2023-07-04
I cinesi in Italia: da immigrati a «nemici» imprenditori
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Cinesi in compagnia di religiosi e autorità nel campo di prigionia di Isola del Gran Sasso in occasione del battesimo di gruppo nell'agosto 1941. (Courtesy Carocci editore)
Una delle comunità etniche più vecchie d'Italia, quella dei cinesi, si insediò a metà degli anni Venti. Sostanzialmente tollerati durante il ventennio, furono fatti prigionieri durante la guerra. I pochi che rimasero parteciparono alla ricostruzione raggiunti dai compatrioti dopo l'avvento del comunismo. Non erano stampe di Leone Nani, il fotografo italiano che raccontò la Cina a cavallo tra Ottocento e Novecento. Erano persone in carne ed ossa. Non avevano costumi sgargianti né copricapi tradizionali quei piccoli uomini che comparvero per le vie di Milano alla metà degli anni Venti del secolo XX. Nell’Italia uscita dalla Grande Guerra ed entrata nel ventennio fascista, quei forestieri che vendevano cravatte di seta e oggetti di artigianato esotico agli angoli delle strade destavano curiosità. Non erano ostili, non parlavano, ma offrivano semplicemente la loro merce accumulata sugli avambracci o adagiata su piccoli banchetti. Questa fu l’immagine dei primi cinesi immigrati in Italia, poche centinaia in tutto e concentrati nei grandi centri urbani come Milano e Bologna. Come erano giunti da così lontano per vivere in un paese culturalmente e storicamente agli antipodi, oltre che geograficamente? I cinesi in Italia: un terremoto, una crisi economica, una guerra.All’inizio del Novecento per i cinesi delle zone rurali più povere la terra dove cercare fortuna era il Giappone uscito dal secolare isolamento e in crescita economica. Due calamità a breve distanza contribuirono a mutare radicalmente il quadro dell’emigrazione cinese. Il primo fu dovuto alla furia della natura, nel Paese più sismico al mondo. Il 1 settembre 1923 un devastante terremoto che raggiunse una magnitudo di circa 8 gradi causò ampie devastazioni e 140.000 vittime nella zona di Tokyo e Yokohama, generando la prima ondata di rientro degli emigrati cinesi rimasti senza tetto e lavoro. La meta alternativa, tra mille difficoltà, sarebbe stata l’Europa delle città industriali. Un secondo motivo di ritiro dalla terra del Sol Levante fu la crisi economica che investì l’Asia alla fine del decennio, accompagnata da una crescente tensione tra Cina e Giappone che a breve sfocerà in un conflitto aperto. Il vettore principale dell’emigrazione cinese verso l’Europa fu il commercio marittimo, tramite i compatrioti imbarcati sulle navi e alle rappresentanze cinesi nei territori che pensavano a fornire i documenti necessari. I Cinesi che per primi misero piede nella Penisola venivano tutti da una stessa regione, lo Zhejiang, nella Cina orientale. In particolare, gli emigrati che giunsero in Italia venivano dalle zone montuose e più depresse della zona. In Italia si stabilirono inizialmente a Milano e Bologna, nella prima nel quartiere popolare di Porta Volta attorno alla principale arteria, la via Paolo Sarpi, che ancora oggi è il cuore della chinatown meneghina. Come detto in apertura, la loro principale attività era la vendita ambulante di piccoli oggetti di artigianato e accessori di abbigliamento autoprodotti in piccoli laboratori. Vi fu, alla fine degli anni Venti, un altro aspetto che favorì l’immigrazione cinese in Italia: nel 1921 l’Italia aveva ratificato un accordo bilaterale con la Cina nazionalista del governo di Nanchino, mentre la Francia chiuse le valvole all’immigrazione asiatica e la Germania sprofondava nella crisi economica negli anni di Weimar. Galeazzo Ciano fu tra le figure che maggiormente favorirono lo scambio economico tra i due Paesi, essendo partita da Shanghai la sua fulminea carriera diplomatica come chargé d’affaires. Il vento dell’Italia fascista negli anni della normalizzazione e del consenso parve soffiare nella giusta direzione per i Cinesi in cerca di fortuna. La popolazione italiana, dopo un’iniziale diffidenza, parve tollerante (molto di più che in Germania dove gli ambulanti asiatici erano perseguitati dalla polizia) tanto che si registrarono a Milano addirittura i primi matrimoni misti (tra cinesi e italiane giunte dala campagna per lavorare in città). Neppure il peggioramento delle relazioni italo cinesi della seconda metà degli anni Trenta (la Cina aderì alle sanzioni dopo la guerra d’Etiopia) e l’alleanza Italo-Giapponese durante la guerra del Manciukuò ruppero del tutto lo status quo dei Cinesi d’Italia. Certo, i numeri erano ancora esigui. I dati parlano di meno di 500 persone alla vigilia della Seconda guerra mondiale, un numero tuttavia adeguato per gli standard dell’epoca. La guerra fu un punto di rottura decisivo. «Viva Isola del Gran Sasso!» L'epopea dei cinesi prigionieri in Abruzzo. I rapporti con i civili italiani, i lavori forzati sotto i TedeschiUsciti quasi indenni dalle leggi razziali del 1938, i Cinesi furono visti con sempre maggiore sospetto con il precipitare della situazione internazionale e in particolare dei rapporti Italia-Cina raffreddatisi dopo il 1937 con l’appoggio a Tokyo nel conflitto per lo stato del Manciukuò. Pochi mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia, la sigla del Patto tripartito Roma-Berlino-Tokyo cambiò radicalmente lo status dei Cinesi sul territorio italiano. Come avvenne per gli Italiani all’estero (considerati nei Paesi in guerra contro la Germania e l’Italia «enemy aliens» e internati) così fu per i cinesi d’Italia. I primi arresti avvennero a Milano nel settembre 1940. La motivazione delle autorità, quella della prevenzione di possibili attività di spionaggio ai danni dell’Italia in guerra. Le disposizioni del Ministero dell’Interno ebbero come elemento incriminante la mancata dimostrazione da parte dei cittadini cinesi dell’origine delle proprie fonti di sostentamento, reato punito dapprima con il confinamento, quindi con l’internamento. Per i Cinesi fu scelta la zona del Gran Sasso d’Italia in un campo di prigionia nel comune di Tossicia (Teramo), tre case coloniche vigilate dai Carabinieri e condivise inizialmente con un gruppo di ebrei tedeschi. Al campo di Tossicia, inadeguato dal punto di vista igienico e sovraffollato, si affiancherà quello della vicina località di Isola del Gran Sasso, che dal 1941 diventerà il campo di concentramento principale dei cittadini cinesi. Quest’ultimo fu ricavato dalla foresteria della basilica di San Gabriele dell’Addolorata, un luogo più adatto all’accoglienza di 175 internati cinesi, assistiti spiritualmente da un prete connazionale, Padre Tchang. Quest'ultimo fu arrestato nel 1944 dai Tedeschi per aver favorito alcuni prigionieri inglesi e si salvò dalla condanna a morte riuscendo a fuggire durante il caos creato da un bombardamento alleato. Se pure il vitto fosse scarso e l’abbigliamento inadeguato alle rigide temperature invernali, ai prigionieri fu concessa una certa tolleranza nel movimento. Spesso ebbero contatti con la popolazione locale e quando possibile riuscirono persino a proseguire una piccola attività di commercio con gli Italiani. Decisamente peggio andò ai cinesi di Bologna, deportati nel campo di Ferramonti (Cosenza), uno dei più grandi campi di prigionia italiani caratterizzato da baraccamenti. A differenza dei campi abruzzesi, quest’ultimo si trovava in una zona depressa e soprattutto cronicamente priva di acqua e sferzata da vento e sole, dove i Cinesi furono internati in compagnia di prigionieri di altre nazioni quali Greci e Jugoslavi. Più volte i prigionieri cinesi dei campi abruzzesi e di quello calabrese furono impiagati dai Tedeschi come mano d’opera per la fortificazione della Linea Gustav. Alcuni di loro rimasero uccisi durante le incursioni aeree alleate, mentre altri contrassero malattie a causa delle cattive condizioni sanitarie e per la fatica dei lavori forzati. In seguito all’avanzata alleata nella Penisola, i campi del centro-sud furono progressivamente chiusi. I prigionieri cinesi furono spostati quasi tutti in campi profughi in attesa della fine delle ostilità, che segnarono dall’aprile del 1945 il ritorno in Cina di ben tre quarti degli immigrati degli anni Trenta, negli ultimi anni di governo di Chiang Kai-Schek. Quei pochi che scelsero di rimanere (diversi di questi ultimi erano legati da rapporti familiari con italiane) riuscirono a ricominciare la vita prebellica grazie ad un accordo tra Roma e Pechino all’interno del percorso lungo e doloroso dei trattati di pace, al quale prese parte anche Alcide De Gasperi. L’Italia perse tutti i diritti e i possedimenti in Cina, prima tra tutti la concessione di Tientsin ottenuta dopo la partecipazione italiana alla repressione dei Boxers. Per i cinesi residenti in Italia furono invece previste riparazioni economiche che permisero a chi era rimasto di riaprire i laboratori e i magazzini dove si producevano borse e accessori in finta pelle. Nei difficilissimi anni del secondo dopoguerra, l’ostilità nei loro confronti fu quasi peggiore di quella provata durante il ventennio a causa della profonda crisi economica che mordeva tutta la Penisola e in quanto considerati privilegiati per il denaro ricevuto dallo Stato. Molti furono gli articoli di cronaca che tendevano a mettere in cattiva luce le attività dei «venditori di clavatte» in fase di ripresa. La comunità italo-cinese fu rimpolpata alla fine degli anni Quaranta e nei primi anni del decennio successivo dall’emigrazione di ritorno, quando il Paese cadde in mani comuniste dopo la rivoluzione del 1949. Tra questi vi erano anche alcune donne italiane che avevano deciso di seguire i mariti in Cina, ma che furono costrette a fuggire per le violenze ed i sequestri dell’Esercito popolare. La divisione del mondo in due grandi sfere di influenza degli anni della Guerra Fredda fece lievitare il numero dei Cinesi in fuga verso l’occidente e l’Italia fu una delle mete principali. Negli anni del «boom» economico iniziò la diversificazione delle attività economiche della comunità cinese: quello della ristorazione. A Milano il primo ristorante cinese data 1962 e a descriverlo fu una delle più importanti figure del giornalismo italiano, Dino Buzzati. Nel quartiere di Paolo Sarpi, all’epoca del suo articolo comparso sul «Corriere della Sera», risiedevano una settantina di famiglie, impegnate nelle attività commerciali di pelletteria e abbigliamento. Il locale fu inaugurato in una delle vie fulcro dell’immigrazione cinese degli anni tre le due guerre, la via Luigi Canonica. Con Buzzati e gli altri ospiti dell’inaugurazione l’ambasciatore di Formosa, la Cina nazionalista di Taiwan. Le portate furono ben undici, gustate anche dai parroci delle parrocchie della zona, riferimento della comunità cinese. Tra i piatti, quei curiosi involtini e il pollo con gli anacardi. Un must dei menù ancora oggi presente, allora una prelibatezza esotica che fece sbilanciare Buzzati in un afflato campanilistico. Milano, la capitale morale ed economica, si metteva in competizione con la città eterna, Roma, potendo vantare una chinatown come quelle delle grandi città americane, allora punto di riferimento del grande «sogno». L’autore dell’articolo è rimasto colpito dall’unica presenza femminile nel ristorante. Era la giovane Alberta Yang, di madre italiana e padre cinese, vestita negli abiti tradizionali di seta candida. I tempi della prigionia erano ormai lontani. Rimaneva l’eco di quel saluto affettuoso che, nella memoria dei più anziani prigionieri di Isola del Gran Sasso, i Cinesi avevano rivolto ai cittadini del piccolo comune abruzzese quando i Tedeschi li caricarono sui camion per scavare trincee sotto le bombe degli Alleati. «Bella Isola!», «Viva Isola del Gran Sasso!».Per un ulteriore approfondimento sulla storia degli anni di prigionia degli italo-cinesi, il testo di riferimento è «Aspettando la fine della guerra - lettere dei prigionieri cinesi dai campi di concentramento fascisti» di Daniele Brigadoi Cologna (Carocci editore).
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