2024-11-19
Strabismo pontificio sul genocidio. Sui palestinesi c’è, sugli uiguri no
Jorge Mario Bergoglio (Imagoecomica)
Il Pontefice chiede verifiche su un possibile sterminio di massa a Gaza, usando con troppa disinvoltura una formula che, nel diritto internazionale, dovrebbe avere un significato preciso. E che non ha utilizzato per gli uiguri, pur di tenere aperti i canali con la Cina.Chi scrive non è nessuno. Nessuno in grado di poter commentare le parole del Papa quale capo della Chiesa. Non spetta dunque a noi sviscerare la frase di Francesco che ammonisce la comunità internazionale chiedendo di verificare se a Gaza sia avvenuto o stia avvenendo un «genocidio». Non spetta a noi se la intendiamo come soffio del rappresentante di Dio in terra. Infatti, essere il capo dei cattolici significa portare sulle spalle la sofferenze del mondo, degli esseri umani. La sofferenza di chi fa del bene e anche di chi porta il male. Ma il Papa non è solo il capo della Chiesa, regge anche uno Stato e quando parla lo fa politicamente. Fa politica anche quando tace. Per questo non siamo d’accordo con Edith Bruck, la scrittrice di origine ungherese sopravvissuta all’Olocausto. La Bruck commentando l’uscita del Papa denuncia l’effetto antisemitismo, ma smorza. Ipotizzando un gap linguistico. Immagina che Bergoglio non maneggi così bene la nostra lingua e quindi un po’ gli sia scappata la frizione. Come quando, parlando di presenze gay nei seminari, disse «c’è già troppa frociaggine» in Vaticano. Ma con Israele e Gaza la partita è di tutt’altra natura e il termine «genocidio» ha una valenza giuridica e politica; la medesima in tutte le lingue del globo. Non può sfuggire al Papa che anche solo invocare il termine significa fornire benzina alla macchina che si muove su diverse ruote. Quella dell’Onu, dei Paesi sciiti, dei manifestanti pro Pal che scientemente sbandierano il termine «genocidio» a Gaza per occultare quanto i miliziani di Hamas hanno fatto il 7 ottobre del 2023 rapendo e uccidendo cittadini israeliani ed ebrei innocenti. Un conto è chiedere la pace e condannare la morte di vittime innocenti (magari spiegando che c’è anche Hamas che li usa come scudo). Legittimo e sacrosanto criticare le scelte del governo di Benjamin Netanyahu, soprattutto quelle che non hanno permesso di prevenire il pogrom del 7 ottobre. Tutto ciò non sfugge al Papa, perché sa bene che su altri - stavolta veri e propri - «genocidi» non si pronuncia. Silenzio. Eppure di Cina ha parlato spesso. Anzi, durante il viaggio di ritorno dall’Asia, è sembrato guardare al regime di Pechino con sincera ammirazione. Anche se lui è l’ultimo monarca assoluto sulla terra, rispetto al regime del Partito comunista cinese ci si aspetterebbe qualche obiezione, soprattutto perché è il successore di quel Karol Wojtyla che ha speso tutta la sua vita e il suo potere pastorale per cacciare il comunismo dall’Europa. Invece Jorge Mario Bergoglio ha risposto ai giornalisti che chiedevano lumi sulla trattativa Vaticano-Partito comunista cinese in modo stupefacente: «Sono contento dei dialoghi con la Cina, il risultato è buono anche per la nomina dei vescovi. Verrebbe da chiedersi, ma da quando in qua la guida spirituale di un miliardo e quattrocento milioni di cattolici è contento di dover trattare con uno Stato la nomina dei suoi rappresentanti e dei pastori delle anime? E da quando in qua devono essere approvati dall’autorità di Pechino? Nella sua enciclica improvvisata ad alta quota, Bergoglio si è però spinto oltre: «Per me la Cina è un’illusione, io vorrei visitare la Cina. È un grande Paese, ammiro la Cina, rispetto la Cina. È un Paese di una cultura millenaria, di una capacità di dialogo, di capirsi tra loro che va oltre i sistemi democratici che ha avuto». È vero che il Papa «viene dall’Argentina, la fine del mondo», ma nessuno lo ha informato che nella sua ultra millenaria storia la Cina non ha mai conosciuto la democrazia. Stupore? Fino a un certo punto. Perché l’uscita è tutt’altro che ingenua. Da gesuita sa bene che spingendo l’accento sull’elogio evita di fare al regime cinese le critiche che qualunque prete farebbe. Mancato rispetto dei diritti umani, controllo digitale della popolazione e abuso di qualunque struttura statale nel tentativo di diluire culturalmente e fisicamente la popolazione musulmana degli Uiguri. Un qualunque prete avrebbe pregato per quanto succede nello Xinjiang e chiesto lo stop del «genocidio», ma evidentemente il Papa può permettersi di aprire uno squarcio politico in Medio Oriente tirando in ballo il Dio degli eserciti del Vecchio Testamento, mentre sa di non potere accennare nemmeno ai diritti umani in Cina nella speranza di avere il timbro del Pcc sul visto d’ingresso ai cristiani. Una scelta di marketing politico molto lontana dall’iconografia del pesce che simboleggiava Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore nelle catacombe.Lo sa bene il cardinale Joseph Zen arcivescovo emerito di Hong Kong che per una vita è entrato uscito dalle galere cinesi perché ritenuto uno dei più alti punti di riferimento dei movimenti democratici di Hong Kong. Nel 2022, quando venne arrestato per l’ennesima volta, il Papa nulla fece e ci mise un anno prima di riceverlo. Tempo che non ha impiegato a leggere i rapporti delle associazioni sui diritti umani che tracciano una precisa strategia di sterminio del popolo uiguro. Ma guai a chiamarlo «genocidio» quello, perché altrimenti si perdono i vantaggi di vicinanza con Xi Jinping. Passi se lo fa il Pd che ha più volte boicottato una risoluzione del nostro Parlamento che avrebbe approvato la definizione di «genocidio» praticato dal Pcc, ma dal Papa ci aspetteremmo altro. A meno che non si comporti come un capo di Stato che flirta con Pechino e rischia di infiammare il Medio Oriente sostenendo la fazione più pericolosa dell’islam. La stessa che sa bene come infiltrare la cultura occidentale, indebolirla con propaganda di strada e di università. La stessa che ha tanti influencer a servizio e rischia di averne uno in più.
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
Continua a leggereRiduci
Mark Zuckerberg (Getty Images)