2021-06-15
        Sul mix pochi studi e molte incognite. Gli inglesi: «Per ora più gli svantaggi»
    
 
Test effettuati su 1.500 persone, rischio effetti avversi accentuati sui ragazzi. E anche gli ottimisti spiegano: «Ci vuole cautela».Combinare i vaccini si può? La decisione di somministrare in fase di richiamo un vaccino a mRna (Pfizer o Moderna) ai soggetti under 60 che hanno ricevuto il siero Astrazeneca in prima dose, formalizzata venerdì dal ministero della Salute, divide la comunità scientifica. C'è chi si dice favorevole, tra questi rientrano l'ex direttore generale dell'Agenzia europea del farmaco, Guido Rasi, il direttore dell'Istituto Spallanzani di Roma, Francesco Vaia, e il virologo dell'Università di Milano, Fabrizio Pregliasco. E chi, per contro, si oppone all'ennesima giravolta dei vertici della campagna vaccinale, come il microbiologo dell'Università di Padova, Andrea Crisanti, che domenica ha parlato di una scelta «non supportata da dati».Sono diversi i governi che al momento stanno valutando l'opportunità di vaccinare con un siero diverso rispetto al primo inoculo. Lo scorso primo giugno, il National institutes of health americano ha annunciato l'avvio di una sperimentazione in tal senso con il coinvolgimento di 150 volontari. «Sebbene i vaccini attualmente autorizzati dalla Food and drug administration (il regolatore americano, ndr) offrano una forte protezione contro il Covid-19, ci dobbiamo preparare all'eventualità di dosi di richiamo per contrastare la diminuzione dell'immunità, anche al fine di stare al passo con un virus in continua evoluzione», ha dichiarato il virologo Anthony Fauci, «le conclusioni di queste ricerche hanno lo scopo di corroborare le decisione sulla salute pubblica circa l'utilizzo di vaccini combinati». Qualche altro Paese - come il Canada, la Finlandia, la Francia, la Norvegia, la Spagna, la Svezia e per l'appunto l'Italia - ha invece già ufficializzato la nuova prassi. Ma come stanno davvero le cose? In realtà, tralasciando i trial clinici attualmente in corso, gli studi che finora hanno esaminato lo «switch» dei vaccini si contano sulle dita di una mano, e hanno coinvolto poche centinaia di volontari. Nel Regno Unito, un gruppo di ricercatori dell'Università di Oxford ha condotto a partire da febbraio il progetto «Com-Cov», con il coinvolgimento di 830 persone (età media 57 anni) alle quali è stato somministrato prima il vaccino Vaxzevria (Astrazeneca) e poi il Comirnaty (Pfizer), e viceversa. Manca ancora una pubblicazione che illustri le conclusioni in termini di efficacia, ma la lettera inviata dal team e pubblicata su Lancet lo scorso 12 maggio mette in rilievo che mixare le dosi potrebbe portare a una maggiore reattogenicità. In entrambi i casi contemplati, infatti, sono aumentate le reazioni avverse non gravi come febbre, brividi, affaticamento, mal di testa, dolori articolari e muscolari. Tanto che la missiva redatta dagli scienziati si concentra sull'uso del paracetamolo come farmaco per alleviare i fastidi a seguito della dose «boost». Nonostante l'incrocio dei sieri non abbia causato ricoveri ospedalieri, gli scienziati hanno concluso che «in attesa della disponibilità di un set di dati di sicurezza più completo e dei risultati di immugenicità» delle seconde dosi, i risultati ottenuti «suggeriscono che le due vaccinazioni eterologhe possono presentare svantaggi a breve termine». C'è di più, perché i ricercatori ipotizzano che le reazioni avverse potrebbero essere riscontrate con frequenza ancora più alta nei soggetti giovani, proprio cioè la fascia di popolazione interessata in Italia dalle nuove regole.L'altro studio, denominato Combivacs, è stato sfornato dall'Istituto di sanità Carlos III di Madrid. Nel presentare i risultati lo scorso 18 maggio, gli autori hanno spiegato che i 441 partecipanti a cui in prima dose era stato iniettato il Vaxzevria e in seconda il Comirnaty hanno mostrato un potenziamento della risposta immunitaria, con un titolo anticorpale pari a 150 volte rispetto al normale. Gli effetti collaterali riscontrati più comunemente sono stati mal di testa (44%), malessere generale (41%), brividi (25%), nausea lieve (11%), tosse (7%) e febbre (2,5%), anche in questo caso senza ricoveri. Conclusioni senza dubbio promettenti, ma pur sempre preliminari. «Per quanto riguarda l'interpretazione dei risultati di questo studio, in relazione al possibile confronto con altri studi clinici», avvertono gli autori, «occorre essere cauti, poiché le metodologie e i gruppi di persone trattate non sono sempre identici». Esistono poi due studi minori, ancora in fase di «preprint», una sorta di bozza che deve ancora essere sottoposta a revisione. Il primo realizzato dall'Università di Ulm coinvolge appena 26 partecipanti, mentre il secondo dell'ospedale Charité di Berlino conta 61 volontari. Entrambi sembrano aver prodotto risultati incoraggianti, dimostrando anche in questo caso un aumento della risposta immunitaria. A conti fatti, dunque, una decisione che riguarda oltre un milione di italiani - tanti sono i connazionali che hanno ricevuto la prima dose con Astrazeneca e ora dovranno completare il ciclo con un altro vaccino - si basa su una manciata di studi che hanno coinvolto complessivamente meno di 1.500 persone, e le cui conclusioni sono tutt'altro che definitive. Poi non lamentatevi se ci autodefiniamo cavie.
        Giancarlo Giorgetti (Ansa)