2021-03-01
Mario Melazzini: «Sui vaccini dovevamo alzare la voce. E preparare il piano B»
L’ex direttore Aifa: «Quando si pianifica è necessario tener conto anche delle variabili negative. E bisogna farlo prima, non dopo»Mario Melazzini, un curriculum da una ventina di pagine, libri pubblicati compresi. Cito alcune cose: medico, primario, assessore in Lombardia, già direttore generale di Aifa (Agenzia italiana del farmaco), fino a poco fa componente del cda del Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche). Ma, quando parla di sé, lei dice: sono prima di tutto un malato.«Se mi permette la battuta sono ancora tante cose: amministratore delegato degli Istituti clinici Maugeri, 19 strutture in sei Regioni. Sono un paziente con sclerosi laterale amiotrofica, persona con disabilità che porta nel suo dna anche l’associazionismo, e orgogliosamente sono presidente della fondazione Arisla».Dalla diagnosi, nel 2013, il suo essere medico è cambiato?«Ha arricchito il mio lavoro quotidiano, ha cambiato lo sguardo verso gli altri e me stesso. Non mi fraintenda: la malattia non è desiderabile né auspicabile. Vorrei correre, andare in bicicletta e arrampicarmi in montagna, mia grande passione. Gioisco a vedere chi lo fa. Di notte sogno una valle lunga, aperta, mi vedo camminare: è forse il lungo cammino che mi aspetta. Ma dopo un percorso non semplice ho acquisito grande coscienza della fragilità e dei limiti dell’essere umano». Un anno di pandemia. Che tipo di esperienza è stata per lei?«La vita mi ha insegnato che quando accade un imprevisto l’essere umano si trova a scontrarsi con i propri limiti. La malattia in un primo momento si tende a negarla e ci si domanda perché proprio a me. Per chi come me era medico e faceva ricerca, la malattia per quanto possa suonare paradossale è un valore aggiunto. Come amministratore sono stato sfidato a raccogliere una nuova domanda di salute, con un’ottica di programmazione innovativa».Gli istituti Maugeri hanno la sede a Pavia, primo epicentro. «Ricordo la chiamata dal direttore del San Matteo di Pavia, il 21 febbraio, che mi chiedeva per favore di accogliere i pazienti di medicina generale perché si preparava al ricovero dei primi casi Covid. In pochi giorni poi la crescita esponenziale, i nostri istituti hanno iniziato una trasformazione». Da allora quanti pazienti Covid avete ricoverato?«Più di 5.000, soprattutto in Lombardia. Oggi siamo quasi “Covid free”, eccezion fatta per 187 pazienti ricoverati in alcune strutture. È però arrivata in questi giorni una circolare dalla Regione Lombardia che ci chiede di mettere posti letto prevedendo un aumento dei casi. E noi come sempre siamo a disposizione».Ha avuto paura dei rischi?«La paura è importante per potere affrontare in modo intelligente i pericoli. Il virus non ha cambiato il mio stile ma innalzato la mia attenzione. Le persone mi vedono in carrozzina, con il reggi-collo perché altrimenti la mia testa cade, ma sempre in giacca e cravatta, ci tengo molto. La malattia c’è: non riesco a deglutire e quindi ad alimentarmi, se non artificialmente. Ho problemi di funzionalità respiratoria e appena mettiamo giù il telefono mi attaccherò al ventilatore fino a domattina (è ora di cena, ndr). Tutto questo è la mia quotidianità. Il rigore scientifico, che è il metodo con cui affronto tutto, l’ho applicato rigidamente e mi ha fatto sentire protetto. Per chi organizza la sanità il campo di battaglia è l’ospedale e ci sono andato ogni giorno».Una battaglia combattuta per mesi soprattutto dalla Lombardia: la sua sanità è finita sotto accusa. Da assessore e dirigente lei se ne è occupato dal 2010 al 2016. «Uno tsunami mostruoso ha travolto la Lombardia. Difficile affrontare una devastazione di portata simile in tempo reale. Il fare squadra ce lo ha permesso, ce lo permette ancora oggi, con fatica. Una delle parole importanti per me è “sguardo”: tutto dipende da come guardiamo alle cose. Quanto mi è accaduto mi ha insegnato a non vivere di foto ingiallite, come diceva madre Teresa di Calcutta, ma a guardare avanti e fare tesoro di quanto accade. È facile criticare, ora è necessario affrontare non solo il Covid. Sono saltati milioni di tac, risonanze, ecografie, interventi chirurgici. Penso a tutti i pazienti oncologici. E a quelli cronici: il 30% della popolazione ne è affetta, e per loro viene speso il 70% delle risorse del Servizio sanitario nazionale. Il virus stesso compromette in molti casi chi guarisce: dal punto di vista respiratorio o cardiologico, o con neuropatie periferiche. La riabilitazione è fondamentale, i nostri istituti sono al lavoro su questo».Qualche errore commesso? Il pubblico a braccetto con il privato è davvero un sistema vincente?«Le critiche sono legittime sempre, e parzialmente alcune condivisibili. Ma occorre onestà intellettuale. C’è qualcuno che si possa dichiarare oggi detentore di un sistema perfetto? Tutte le Regioni, anche con sistemi profondamente diversi, hanno avuto problemi nella gestione della pandemia. Il sistema misto pubblico-privato è sotto accusa da anni, ma le parlo con la contezza dell’operatore privato accreditato: qui c’è un’ottica di sussidiarietà, si garantiscono risposte, facciamo un servizio pubblico. Vogliamo fare un esercizio di misurazione reale di quanti benefici otteniamo per ogni singolo euro investito in sanità? Resto convinto che in Lombardia ci sia un sistema di altissima efficienza». Suggerimenti per migliorare ne avrebbe?«Ho partecipato all’estensione della legge 23 del 2015 che si riproponeva di ammodernare il sistema dei servizi lombardo. Va applicata. Qualche cambiamento sarebbe da fare, con il senno del poi, anche perché qualsiasi buona legge va aggiornata, ma la questione centrale è la valorizzazione della sanità territoriale con il ruolo strategico dei medici di medicina generale e strutture territoriali».Quella che chiamano medicina di prossimità?«Esatto, che sfrutti le più moderne tecnologie, anche, per consulti e visite. Non la voglio definire una sfida, ma una realtà del presente e del prossimo futuro. A mio avviso il governo avrebbe dovuto prendere i soldi del Mes da dedicare al sistema sanitario. È stata fatta una scelta diversa, spero che dal Recovery possano essere tratte risorse per attuare il piano di rilancio e di resilienza. Serve una guida e non procedere in ordine sparso». Da scienziato: come si tengono insieme salute ed economia, oggi?«Non voglio fare l’opinionista e non è mia abitudine dare giudizi politici. Rispondo che solo un popolo in salute può avere la forza di fare ripartire l’economia. Bisogna però fare fatti e non parole, mettere in sicurezza anche il sistema economico e sociale del Paese. Sono state necessarie decisioni impopolari. Mi auguro arrivino indicazioni dal governo e si possano ascoltare persone competenti che si assumono la responsabilità di agire. Le chiusure mirate sono fondamentali. Serve però avere la capacità e l’iniziativa di pianificare. Abito a Milano, vedo come è cambiata la fila alla mensa dei poveri. E penso ai miei figli, a quale futuro li aspetta». Quanti figli ha?«Tre figli, con la mia prima moglie. Poi mi sono risposato con Monica, tanti anni fa, e con noi vivono i suoi due ragazzi. Penso a loro cinque e da cittadino dico che non dobbiamo abbandonare la speranza».Parla di pianificazione. Sui vaccini, ad esempio?«Da ex presidente e direttore generale in Aifa, per educazione e correttezza deontologica non mi permetto di giudicare. A livello europeo e dei singoli Paesi occorreva però una programmazione e, anche, alzare la voce. A determinate decisioni si sarebbe dovuti arrivare prima. Non entro nel merito della contrattualizzazione. Ma so che quando si pianifica occorre tenere conto anche delle variabili negative e avere un piano B. Prima, non dopo». È nato il ministero della Disabilità. Ne sentiva il bisogno? Cosa dovrebbe fare e cosa evitare? C’è chi già parla di discriminazione.«Chi è persona con disabilità? Chiunque può esserlo in un contesto ambientale sfavorevole. Mi innervosisco quando parlano di “diversamente abili”: ma che cosa significa? Mi considero una persona normale. Bene un ministero se offre una possibilità di innovazione, per rendere concreto ciò che la legge dello Stato già ratifica: la totale e perfetta integrazione per persone con disabilità, che sono risorse per la comunità. Anche qui, guardiamo i fatti. Se sarà un esercizio retorico per dare una poltrona in più, sarà stato commesso un errore. Se abbatterà le barriere, soprattutto culturali, avrà svolto un ruolo importante».Che tipo di barriere?«Mi riferisco all’inserimento lavorativo, al diritto all’educazione e formazione. Al “dopo di noi”, per chi vive con i genitori. Non parlo di assistenzialismo, sia chiaro. Né di pietismo. Quando si chiede se valga la pena vivere così rispondo: certo che ne vale la pena, ma occorre non ci sia la solitudine. Può essere un’occasione e non settorializzerà una fascia di popolazione se ci sarà ricognizione vera dei bisogni. Sono un grande lottatore e un entusiasta. Quando con la mia carrozzina 4x4 sono arrivato a un rifugio in montagna, con alcuni amici e mia moglie, il gestore mi ha chiesto come mi fossi permesso di arrivare fin lì: se fosse successo qualcosa avrebbe dovuto chiamare un elicottero. Gli ho domandato se non lo avrebbe fatto anche per qualcuno senza carrozzina. Melazzini ha la testa dura, ma in molti rinunciano. La politica, con o senza un ministero, deve creare le condizioni perché le persone non siano lasciate sole. “La semplicità”, diceva Steve Jobs, “può essere più difficile della complessità. Devi lavorare duro per ripulire il tuo pensiero e renderlo semplice. Ma alla fine paga perché una volta che ci riesci puoi spostare le montagne”. Questo è il risultato che vorrei».