2018-05-04
«Sui manicomi papà fece una buona legge ma poche Regioni l’hanno messa in atto»
Alberta Basaglia, figlia del famoso psichiatra Franco Basaglia difende la scelta di chiudere gli istituti per malati mentali: «Oggi chi soffre non è più escluso».Di suo padre, Franco Basaglia, ha nella mente «la grande allegria. La capacità di non prendersi mai sul serio, pur sapendo che si era dentro un passaggio epocale». È cristallino il ricordo che Alberta Basaglia ha del padre, lo psichiatra veneziano, scomparso nel 1980, che realizzò una radicale riforma dell'istituto manicomiale. Come è netto il pensiero - «credo che la battaglia condotta da mio padre sia stata vittoriosa. Già solo il fatto che non esistano più quei luoghi terrificanti è una conquista», chiosa - sulla legge che porta il nome di Basaglia, la 180 del 13 maggio 1978. Una legge che ancora oggi stabilisce i principi sui quali si deve basare l'assistenza alle persone affette da disturbi mentali nel nostro Paese. E che portò alla chiusura, graduale nel tempo, dei manicomi, proponendo un'assistenza basata su un'articolata rete di servizi territoriali, regolando nel contempo il Tso, il Trattamento sanitario obbligatorio. La legge suscitò consenso ma anche molte critiche. Il dibattito, a quarant'anni dall'approvazione, non si è esaurito. La chiacchierata con la Basaglia, psicologa, vicepresidente della Fondazione Franca e Franco Basaglia in occasione del suo approdo nel Bresciano, a Sabbio Chiese, assieme a Massimo Cirri, psicologo e voce di Caterpillar su Radio Due, per la rassegna Nuvole: eventi in Valle Sabbia per raccontare la salute mentale, promossa dalla Comunità montana valsabbina, prende le mosse da questo anniversario. Negli anni si sono susseguite le proposte di legge presentate, per una revisione o al contrario con l'intento di dare piena attuazione all'impianto legislativo. Una «rivoluzione», quella pensata dallo psichiatra veneziano, in un viaggio professionale lungo vent'anni passato per la direzione dei manicomi di Gorizia, Parma, e infine Trieste, sulla quale il giudizio resta ancor oggi, tra sostenitori e detrattori, un Giano bifronte. Lo stesso Basaglia, pur riconoscendo il notevole risultato legislativo raggiunto, si rende conto e lo dichiara, che ci si trova «davanti a un compromesso», affrettato peraltro dall'incombere del referendum radicale per l'abolizione dei manicomi (con il quale proponevano l'abrogazione di un impianto legislativo risalente addirittura al 1904), ma non lo respinge e non respinge soprattutto il lavoro che stava di fronte ai veri riformatori dopo la legge, come ricorda Oreste Pivetta in Franco Basaglia, il dottore dei matti. La biografia. «È una legge transitoria, fatta per evitare i referendum e perciò non immune da compromessi politici. Attenzione quindi alle facili euforie. Non si deve credere di aver trovato la panacea a tutti i problemi del malato di mente con il suo inserimento negli ospedali tradizionali», dichiara Basaglia in un'intervista del maggio 1978. D'altronde la Basaglia fu pensata come una legge quadro che rimandava alle Regioni la sua attuazione, in considerazione di un piano sanitario nazionale che avrebbe dovuto fissare finanziamenti, strutture e standard di funzionamento. E se alcune Regioni sono state tempestive nel darvi concretezza, altre hanno tardato, producendo nel tempo effetti su qualità ed efficacia dell'assistenza. E solo nel 1999, proprio perché prima era stato necessario costruire e consolidare la rete di servizi territoriali, l'allora ministro della Sanità, Rosy Bindi, annunciò la definitiva chiusura dei manicomi. Dottoressa Basaglia, negli anni la critica più decisa alla legge che porta il nome di suo padre è stata che la chiusura degli ospedali psichiatrici non fosse stata pianificata in modo accurato e soprattutto, nei primi anni dopo l'approvazione, «che i pazienti che per anni erano stati istituzionalizzati e annullati non potevano tutto d'un tratto essere lasciati a piede libero e allo sbaraglio». «Rispetto alla perfezione della legge, non capisco perché ci si aspetti che solo alcune leggi non abbiamo dei limiti. Se la legge 180 ha dei limiti, risiedono nel fatto che non venga applicata nella sua interezza. Molte Regioni si sono attivate per darvi attuazione, altre non lo hanno fatto appieno. Ma le esperienze sul territorio dimostrano che laddove i servizi territoriali per la salute mentale sono stati varati, la rete funziona. E le persone non sono certo state abbandonate. A chi afferma che la legge non ha funzionato, che è stata velleitaria, io rispondo con una domanda: in alcune situazioni dove sono i servizi territoriali? ». Ci sono state, in questi 40 anni, parecchie proposte di legge di revisione o di superamento della legge o, al contrario, con l'obiettivo di dare le gambe per camminare all'impianto legislativo. Tra queste ultime, il ddl 2850 presentato in Senato lo scorso settembre, per iniziativa di Nerina Dirindin e Luigi Manconi. Pensa che la rivoluzione culturale e medica che suo padre voleva possa dirsi compiuta?«Le rivoluzioni non si compiono mai. E secondo me sono vere rivoluzioni se aprono la contraddizione. Il lavoro di mio padre ha schiuso la strada al dare piena cittadinanza all'assunto che anche chi non è omologabile, chi vive condizioni di esclusione sociale, ha diritto di parola, di avere i diritti tanto quanto gli altri. Non in tutte le parti del Paese l'organizzazione dei servizi di salute mentale nel territorio è stata declinata in modo corretto. Lo dimostra il fatto che vi sia bisogno di proporre nuovi impianti legislativi per dare piena attuazione alla legge come la proposta di Dirindin - Manconi. Che non è altro che la declinazione di quello che prevedeva la 180 ». Suo padre affermò che in manicomio il malato «entrava in un luogo costruito per il completo annientamento della sua individualità». «Mio padre propose un rovesciamento del punto di vista. Ovvero, lo psichiatra non può più limitarsi a osservare dall'esterno il paziente, come fosse un oggetto estraneo da classificare e abbandonare. Deve invece mettersi dalla sua parte, ascoltarlo, calarsi per quanto gli è concesso nella condizione della persona che ha di fronte».A Gorizia, dove suo padre diresse l'ospedale psichiatrico per otto anni, dal 1961, avviando la sperimentazione di una comunità terapeutica, portò tutta la famiglia. E all'esperienza goriziana Sergio Zavoli dedicò il documentario I giardini di Abele, datato 1968. Cosa ricorda di quegli anni?«Sull'esperienza di Gorizia, allora avevo 5 anni, ho scritto un libro, Le nuvole di Picasso. È il racconto di quell'esperienza nel vissuto di una bambina che pensava che il mondo di casa sua, anticonformista, libero, fosse come il mondo di fuori. Poi, cominciando a frequentare il mondo di fuori, capisce che non è così. Ma pure, con il senno di poi, che quel mondo è stato un bel modo di crescere. E su Zavoli, mi piace dire che dopo quel documentario nessuno poteva più fingere di non sapere cosa c'era dentro i manicomi».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
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