco d'azzardo con alte probabilità di vincita che superano il 30%. Nei dadi, o craps, scommettere con una «pass the line bet» dà grandi possibilità di portarsi a casa la vittoria. Altrettanto simile è la «come bet». Le chance calano invece per gli altri tipi di scommesse possibili, non vale molto la pena tentare.
Tutti almeno qualche volta nella vita hanno voluto tentare la fortuna comprando uno delle decine di biglietti nella categoria gratta e vinci. La percentuale di vincita qui è a 1 su 3,60 con una quota che può salire fino al 73%. La «fregatura» di questi giochi però data dal numero di biglietti in vendita. Essendo molto alto, la maggior parte avrà delle vincite minime.
Slot machine. Per quanto dipenda molto dal tipo di slot machine e dal numero di righe presenti, le probabilità di vincita superano il 20%. Le slot machine sono un argomento molto dibattuto in Italia, il fatto di giocare con monete fa perdere di vista quanto in realtà si possa spendere con questo gioco d'azzardo.
Ed eccoci ai giochi che pagano di meno...
La Lotteria Italia è la più famosa in Italia, quella con il montepremi per lungo tempo, innumerevoli anni, più ricco. I premi in palio sono molti, la chance di vincita è medio/bassa. È stato calcolato che la probabilità di vincere è stimata intorno al 10%.
Infine, il Superenalotto. Spero che non siate quelli che sognano prima o poi di fare un 5+1 o un 6 al Superenalotto e diventare così milionari! Senza dubbio è il gioco con il montepremi più ricco e perciò ogni settimana ci sono migliaia di giocate. La probabilità però di aggiudicarvi il montepremi è pari a 1 su 622.614.630, lo 0,0000002%. .
Un mio carissimo amico è stato Gianni Bonelli, segretario onnipotente negli anni Settanta e Ottanta della Democrazia cristiana in Liguria. Era il potentissimo braccio destro, nella regione, di Paolo Emilio Taviani. Un formidabile, astuto, corretto giocatore, purtroppo defunto poco tempo fa. Spesso mi diceva: «La politica è micidiale, logorante per i nervi, piena di continue insidie, trappole, infinite discussioni. Credo di non essermi mai preso un esaurimento nervoso, grazie al relax di qualche ora ai tavoli verdi».
Questo è esattamente il punto cruciale a mio parere. Se pensate di arricchirvi con i giochi d'azzardo, state lontani dai tavoli verdi. Ho scritto molte volte che c'è un aspetto sul quale non si riflette, oltre a tutti quelli che spero di avervi descritto con oggettività. Ed è questo. Quando si perde, si perde e il portafoglio ne risente, con sofferenza. Ma anche quando si vince, il portafoglio si svuota. Nell'euforia, si festeggia senza pensarci due volte, con superficialità. Viaggi, pranzi e cene, vestiti, regali a tutti, mance esagerate... Avete mai provato a fare qualche conto, a verificare quanto vi resta in tasca, dopo aver vinto o vinciucchiato?
Conclusione: se il denaro è il riferimento più importante, non giocate mai d'azzardo e soprattutto state lontano dalla tentazione, dai Casinò e da qualsiasi scommessa, se avete difficoltà economiche e non potete permettervi di perdere. Se invece considerate il gioco come uno svago di cui avete coscienza e consapevolezza, potete azzardare. Gestite con attenzione il vostro denaro e non rischiate mai ciò che, perdendo, non potreste permettervi. Il giocatore è un bambino e noi giochiamo fin dall'infanzia. Se il bambino è rimasto bambino, l'azzardo sconsiderato può essere pericoloso. Il rischio è di finire all'inferno, senza possibilità di ritorno. Se il bambino è diventato adulto, può concedersi qualche piccolo piacere, anche quello di esibirsi di fronte al pubblico - che è una consuetudine dei bambini, fin dalla più tenera età.
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2020-10-11
La stupidità dilaga ma torna utile a tutti: i politici la coltivano, gli artisti la sfruttano
Leonardo Sciascia (Ansa)
Ennio Flaiano era affascinato dagli sciocchi, Carlo Maria Cipolla li temeva e Leonardo Sciascia ne rimpiangeva la genuinità.
La stupidità umana non ha fine. Lo diceva quel genio di Albert Einstein, lo hanno dimostrato i saggi di Bertrand Russell raccolti nel suo Il trionfo della stupidità, lo confermano i politici che ormai se ne fanno un vanto e gli industriali che approfittano di questa condizione umana per riempirsi le tasche.
Uno studio norvegese di due anni fa ha rivelato che gli uomini nati tra il 1962 e il 1991 avrebbero perso ben 7 punti di quoziente intellettivo a partire dalla metà degli anni Settanta. Una catastrofe. La colpa, stando ai ricercatori del Ragnar Frisch centre for economic research, va data all'uso eccessivo dei cellulari, dei computer e alla tv popolare. In fondo lo diceva anche Ennio Flaiano, grande ammiratore dell'idiozia: «La stupidità ha fatto progressi enormi. È un sole che non si può più guardare fissamente. Grazie ai mezzi di comunicazione, non è più nemmeno la stessa, si nutre di altri miti, si vende moltissimo, ha ridicolizzato il buon senso, spande il terrore intorno a sé».
Ricorda Pietro Citati che «per Flaiano, non esisteva nulla di più bello ed affascinante della stupidità; e lui amava ed inseguiva e coltivava gli stupidi, i cretini, gli idioti - la sublime vetta del mondo. Flaiano ne era persuaso ed ossessionato. La stupidità gli bastava - come la scultura bastava ad Antonio Canova, il romanzo storico ad Alessandro Manzoni, le storie terrificanti a Edgar Allan Poe, il romanzo pittoresco a Charles Dickens, la poesia a Emily Dickinson, la filosofia a Hegel».
Armand Farrachi nel suo divertente pamphlet pubblicato quest'anno da Fandango, anche questo intitolato Il trionfo della stupidità, sostiene che il continuo dilagare della stupidità sia dovuto anche alla massificazione economica e soprattutto a un'istruzione troppo approssimativa. Fa notare che in Francia «il figlio di un dirigente fa oggi 2,5 volte in più di errori ortografici rispetto al figlio di un contadino cento anni fa» e che le nuove edizioni dei libri di testo sono ormai incomplete: «Si osserva che le conoscenze, per esempio in storia, diventano parziali, non cronologiche, senza connessioni, e creano soprattutto molta confusione». Per farla breve, i giovani di oggi non hanno gli strumenti basilari necessari a formulare un proprio pensiero, hanno grandi difficoltà a stabilire collegamenti, «disturbi della comprensione dovuti all'incultura, alla goffaggine nell'espressione, alla pesantezza di spirito». Ormai, conclude un Farrachi sconsolato, «la parafrasi, un tempo bandita dai commenti, è diventata necessaria per la comprensione dei testi letterari».
Farrachi se la prende anche con la classe politica incapace di essere un saldo punto di riferimento. Se un tempo i presidenti delle repubbliche democratiche erano degli intellettuali ,oggi sono per lo più dei laureati in economia che puntano a dirigere lo Stato come fosse un'impresa e tendono a confondere le masse con i numeri, «a servirsi di strumenti digitali invece che dell'eloquenza, a presentare idee con efficacia, piuttosto che con profondità».
Più scaltri, gli industriali, che hanno saputo fare dei cretini la loro fonte di ricchezza primaria vendendo una miriade di prodotti che una classe di consumatori un pelino più intelligente disdegnerebbe. Il trucco, secondo il mitico investitore Warren Buffett, sta nel puntare «su un'azienda che può essere gestita da un imbecille, perché prima o poi un imbecille la gestirà».
L'economista Carlo Maria Cipolla s'è accollato la briga di redigere Le leggi fondamentali della stupidità umana. Cinque semplici norme che regolano un vero e proprio esercito di imbecilli perché, come dice la prima legge, «sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione». Ne erano convinti anche l'ex cancelliere tedesco Konrad Adenauer - che sosteneva che certa gente avesse fatto la fila tre volte quando s'era trattato di distribuire la stupidità - e Cicerone che dall'urbe, lanciò per primo il grido d'allarme: «Stultorum plena sunt omnia», gli stolti sono ovunque.
Leonardo Sciascia rimpiangeva i buoni vecchi cretini di un tempo: «È ormai difficile incontrare un cretino che non sia intelligente e un intelligente che non sia cretino. Ma di intelligenti c'è sempre stata penuria; e dunque una certa malinconia, un certo rimpianto ci assalgono tutte le volte che ci imbattiamo in cretini adulterati, sofisticati. Oh, i bei cretini di una volta!».
Nel 1850, durante il suo viaggio in Egitto, Gustave Flaubert, autore tra l'altro di un vero e proprio trattato sulla stupidità dal titolo Bouvard et Pécuchet, scriveva: «Avete riflettuto qualche volta, caro vecchio compagno, sulla serenità degli imbecilli? La stupidità è qualcosa di incrollabile, niente può attaccarla senza spezzarsi contro di essa. Ha la natura del granito, dura e resistente. Ad Alessandria, un certo Thompson, di Sunderland, ha scritto sulla colonna di Pompeo il suo nome in lettere di sei piedi di altezza. Si legge a un quarto di lega di distanza. Tutti gli imbecilli sono, chi più chi meno, dei Thompson di Sunderland. Quanti nella vita ne incontriamo nei posti più belli e dalle angolature più pure! E poi vi travolgono sempre; sono così numerosi, così felici, si ripresentano così spesso, hanno una salute così buona!».
Più clementi verso gli stolti erano Seneca e Orazio. Per loro mescolata in giuste dosi alla saggezza, la stupidità diventava una condizione piacevole. Johann Kaspar Lavater riconosceva uno stupido al primo colpo d'occhio. Nel suo trattato sulla fisiognomica, per il quale si avvalse anche della collaborazione di Johann Gottfried Herder e Johann Wolfgang Goethe, faceva di tutti gli sciocchi un fascio: «Ogni viso è stupido di natura quando la sua fronte è notevolmente più corta del naso, misurato dalla fine della fronte, pur avendo la massa morbida e perpendicolare delle guance la stessa lunghezza. Stupido anche il viso la cui bocca di profilo è così larga che la distanza dell'occhio calcolata dalla palpebra superiore fino al culmine della bocca, corrisponde soltanto al doppio della sua larghezza». E ancora: «Quanto più è ottuso l'angolo che si forma tra il contorno dell'occhio e la bocca, osservati di profilo, tanto più debole e sciocco è l'uomo».
Per Carlo Maria Cipolla, il vero sinonimo della stupidità è pericolosità: «Una persona stupida è una persona che causa un danno ad un'altra persona o gruppo di persone senza nel contempo realizzare alcun vantaggio per sé o addirittura subendo una perdita». In pratica lo sciocco è il tipo di persona più pericolosa che esista, più stupido di un bandito, che danneggia ma almeno ne trae un vantaggio.
Sosteneva Bertrand Russell che il problema dell'umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi. Giorgio Manganelli nella stupidità ci vedeva una sua «gloria», quella di chi sa di non sapere. Sulla stupidità anche Robert Musil ha detto la sua: «Non esiste una sola idea importante di cui la stupidità non abbia saputo servirsi, essa è pronta e versatile e può indossare tutti i vestiti della verità. La verità invece ha un abito solo e una sola strada, ed è sempre in svantaggio».
In sintesi all'idiozia non c'è rimedio. Anche perché conviene a tutti. Conclude Armand Farrachi: «Conviene ai politici, che grazie a essa possono dirigere un popolo ai cui occhi bugie enormi riescono a passare per verità. Conviene ai giornalisti, messaggeri di una verità ufficiale. Conviene ai mediocri artisti che si sono avventati come cavallette e che potranno più facilmente essere presi per geni, come ci confermano le opere d'arte che ornano le rotatorie francesi o le scene teatrali che sfigurano capolavori con la scusa di “rivisitarli"». Come dicevano Edmond e Jules de Goncourt: «Quel che al mondo ascolta più stupidaggini è forse un quadro da museo».
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L'eternità divina non è un tempo infinito, ma la sua assenza. Le leggi della fisica non valgono. Lo provano Albert Einstein e Georg Cantor.
Per noi umani è il tempo è un problemaccio: non si vede, ma incalza. In fisica si parla di freccia del tempo. Va in una sola direzione! Se nello spazio posso andare avanti e indietro, quanto al tempo, indietro non si torna.
E il tempo come funziona per Dio? Possiamo davvero immaginarcelo con la barba bianca? Chiariamo anzitutto che per le religioni e filosofie antiche, a parte l'ebraismo biblico, il problema non esiste: l'universo e Dio coincidono, per cui l'universo è destinato a durare all'infinito, per un tempo infinito. Di fatto è vecchissimo, ma non morirà mai.
Oggi questo concetto è poco apprezzabile: l'ipotesi più accreditata è che il tempo consumi davvero ogni cosa, persino l'universo stesso, destinato a morte termica!
Insomma, il tempo, oggi lo sappiamo, è un problema anche per l'universo, se è vero che esso ha (solo) 14 miliardi di anni e che va, come tutto ciò che vediamo e tocchiamo, verso la sua fine.
E il Dio creatore? Con la barba, si diceva, ma solo per capirci. I teologi cattolici lo hanno chiaro almeno da Agostino: Dio è oltre il tempo e lo spazio; l'eternità non è un tempo infinito, ma assenza di tempo. Insomma, Dio non è vecchio con la barba, ma se proprio dobbiamo rappresentarlo, un giovinetto. «Io sono colui che sono»: così Dio, nell'Antico testamento, per indicare la sua presenza sempre presente.
Il premio Nobel per la fisica del 1933, Erwin Schrödinger, sosteneva che «la teoria fisica nel suo stato presente suggerisce energicamente l'idea della indistruttibilità dello spirito per opera del tempo», e aggiungeva: «“Non trovo Dio nello spazio e nel tempo", così dice l'onesto pensatore scientifico, e ne è rimproverato da coloro nel cui catechsimo sta pur scritto: “Dio è Spirito"» (John Gribbin, Erwin Schrödinger, Dedalo, Bari, 2013).
Nella liturgia latina Dio è colui che laetificat juventutem meam, cioè che rende lieta la giovinezza del fedele. Anche del fedele anziano. Perché? Perché Dio è giovane, e soprattutto perché l'uomo, anche vecchio, può rimanere giovane, nello spirito. Il che ci porta all'uomo vecchio (nella carne), che può essere anche giovane (di spirito) e all'uomo giovane (nella carne) che può essere anche vecchio (di spirito). Una specie di relatività su cui torneremo.
Il Dio «giovinetto», dunque, è un concetto interessante, perché chiarirebbe cosa c'è «prima» e «oltre» l'universo, o meglio cosa non c'è: prima e oltre l'universo non c'è il tempo. E allora cosa c'è? L'eternità, cioè l'assenza di tempo, l'eterno presente. La giovinezza di Dio.
Vediamo di capire meglio. Nella Bibbia si dice: «Perché mille anni, agli occhi tuoi, sono come il giorno di ieri che è passato…» (Salmo 90:4); «davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo» (seconda lettera di San Pietro).
Si tratta di frasi di una profondità inaudita, che oggi possiamo in qualche modo comprendere anche grazie alla scienza.
Essa suggerisce quanto si è già detto: nell'universo tutto invecchia, e solo un Dio creatore, che non coincide con l'universo, può avere un tempo diverso dall'universo. Così il tempo, che segna irrimediabilmente la finitezza di ogni cosa, è assente, almeno nella modalità che conosciamo noi, laddove esiste l'unica realtà che esiste davvero, perché esiste da sempre e per sempre: l'infinito, Dio. Dio dunque ha un tempo «suo», che è, come si diceva, l'eterno presente.
Per capirlo oggi può venirci in aiuto la relatività di Albert Einstein, che è appunto l'idea per cui il tempo non è un assoluto, ma è relativo a spazio, movimento e gravità. Spiega così la relatività il fisico Carlo Rovelli nel suo L'ordine del tempo (Adelphi, 2017): «Il tempo scorre più veloce in montagna e più lento in pianura» perché la gravitazione contrae o espande la dimensione temporale. Il che significa, in altre parole, che «non c'è un solo tempo. Ce ne sono tantissimi. Un tempo diverso per ogni punto dello spazio».
Ma Dio è oltre la materia, lo spazio ed il tempo. La frase biblica, paradossale, diventa sempre più chiara.
La matematica chiarisce ulteriormente. Prendiamo il teorema di un matematico molto molto religioso, Georg Cantor. Il teorema dice che un insieme finito di 50 elementi e un insieme finito di 50.000 elementi sono alla stessa distanza dall'infinito. Cioè rispetto all'infinito, 50, 500, 50.0000 sono la stessa cosa. Quindi cosa dice il teorema? Lo stesso che dicono il Salmo 90 e San Pietro: 1 giorno o 1.000 anni sono, per l'eternità infinita di Dio, la medesima cosa.
E il vecchio (nella carne) giovane (nello spirito) cui si accennava prima? Il paradosso dei due gemelli, spesso utilizzato per spiegare la relatività di Einstein, ci dice che di due fratelli gemelli, uno dei quali rimanesse sulla Terra e l'altro se ne andasse a fare un viaggio su un'astronave molto veloce, il secondo invecchierebbe più lentamente, a causa del suo diverso stato di moto.
Si può addirittura arrivare a dire che una persona che va sempre di corsa, sulla Terra, invecchia di meno, per quanto in maniera pressocché impercettibile, di una persona che va sempre piano. Il tempo fisico, quello misurabile con un orologio precisissimo, è anche qui relativo, se guardiamo all'oggetto-corpo. Ma l'uomo non è solo oggetto-corpo: è anche soggetto-spirito.
Per lui valgono dunque le leggi della fisica, compresa la relatività einsteniana, quanto al corpo, ma non bastano.
L'uomo che va piano, infatti, in quanto oggetto sarà più «anziano» del suo coetaneo che va sempre di corsa, quanto al corpo, ma, come soggetto, potrebbe essere più giovane, di spirito.
Infatti, pensiero, volontà, personalità umana non sono né nello spazio né nel tempo, ed hanno così un «loro» tempo, che può essere diverso da quello fisico.
Così l'uomo, che a differenza di Dio occupa spazio e tempo, ha qualcosa a che fare con Lui, in quanto è anche spirito. Per questo anche per gli uomini ci sono giorni che durano anni, e anni che durano come un giorno (o quasi).
In attesa di quel giorno pieno che durerà come 1.000 anni, o come un giorno solo: l'eternità che è sì lunghissima, nel senso che non finisce mai, ma anche cortissima, come un istante, perché senza mai un prima e senza mai un dopo. Nel catechismo si dice: l'eterna beatitudine che viene dopo la risurrezione.
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