2022-06-02
Su gas, armi e petrolio non c’è l’Unione e Orbán fa blocco sulle sanzioni
Viktor Orbán e Emmanuel Macron (Ansa)
Veto ungherese al sesto pacchetto, mentre l’Europa resta divisa su tutti i dossier. L’asse Macron-Draghi-Scholz non detta la linea.La costruzione e il licenziamento del sesto pacchetto di sanzioni ha confermato quanto sia fragile la costruzione di una grande Europa unita e pronta a schiacciare l’Orso russo. Lo abbiamo visto con il gas, con l’invio di armi ed è successo di nuovo con il petrolio. Accordi annacquati, spalmati nel tempo e pieni di deroghe con effetti immediati per chi sanziona e dilazionati per chi è sanzionato, compromessi al ribasso e accompagnati puntualmente da esternazioni di rito fatte dai protagonisti seduti attorno al tavolo, ciascuno per dimostrare di non averci perso la faccia. E quella sensazione, passateci la battuta, di ritrovarci ogni volta davanti a un buco con la sanzione intorno. Anche ieri, l’Ungheria di Viktor Orbán - dopo aver tenuto per quasi un mese sotto scacco l’intera Unione europea e aver strappato la deroga sul greggio - è tornata a impuntarsi nel corso della riunione degli ambasciatori dei 27 chiedendo di escludere il patriarca russo Kirill dalla lista nera aggiornata dell’Ue. E bloccando il pacchetto di sanzioni. Altra crepa da sanare. Altri compromessi. Perché questo copione si ripete? È chiaro che se si stacca il gas o si bloccano le forniture di petrolio, è un problema grosso per tutti gli Stati dell’Unione, ancora alle prese con le conseguenze della maggiore emergenza sanitaria degli ultimi 100 anni. Ma anche nella gestione della crisi ucraina una risposta comune si è dimostrata assai complicata, se non impossibile, perché le differenze di struttura macroeconomica, di fabbisogno energetico, di alleanze geopolitiche sono tali da richiedere sempre delle eccezioni o comunque delle soluzioni che sono ancora lontane anni luce da quel «federalismo pragmatico» invocato anche da Mario Draghi lo scorso 25 maggio, da contrapporre ai «sogni di un federalismo a 360 gradi». Le lacerazioni interne agli Stati membri sono però ancora troppo forti, lo abbiamo visto anche nella partita sulle armi con il braccio di ferro tra la Germania e la Polonia, sostenuta dagli Usa. Ma cui anche Bruxelles ieri ha teso una mano con il via libera della Commissione Ue al Pnrr polacco da 36 miliardi che era congelato da un anno a causa delle violazioni dello Stato di diritto contestate a Varsavia. E sempre ieri il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha promesso all’Ucraina la consegna di un moderno sistema di difesa contraerea. Lo ha detto parlando al Bundestag, dove ha sottolineato che il sostegno tedesco a Kiev è articolato su più misure. Ma resta la difficoltà politica per il successore di Angela Merkel di resistere sia alla pressione della Casa Bianca, che sta chiedendo a Berlino di ribaltare 20 anni di strategia geopolitica tagliando i ponti contemporaneamente con Mosca e Pechino, sia alla pressione interna dei Verdi e della stessa Cdu, passata all’opposizione. Ci sono linee di faglia dentro l’Ue che rendono estremamente faticoso schivare i diritti di veto, dal punto di vista funzionale le istituzioni europee non sembrano riuscire a comporre il puzzle di interessi di governi comunque allineati contro Vladimir Putin e contro l’invasione russa. Ne è consapevole anche Draghi: «Le istituzioni europee che i nostri predecessori hanno costruito negli scorsi decenni hanno servito bene i cittadini europei, ma sono inadeguate per la realtà che ci si manifesta oggi davanti», aveva detto il 3 maggio intervenendo alla plenaria del Parlamento europeo e chiedendo di iniziare un percorso verso la revisione dei Trattati per superare il principio dell’unanimità, da cui origina una logica intergovernativa fatta di veti incrociati.Al di là dei dossier specifici, i leader del Vecchio continente sembrano essere divisi sul dove e sul come dovrà finire la guerra tra Ucraina e Russia. C’è chi vuole la vittoria di Volodymyr Zelensky a ogni costo e chi no, convinto di dover tenere aperto il canale diplomatico e che gli aiuti militari abbiano come primo obiettivo la cessazione delle ostilità. Sullo sfondo, c’è un quadro geopolitico in rapida e profonda trasformazione. Le relazioni tra l’Ungheria di Orbán e Mosca sono messe alla prova ma esistono ancora, l’azionista di maggioranza dell’Europa - ovvero la Germania - ha una leadership incerta e rapporti complicati con l’altra parte dell’Atlantico, la Polonia ha una visione dell’Europa che invece coincide perfettamente con quella del presidente americano Joe Biden, i Paesi baltici e scandinavi sembrano fare più riferimento a Londra, dove Boris Johnson nella partita dell’allargamento della Nato non pare voler giocare il ruolo del gregario, ma punta invece a formare un gruppo di testa e a capitanarlo. Vedremo se la piattaforma Johnson avrà più potere attrattivo di quella Macron-Draghi-Scholz nell’approccio alla soluzione del conflitto in Ucraina, ma nel lungo termine potrebbe cambiare l’assetto geostrategico dell’Europa nel contesto globale. L’Unione europea, del resto, è una pluralità di nazioni percepita come un «club economico commerciale», come l’ha definita Biden durante l’ultimo incontro con Draghi a Washington. Questo in tempo di pace può essere una forza ma in tempi straordinari, come quelli che stiamo attraversando, diventa una pericolosa fragilità.