
Grazie all'alimentazione naturale e alle sue carni magre gli è stato assegnato un premio dal Policlinico Umberto I di Roma. Eppure le razze autoctone italiane sono state sostituite da quelle importate e solo negli ultimi anni c'è stato il riscatto delle nostre tipicità.Ieri era la festa di sant'Antonio abate, uno dei culti più sentiti nella civiltà rurale. Nell'iconografia classica la sua figura è abbinata a un maialino posto ai piedi di questo santo vissuto tra il III° e IV° secolo d.C., tra le figure più rappresentative del monachesimo cristiano in Egitto. A lui ispirati i primi monasteri che, tra le varie attività, provvedevano a fornire una qualche assistenza sanitaria alle loro comunità. Nella tradizione il diavolo provò più volte a distrarlo dalla retta via con le tentazioni terrene, lussuria e ingordigia in primis, e chi meglio del maiale a farne da tramite. Ma non ci fu verso e Antonio l'ebbe vinta tanto da ergersi a simbolo della vittoria dello spirito contro le tentazioni terrene, ecco quindi la spiegazione del docile animaletto ai suoi piedi. Da qui, per estensione, sant'Antonio abate venne eletto a protettore di tutti gli animali domestici. Nelle nostre campagne, sino a pochi decenni fa, il giorno della vigilia i contadini ripulivano al meglio le loro stalle perché se il santo, nelle sue ispezioni a sorpresa sul far della notte, avesse trovato situazioni di colpevole negligenza riferitegli dagli animali (nell'unica notte in cui avevano il dono della parola), non avrebbe più assicurato la sua benevola protezione ai loro padroni. Il legame tra mondo suino e umana società, quindi, ha legami profondi con solide radici in una storia che, lungo la penisola, ha innumerevoli capitoli da raccontare. Il 17 gennaio, per tradizione, rappresentava il culmine del rito della mattanza suina nelle case di campagna, in coincidenza con il momento più freddo dell'anno, ideale quindi per la miglior conservazione delle carni. Diverse le celebrazioni ad hoc per ricordare questo rito, tanto da veder convergere norcini di talento a manifestazioni dedicate. In grande spolvero, ultimamente, la Festa del Museto, nella trevigiana Riese Pio X, terra natale di papa Giuseppe Sarto. Tale era il radicamento del culto di sant'Antonio legato al maiale che, a partire dall'XI secolo, i monaci della congregazione degli antoniani, molto diffusa lungo la dorsale appenninica, alleviavano i dolori urenti sulla cute del «fuoco di sant'Antonio», così veniva allora definito l'herpes zoster, con degli unguenti preparati proprio a partire dal grasso dei loro maialini. A quel tempo, infatti, le piante di frumento erano spesso infettate dal fungo della segale cornuta, causando gravi problemi di salute sino alla morte. Ecco allora che, nei villaggi posti attorno a questi monasteri, poteva capitare di veder aggirarsi dei maialini, con regolare campanellino al collo, che preannunciavano la loro presenza alle madri di famiglia e, fuori dall'uscio, trovavano regolarmente gli scarti lasciati quale segno di riconoscenza. Maiali spazzini che troviamo anche a Siena, con la cinta senese. Prima che a tavola, in epoca medioevale era molto apprezzata lungo le contrade quando dopo i mercati, vi era da fare … piazza pulita. Cinta senese detta così per quella banda bianca sul petto che la distingueva dai barbari cinghiali che popolavano la boscaglia. Tenace e combattiva era particolarmente apprezzata nella buona società, tanto che la si ritrova come simbolo negli stemmi araldici di molte famiglie nobili, forse per il desiderio di duchi e baroni di trasmettere alle future generazioni le sue doti. Al di là di queste citazioni, tra storia e aneddotica, la presenza del maiale, in questa moderna società del terzo millennio, merita una riscossa, a partire dal fatto che l'Italia, un tempo, era particolarmente ricca di razze autoctone, circa una trentina, via via sostituite da esemplari d'importazione, l'anglosassone large white su tutte, dalla stazza spesso doppia come la relativa prolificità. Una specie di vera e propria sostituzione etnica che però, negli ultimi anni, ha trovato un moto d'orgoglio nel riscatto delle nostre tipicità. Ecco allora che inizieremo una sorta di tour d'Italie in chiave suina che, prima di approdare a tavola, con la scoperta di millanta curiosità e tradizioni, ci permetta di apprezzare ancora meglio quanto il nostro bel Paese possa offrire anche sotto questo aspetto. Iniziando dal fatto che il maiale è il maggior «azionista» all'interno dei presidi Slow food con circa il 10% del totale. Non solo, ma salami, prosciutti e soppresse sono quelli che ci rappresentano al meglio in Europa con un dream team di 37 tra certificazioni Igp e Dop. E poi sfatiamo un'altra leggenda, e cioè quella della nefandezza salutistica del grasso suino. Le nostre razze autoctone sono «a piede libero» nel loro pascolo quotidiano, a differenza dei «cugini rosa» imprigionati negli allevamenti intensivi. Le essenze aromatiche di cui si cibano si trasferiscono al grasso, rendendo la carne più ricca e saporita, fornendo prodotti di elevato valore nutrizionale in quanto ricchi di grassi insaturi omega3 e omega6, oltre che di colesterolo buono. Ecco allora che il punto di forza diventa il grasso che, oltre a trattenere sapori e profumi, è più fluido e permette quindi una migliore diffusione degli aromi durante la produzione dei salumi. La carne suina ha un grasso sottocutaneo, volendo facilmente rimovibile, al contrario di quello bovino, che è infiltrato prevalentemente all'interno dei muscoli. Ecco perché i nostri prodotti di nicchia sono tra i più ricercati dal goloso turismo internazionale, cosa che forse proprio noi italiani siamo meno abituati ad apprezzare. In Sicilia ecco il nero dei Nebrodi, presente sin dalla colonizzazione greca. Subì un ridimensionamento durante l'occupazione araba, ma la vera crisi è arrivata sul finire del '900. Di taglia piccola, ma molto prolifica, è ghiotto di ghiande, il che conferisce un colore scuro alle sue carni. Caratteristica è la salsiccia dei Nebrodi, dalla tipica forma a U ma, lungo le pendici dell'Etna, vengono prodotti anche culatello, guanciale, mortadella. Ora ve ne sono circa duemila esemplari. Il maiale nero di Calabria, fino agli anni Ottanta, era una specie molto apprezzata a livello locale, anche se praticamente sconosciuta al di fuori dei confini regionali. Ultimamente la si sta recuperando. Di taglia piccola e scarsa fertilità si ciba di quello che trova: ghiande, castagne, tuberi, radici. Caratteristici sono il sanguinaccio (misto a cioccolato), ma soprattutto la 'nduja che, assieme alla cipolla di Tropea, è uno dei simboli della cucina calabrese. La sua patria è Spilinga. È un piatto povero che serviva ad utilizzare scarti del maiale quali milza, stomaco, polmoni, cuore, trachea, oltre che il grasso scartato dalla preparazione dei salumi. L'utilizzo del peperoncino, di cui questa terra è ricca, è l'arma segreta he ha reso la 'nduja famosa oltre i suoi confini, portata all'inizio dai molti emigranti. La sua storia è incerta, posto che prodotti simili si trovano anche in Francia e Spagna. Secondo alcuni prese origine durante la dominazione napoleonica quando il viceré Gioacchino Murat distribuì un salame simile alla 'nduja per ingraziarsi i notabili del tempo. Da qui poi l'intuizione di abbinarvi il peperoncino fece il resto. Il macinato, una volta insaccato, da alcuni viene affumicato con essenze di robinia e olivo. La stagionatura è di circa tre mesi per un prodotto finale dal caratteristico colore aranciato. Serve a dare una marcia in più a svariate preparazioni. Si può gustare a crudo come cotta. Assieme ad una fetta di pane abbrustolita come con pasta o pizza. C'è chi la usa per irrobustire il pecorino, altro prodotto di nicchia di questa terra. Ci sta bene anche con gli arancini, un goloso cibo di strada che la Calabria divide con la cugina Sicilia. Grazie all'alimentazione naturale e alle sue carni magre a questo maiale nero è stato assegnato il premio Medusa dal Policlinico Umberto I di Roma, tanto che qualcuno lo chiama il maiale della salute.
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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