I Paesi dell’Unione europea si dicono compatti nel rifiutare il pagamento in rubli dell’oro azzurro. Dai conti, ai migranti fino ai vaccini però la storia ci dice che gli interessi dei singoli hanno sempre prevalso. Tra poco scopriremo se qualcuno bluffa.
I Paesi dell’Unione europea si dicono compatti nel rifiutare il pagamento in rubli dell’oro azzurro. Dai conti, ai migranti fino ai vaccini però la storia ci dice che gli interessi dei singoli hanno sempre prevalso. Tra poco scopriremo se qualcuno bluffa.Vediamo chi è alla canna del gas. Entro domani l’altra guerra, quella fra la Russia e l’Unione europea, potrebbe avere un vincitore, un vinto o due interlocutori dialoganti nel supremo interesse collettivo. Dal 31 marzo infatti i pagamenti delle forniture di gas naturale russo da quelli che Vladimir Putin definisce «Paesi ostili» per avere inasprito le sanzioni belliche dovranno essere saldati in rubli. Un’imposizione decisa due settimane fa nella lunga partita a scacchi con l’Europa, alla quale ieri Bruxelles ha ribadito di non volersi assoggettare. «I ministri del G7 hanno detto che respingono le richieste di Mosca e i contratti, stipulati con l’esplicita previsione di pagamenti in dollari o euro, vanno rispettati», ha sottolineato Tim McPhie, portavoce della commissione Energia, per confermare che da quella posizione gli alleati non intendono muoversi.La sabbia scorre nella clessidra ma il braccio di ferro continua. Se da una parte Ursula von der Leyen, Emmanuel Macron, Mario Draghi tengono il punto sul metodo di pagamento, dall’altra il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha semplicemente avvertito i clienti che «il fornitore non farà beneficenza», lasciando intuire che dai primi di aprile in poi i rubinetti potrebbero essere chiusi. Della serie: non si fa credito in valuta non gradita. Con una conseguenza immediata: una parte dell’Occidente rischia di rimanere al freddo e al buio. Come ha spiegato il sito Bloomberg, «i flussi di gas sono stabili sugli stessi livelli precedenti alla guerra». Questo significa che nonostante i proclami e i piani B, nessuno finora ha cambiato strategie o ha potuto farlo in tempi così brevi. Per capire la portata della faccenda basta ricordare qualche numero. Nel 2020 la percentuale di gas russo sul fabbisogno europeo si è attestata al 43,44%, mentre nel primo trimestre del 2021 è salita al 47%. A differenza di Paesi come la Francia (agevolata dal nucleare) e la Spagna (si affida in massima parte a quello algerino), Italia e Germania sono soggetti al gas russo per il 46% e il 49%, con un peso analogo sul mix energetico. Questa dipendenza differente non gioca a favore della compattezza del fronte. E se è facile per Joe Biden in modalità western promettere ampie quote di gas americano da stoccare (al costo del 30% in più rispetto a quello russo) e tuonare ogni minaccia da 15.000 chilometri di distanza, è molto più complicato per i 27 di Bruxelles mantenere un fronte comune. Negli ultimi anni su temi strategici come il patto di stabilità, la distribuzione delle risorse, la gestione dei flussi migratori e l’agenzia comunitaria dei vaccini si sono visti litigi da ballatoio degni di un’assemblea condominiale, con tradimenti e defezioni. Soprattutto i tedeschi - 16 anni di Angela Merkel non sono trascorsi invano - hanno sempre messo gli interessi nazionali (come dar loro torto) davanti all’Inno alla gioia di Ludwig Van Beethoven. E sono sempre riusciti a trascinare con sé olandesi e scandinavi. A questo vanno aggiunte le fibrillazioni che già stanno arrivando dai Paesi maggiormente dipendenti dal gas russo: le Repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania), la Bulgaria, la Slovacchia e la Slovenia importano da Mosca circa il 90 per cento del proprio fabbisogno di gas. Aiuto.In caso di chiusura dei rubinetti l’Italia ha scorte per otto settimane. Una notizia preoccupante per industrie e famiglie, anche se il premier Draghi continua nella sua politica emozionale, più concentrato sulla quota del 2% del Pil per la Difesa che sulla programmazione degli approvvigionamenti alternativi. Palliativi immediati non ne esistono, se non rilanciare le centrali a carbone in via di dismissione, con complicazioni politiche fin troppo evidenti. L’exit strategy dal gas russo prevede di passare dagli attuali 29 miliardi di metri cubi a 14 miliardi di fornitura, aprendo nuovi contratti con l’Algeria. Nell’ultima missione il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha ottenuto un via libera all’aumento di idrocarburi sahariani.Vediamo chi è alla canna del gas e se Putin bluffa. Per il solo metano, Gazprom incassa 750 milioni di dollari al giorno, circa 22 miliardi al mese; è in grado di rinunciarvi nell’immediato? In questo caso il tempo gioca a suo favore perché in pochi mesi può sostituire il cliente Europa con Cina (il gasdotto è operativo da anni) ma soprattutto India e Pakistan. Oggi a consigliare la Ue di tenere duro sono gli analisti finanziari, che vedono in un cambio di moneta un apprezzamento sostanziale del rublo, con la conseguenza che il Cremlino potrebbe continuare a pagarsi la guerra con i soldi del gas europeo. In attesa di scoprire chi ha fatto l’autogol, la partita rimane apertissima e la posizione dell’Europa non è per niente comoda. L’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, finora non ha mai voluto entrare nel merito politico della crisi di approvvigionamenti determinata dalla totale dipendenza dal gas russo. Ma a margine del summit di Doha ha pronunciato due frasi illuminanti. La prima sul futuro: «Per avere più forniture di gas Bruxelles dovrebbe guardare all’Africa». E la seconda sul presente: «Quando si tratta di energia, l’Europa è una scatola vuota».
Andy Mann for Stefano Ricci
Così la famiglia Ricci difende le proprie creazioni della linea Sr Explorer, presentata al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, concepita in Patagonia. «Più preserveremo le nostre radici, meglio costruiremo un futuro luminoso».
Il viaggio come identità, la natura come maestra, Firenze come luogo d’origine e di ritorno. È attorno a queste coordinate che si sviluppa il nuovo capitolo di Sr Explorer, il progetto firmato da Stefano Ricci. Questa volta, l’ottava, è stato presentato al Teatro Niccolini insieme alla collezione Autunno-Inverno 2026/2027, nata tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, terre estreme che hanno guidato una riflessione sull’uomo, sulla natura e sul suo fragile equilibrio. «Guardo al futuro e vedo nuovi orizzonti da esplorare, nuovi territori e un grande desiderio di vivere circondato dalla bellezza», afferma Ricci, introducendo il progetto. «Oggi non vi parlo nel mio ruolo di designer, ma con lo spirito di un esploratore. Come un grande viaggiatore che ha raggiunto luoghi remoti del Pianeta, semplicemente perché i miei obiettivi iniziavano dove altri vedevano dei limiti».
Aimo Moroni e Massimiliano Alajmo
Ultima puntata sulla vita del grande chef, toscano di nascita ma milanese d’adozione. Frequentando i mercati generali impara a distinguere a occhio e tatto gli ingredienti di qualità. E trova l’amore con una partita a carte.
Riprendiamo con la seconda e conclusiva puntata sulla vita di Aimo Moroni. Cesare era un cuoco di origine napoletana che aveva vissuto per alcuni anni all’estero. Si era presentato alla cucina del Carminati con una valigia che, all’interno, aveva ben allineati i ferri del mestiere, coltelli e lame.
Davanti agli occhi curiosi dei due ragazzini l’esordio senza discussioni: «Guai a voi se me li toccate». In realtà una ruvidezza solo di apparenza, in breve capì che Aimo e Gialindo avevano solo il desiderio di apprendere da lui la professione con cui volevano realizzare i propri sogni. Casa sua divenne il laboratorio dove insegnò loro i piccoli segreti di una vita, mettendoli poi alla prova nel realizzare i piatti con la promozione o bocciatura conseguente.
Alessandra Coppola ripercorre la scia di sangue della banda neonazi Ludwig: fanatismo, esoterismo, violenza e una rete oscura che il suo libro Il fuoco nero porta finalmente alla luce.
La premier nipponica vara una manovra da 135 miliardi di dollari Rendimenti sui bond al top da 20 anni: rischio calo della liquidità.
Big in Japan, cantavano gli Alphaville nel 1984. Anni ruggenti per l’ex impero del Sol Levante. Il boom economico nipponico aveva conquistato il mondo con le sue esportazioni e la sua tecnologia. I giapponesi, sconfitti dall’atomica americana, si erano presi la rivincita ed erano arrivati a comprare i grattacieli di Manhattan. Nel 1990 ci fu il top dell’indice Nikkei: da lì in poi è iniziata la «Tokyo decadence». La globalizzazione stava favorendo la Cina, per cui la nuova arma giapponese non era più l’industria ma la finanza. Basso costo del denaro e tanto debito, con una banca centrale sovranista e amica dei governi, hanno spinto i samurai e non solo a comprarsi il mondo.





