2021-03-26
Suez chiuso costa 400 milioni l’ora. L’ultima volta vi fu anche una guerra
Il cargo arenato nel canale causa una perdita di 9,6 miliardi al giorno ed evidenzia come il commercio mondiale sia dipendente da alcuni «colli di bottiglia» marittimi. Nell’area è la peggiore crisi dal 1967Il blocco del canale di Suez rischia di non risolversi tanto presto. Potrebbero infatti volerci giorni (o addirittura delle settimane) per togliere di mezzo la Ever Given: la nave portacontainer della compagnia Evergreen marine corp da 220.000 tonnellate di stazza (e lunga 400 metri), che si è incagliata martedì scorso a causa di una forte tempesta di sabbia, portando così sostanzialmente alla paralisi del canale. Nel mentre, sarebbero (almeno) 165 le imbarcazioni che risultano in attesa di transitare. I danni di questo ingorgo non si stanno del resto facendo attendere. Non dobbiamo infatti dimenticare che circa il 30% del volume dei container marittimi del mondo passa quotidianamente attraverso il canale che congiunge il Mediterraneo con il Mar Rosso e da cui dipende (approssimativamente) il 12% del transito complessivo di merci a livello mondiale: sono cinquanta le navi che in media lo attraversano ogni giorno. Ebbene, secondo i calcoli riportati da Lloyd’s list, questo blocco costerebbe circa 400 milioni di dollari all’ora: il che significherebbe 9,6 miliardi al giorno. Non solo: perché al di là delle quasi duecento imbarcazioni attualmente in attesa, il rischio è che, nel corso dei giorni, possano aggiungersene sempre di più. Tra l’altro, ha sottolineato sempre Lloyd’s list, non era mai accaduto che navi così grandi si incagliassero nel canale: due precedenti del 2016 avevano infatti visto protagoniste delle imbarcazioni più piccole, determinando incidenti che si erano risolti in tempi relativamente rapidi (da 24 a 48 ore). Pur a fronte delle forti perdite attuali, il settore petrolifero è tuttavia in definitiva meno colpito di quanto si potrebbe pensare. Come notato ieri da Bloomberg news, il canale oggi risulta meno centrale per il trasporto di greggio rispetto ad alcuni anni fa: le spedizioni di petrolio dal Medio Oriente al Vecchio Continente sono infatti scese a 2,1 milioni di barili giornalieri nel 2019, rispetto ai 3,8 milioni di due decenni prima. Non va comunque neppure trascurato che, come sottolineato ieri da Cnbc, tra il 5% e il 10% dell’intero petrolio trasportato in mare viaggia attualmente attraverso Suez. Tutto questo, fermo restando che, già nella giornata di ieri, il prezzo del greggio è tornato a scendere, principalmente a causa delle preoccupazioni sulle restrizioni, introdotte in Europa per il contrasto alla pandemia di Covid-19. Tra l’altro, sempre restando al comparto energetico, va anche ricordato come dal canale transiti circa l’8% del gas naturale liquefatto a livello globale. E un’interruzione prolungata rischia, in particolare, di compromettere i rifornimenti per il mercato europeo. Insomma, Suez sta di fatto andando incontro alla sua peggiore crisi dal 1967, quando il canale rimase chiuso per otto anni a causa della guerra dei Sei giorni, per poi riaprire nel 1975 (due anni dopo, cioè, il conflitto dello Yom Kippur): in particolare, la riapertura avvenne dopo le operazioni di sminamento, alla presenza dell’allora presidente egiziano, Anwar al Sadat. La lunga chiusura costrinse le navi a seguire rotte più lunghe, portando anche a un aumento dei premi assicurativi e dei costi operativi. Senza poi dimenticare l’impiego di petroliere dalle dimensioni sempre più grandi. A fare le spese di quella chiusura in termini di approvvigionamento petrolifero furono soprattutto Italia e Francia. Ancor più grave - per quanto più breve - fu la crisi del 1956, quando il presidente egiziano Gamal Nasser nazionalizzò il canale, innescando così un intervento militare di Israele, Francia e Gran Bretagna: intervento poi di fatto bloccato dal presidente americano Dwight Eisenhower, che temeva un pericoloso allargamento del conflitto nel contesto della Guerra fredda. E attenzione: perché quanto sta accadendo a Suez pone anche un problema di carattere geopolitico. Il recente blocco ha messo infatti ulteriormente in evidenza come il commercio mondiale sia spesso dipendente da alcuni «colli di bottiglia» marittimi: si pensi al canale di Panama, allo Stretto di Hormuz o allo Stretto di Malacca. Passaggi in cui si riscontrano nodi di varia natura: dalle dimensioni crescenti delle navi a questioni di sicurezza. Pechino, per esempio, riscontra un problema di eccessiva dipendenza proprio dallo stretto di Malacca (l’allora presidente Hu Jintao parlò nel 2003 non a caso di «dilemma di Malacca») e ha per questo messo in campo una serie di misure volte a ridurre i rischi: dal Kazakhstan-China pipeline ai Sino-Myanmar pipelines, passando per un crescente interesse verso la rotta del Mare del Nord. Tutto questo, senza trascurare che, a luglio scorso, il direttore generale della Chabahar free trade zone organization abbia sostenuto che una rotta commerciale tra Mumbai, San Pietroburgo e Amburgo (attraverso il porto iraniano di Chabahar) potrebbe, almeno in parte, sostituire proprio Suez. Uno scenario, rispetto a cui tuttavia il portavoce della Suez canal authority, George Safwat, non si era mostrato troppo preoccupato.
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