2021-12-20
Antonio Suetta: «L’eutanasia non è un diritto. Semmai è falsa compassione»
Monsignor Antonio Suetta (IStock)
Il vescovo di Ventimiglia-San Remo: «È una bugia che vadano colmati i vuoti legislativi. I malati sono visti come un costo: il vero obiettivo è contenere le spese per le terapie».Monsignor Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia-San Remo, è impegnato in una battaglia coraggiosa: far risuonare la voce della ragione e della fede contro la liberalizzazione del suicidio assistito e dell’eutanasia.Eccellenza, alla Camera è approdata una legge che ricalca le linee guida della sentenza della Consulta sull’aiuto al suicidio. Perché lei ha parlato di «pericoloso grimaldello»?«Siamo partiti con le Disposizioni anticipate di trattamento, il biotestamento; siamo arrivati al referendum per l’eutanasia, che serve a depenalizzare una parte dell’articolo del codice penale che punisce l’omicidio del consenziente; lo scopo ultimo, chiaramente, è lo sdoganamento completo dell’eutanasia».Lei ha evidenziato il ruolo della terapia del dolore. Però ci sono malati, impossibilitati a muoversi e financo a parlare, che non sono in condizioni terminali, eppure soffrono così tanto da preferire la morte. Perché costringerli a coesistere con il loro dolore?«Messa così, sembra che ci troviamo di fronte a una compassione dovuta a chi si trova in situazioni di particolare sofferenza».Questo è uno degli argomenti dei fautori della «dolce morte». «Intanto, io parlerei di una “tentazione” di desiderare la morte, che in fondo è comprensibile, in certe condizioni. Non si deve dimenticare che anche il dolore più resistente e devastante può essere affrontato con adeguata e graduale terapia; soprattutto non dobbiamo trascurare che a questa tentazione è possibile e necessario rispondere con autentica vicinanza umana, psicologica e spirituale».E laddove non sia possibile? Con i pazienti tetraplegici, ad esempio?«C’è da dire che quella “tentazione” o quel desiderio, per quanto comprensibili, non necessariamente costituiscono il fondamento di un diritto. Insomma, non sempre il fatto che si desideri una cosa rende buono o doveroso il concederla. Ma mi rendo conto che qui non si tratta solo di dare risposte in termini di precetti».Appunto.«Io credo che, alla fine, la risposta più adeguata resti quella della cura. E “cura” è un concetto più esteso di quello di terapia».Come la intende lei?«Si cura una persona anche quando la si “accompagna” umanamente lungo il percorso della sua patologia irreversibile. Aggiungo che gli ideologi dell’eutanasia, a mio parere, non sono affatto mossi da un’autentica compassione verso il malato: mi sembrano spinti, piuttosto, da una forma di calcolo economico».Perché?«Perché la cura, nel senso che le spiegavo e che include, ovviamente, terapie e altri supporti, ha un costo sociale. Il vero obiettivo, qui, mi pare quello di contenere la spesa…».L’uomo improduttivo perché malato, ridotto all’inutilità e, quindi, alla disperazione?«Tecnicamente concordo in pieno con questa descrizione. Da un punto di vista etico e antropologico, però, direi che è anche peggio».In che senso?«Be’, è il tentativo di distinguere tra uomo e uomo in base a un criterio importante, ma non assoluto. Voglio dire: non è la salute - o altre condizioni - che fonda la dignità dell’uomo».D’altra parte - chiamiamolo «grimaldello» o «piano inclinato» - se si accorda l’eutanasia al tetraplegico, perché non concederla anche a chi soffre di depressione, o ha perso il lavoro, la famiglia, ed è sconfortato? «Anche questo è vero. O ci si attesta su un criterio oggettivo, per cui la vita umana è sacra, inviolabile e non disponibile, oppure il criterio diventa la percezione soggettiva delle situazione. Lei cita chi soffre di depressione, ma può anche darsi il caso di un anziano, il quale ritenga semplicemente di aver esaurito il suo percorso terreno e preferisca spegnersi. Questo non è umano».E un compromesso? Un cattolico rifiuta suicidio assistito ed eutanasia; al laico, si permette di agire secondo coscienza.«Qui non è questione di appartenenza religiosa. Le ragioni per respingere queste prospettive sono filosofiche, cioè legate a una giusta visione dell’uomo. E credo che essa sia incontrovertibile, a meno che non si voglia ridurre tutto al criterio della soggettività, dell’efficienza o, magari, della decisione della maggioranza».La Chiesa, comunque, è sempre stata contraria all’accanimento terapeutico. È sempre possibile distinguere la scelta di interrompere trattamenti inutili e dolorosi, da quella di concorrere attivamente alla morte del paziente?«Certamente non è sempre semplice. Accertarlo richiede una molteplicità di competenze e non c’è un confine netto. Come in tutti i casi in cui l’uomo è chiamato a collegare l’oggettività della norma con la soggettività della situazione, la mediazione deve essere svolta dalla coscienza. Almeno quella del paziente e del medico, che valutano benefici e conseguenze indesiderate della terapia, in termini di sofferenza ed effetti collaterali. Non sono cose che possa definire il legislatore, e nemmeno il filosofo o il teologo dalle pagine di un libro».Esiste anche un tema di cultura giuridica? L’uomo del nostro tempo è convinto che serva una legge per tutto e che, se una legge non c’è, i «vuoti» debbano colmarli i giudici. Su certe questioni, però, non è meglio un vuoto legislativo che una cattiva legge?«Sono d’accordo. Inoltre, oggi prevale la legge positiva rispetto alla legge naturale, che molti non riconoscono neppure più. Quando però si pretende che il diritto positivo regoli situazioni che attengono alla vita umana, in cui ci sia da distinguere tra il bene e il male, s’impone il riferimento al diritto naturale. Invero, per certe materie, non si dovrebbe nemmeno sentire la necessità di colmare il vuoto legislativo, perché un vuoto legislativo non c’è».No?«Laddove il nostro codice penale punisce l’omicidio, punisce anche l’omicidio del consenziente e l’aiuto dato al suicida: in tal modo rispetta giustamente e non oltrepassa il limite dato dalla considerazione della natura delle cose».Dunque, più che di colmare un vuoto, si tratta di stravolgere l’ordinamento?«Proprio così. E questa violenza alla natura dell’uomo è profondamente ingiusta».Eccellenza, però la Chiesa, per concentrarsi sui migranti e l’ecologia, non si è un po’ arresa sui temi etici?«Non parlerei di resa. In primo luogo, molto dipende da come viene veicolata l’informazione».A cosa si riferisce?«Quando il Papa parla, con estrema chiarezza, di aborto, eutanasia e altri principi fondamentali della dottrina cattolica, i mezzi di comunicazione si guardano bene dall’evidenziare il messaggio. Al contrario, i media enfatizzano quando dice cose altrettanto giuste, ma più confacenti alla sensibilità del momento».È solo questo il problema?«No. È sicuramente vero che c’è uno stile di comunicazione che risente del pensiero dominante, il cui dogma è il dialogo».Qual è il limite di questo concetto?«Il dialogo non può scadere nell’indifferentismo. Esso è fatto di ascolto e di proposta coerente con le proprie convinzioni. La Chiesa, in fondo, ha questo compito: da una parte, annunciare con fermezza le verità della dottrina cristiana; dall’altra, accompagnare anche coloro che non sono credenti. Il modello è l’episodio evangelico dei discepoli di Emmaus».Si spieghi.«Senza farsi riconoscere, Cristo accompagna questi due discepoli smarriti e, a mano a mano, dialogando, apre i loro cuori e i loro occhi».Quindi, nella Chiesa si è fatta largo una modalità di dialogo indifferentista?«Probabilmente, qualcuno è indotto a ritenere che un atteggiamento meno dogmatico risulti più efficace e favorente. Ad ogni modo, ripeto, non parlerei di resa: le ricordo che il Dicastero per i laici e la Pontificia accademia per la vita, all’epoca del caso Lambert, in Francia, avevano ribadito l’insegnamento tradizionale della Chiesa. E vorrei aggiungere una cosa».Prego.«Io sono anche convinto che, in questo tempo di grande confusione, il compito, soprattutto di noi pastori, sia quello di dire una parola chiara. È necessario affermare il principio, e su quello non c’è da discutere; dopodiché, bisogna aiutare le persone a liberare la loro capacità di apprendimento del principio da pregiudizi o da falsi convincimenti, che la cultura dominante costantemente instilla».A quali falsi convincimenti sta pensando?«Considerare che ogni desiderio sia un diritto, e che l’unica regola sia di non ledere gli altri, è molto riduttivo rispetto ai principi fondamentali della vita morale dell’uomo. Capisco che, per chi vive immerso nel pensiero unico, sia difficile comprenderlo».E che si fa?«Ci si sforza di attivare dei percorsi di accompagnamento, facendo attenzione che essi non riducano la portata dei principi e non lascino pensare che il magistero sia cambiato. Se la Chiese facesse questo, mancherebbe alla sua missione, tradendo sé stessa e l’uomo. I credenti sanno gioiosamente che la fede è lievito di vita buona».
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