
Archiviata la stagione delle primavere arabe, abbandonate le speranze di deporre Vladimir Putin e ancorché imbarazzati per la spregevolezza della teocrazia islamista, i progressisti oggi inorridiscono al pensiero di un cambio di regime in Iran. L’Europa, che gongolò per il tentato golpe del gruppo Wagner in Russia, non supporta la cacciata di pasdaran e ayatollah; sul Corriere della Sera, Lorenzo Cremonesi ricorda che «l’idea di intervenire in un Paese o in una società stranieri per mutare a proprio favore la loro forma di governo ha sortito risultati per lo meno dubbi negli ultimi decenni»; il Manifesto accusa Israele di voler portare «il caos in Medio Oriente»; il Domani diffida di una «transizione verso la democrazia» imposta «con le bombe».
Tutto giustissimo. Esportare stili di vita e sistemi politici come fossero lattine di Coca-Cola e serie tv è un progetto sgangherato, pericoloso. I neocon l’hanno data a bere per poco alla gente, ai tempi delle campagne in Afghanistan e Iraq. Solo che, per coerenza, se ne dovrebbe concludere che la dottrina dei diritti umani e del diritto internazionale non può essere oltranzista. Sullo scacchiere, la forza, il potere, il gioco degli equilibri e gli interessi, talora biechi, finiscono per contare di più della giustizia astratta. Altrimenti, spieghino i liberal quand’è che i loro totem etici motiverebbero, in varie forme, un intervento occidentale e quando, invece, sarebbe lecito tirare avanti fischiettando. Abbiamo mandato armi all’Ucraina perché indignati dagli abusi dello zar; riempiamo le piazze per Gaza martoriata; per Teheran cosa proponiamo?
Dopo l’uccisione di Masha Amini, la ragazza arrestata dalla polizia morale per aver indossato male il velo - e poi, sulla scorta della carcerazione arbitraria di Cecilia Sala - la stampa si era giustamente indignata per la ferocia della dittatura sciita. Repubblica aveva persino scritto che, da Giulia Cecchettin alla ventiduenne vittima degli ayatollah, «la rabbia delle donne» si sarebbe trasformata «in un potente strumento di cambiamento». Anche cambiamento di regime? Perché allora bisogna essere onesti: se da un lato è vero che una democrazia liberale non attecchisce, in assenza di una società e di una cultura disposte a svilupparla, è vero anche che quella società, di solito, non può essere liberata che con le armi. Sia che esse vengano imbracciate dai cittadini, sia che la rivoluzione venga favorita dall’offensiva militare di una potenza straniera - quali chance avrebbero avuto i partigiani italiani, senza il sacrificio degli Alleati? Chi risponde con il cineforum su Lolita a Teheran, vuole buttare la palla in angolo. Oppure apprezza soltanto le tecniche subdole: da noi, per il cambio di regime, non sono servite né la cultura né le bombe; sono bastati lo spread e il Covid.
Ci si deve decidere. La smania del regime change è un’autostrada per l’inferno? In tal caso, bisognerà accettare che l’epoca dell’internazionalismo liberale, con le sue regole di condotta, istituite in buona fede ma pure per blindare l’egemonia americana, è al tramonto. L’umanitarismo è ancora un valore assoluto? Se è così, ci si armi e si parta per ogni luogo di sofferenza; gli scempi di Muammar Gheddafi non erano peggiori di quelli di Ali Khamenei.
Oppure il sottinteso è un altro? Che il cambio di regime va bene se lo pretende chi ci sta simpatico? E al contrario, quando lo persegue l’odioso e odiato Benjamin Netanyahu, s’invoca il negoziato? Il negoziato stesso è sacrosanto, se lo caldeggiano Emmanuel Macron ed Elly Schlein, mentre è un atto di codardia se Donald Trump, benché abbia schierato jet e portaerei, cerca un ultimo canale di dialogo? Trump always chickens out, Trump si tira sempre indietro, lo dileggiano Oltreoceano. L’escalation, quindi, andava bene in Russia: quella di Joe Biden era «controllata», strategica. Un colpo di genio. E in Medio Oriente? Ci spaventa il prezzo del petrolio e non ci spaventava il prezzo del gas?
Loro, quelli che una volta leggevano il Libretto rosso, dovrebbero saperlo: la rivoluzione non è un pranzo di gala. Di sicuro, non la si fa a colpi di editoriali.






