2019-08-01
Stipendi a 400 euro e cassa integrazione. Per Mercatone Uno la cura non funziona
La strada degli ammortizzatori sociali per chi prende compensi da fame è un vicolo cieco. Sfuma l'accordo sui tagli all'organico.Se il vicepremier e ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, crede che lo sblocco della cassa integrazione straordinaria per i dipendenti della Mercatone Uno sia anche solo una soluzione temporanea si sbaglia di grosso. Sono i numeri a dirlo. Alessandro (nome di fantasia) lavora alla Mercatone Uno da 13 anni, nel 2016 era tra i pochi che riuscivano a portare a casa 1.200 euro netti circa al mese. Oggi, in cassa integrazione guadagni straordinaria, prende circa 800 euro netti (Cigs al 70%). È fortunato: molti suoi colleghi in media ne prendono 500. Ma c'è anche chi sta peggio con un 400 euro mensili. Le cifre arrivano da documenti di origine sindacale che La Verità ha potuto visionare. Andiamo con ordine: Mercatone Uno è passata nel maggio 2018 alla Shernon holding per volere dei tre commissari (Stefano Coen, Ermanno Sgaravato e Vincenzo Tassinari) nominati dal ministero dello Sviluppo economico nel 2015 (all'epoca gestito da Federica Guidi, anche se la decisione di trasferire l'azienda alla Shernon è stata presa da Carlo Calenda a maggio 2018, mentre il trasferimento ufficiale è avvenuto ad agosto), dopo quattro bandi di vendita andati deserti.Per i dipendenti della Mercatone Uno la notizia dell'arrivo della Shernon sembrava una manna dal cielo. Nel 2015, con un debito di 400 milioni di euro, l'azienda era già passata per la prima volta da un fallimento dopo che i precedenti proprietari, Romano Cenni (morto nel marzo 2018) e Luigi Valentini, sotto processo a Bologna, erano stati accusati di aver distratto fondi della società per dirottarli in Lussemburgo. A seguito dell'accordo con il Mise, però, la Shernon, per evitare ulteriori dolorosi tagli al personale, impone una riduzione dell'orario di lavoro (e dunque paghe più basse). Secondo i documenti in possesso della Verità, con la Shernon al comando nel 2018 c'erano 2.019 dipendenti, circa 200 già in cassa integrazione perché parte dei punti vendita chiusi al momento della cessione. Quelli non ancora in Cigs erano 1.824. A seguito degli accordi presi dalla Shernon con il Mise, su 2.019 dipendenti del gruppo, 1.817 lavoravano part time e 202 a tempo pieno. I part time erano stati suddivisi in tre categorie da 20, 24 e 28 ore settimanali, rispettivamente il 50, il 60 e il 70 per cento delle ore previste per un tempo pieno. A oggi, a lavorare 20 ore settimanali sono 400 dipendenti. Sono invece 834 quelli che ne spendono 24 in azienda, mentre sono 564 quelle che ne passano 28 la settimana.Ad aprile del 2019, arriva però la prima doccia fredda. La Shernon presenta domanda di concordato preventivo. I conti erano un colabrodo: perdite per 90 milioni in nove mesi e il mancato pagamento dei fornitori e degli oneri previdenziali per i dipendenti.A questo punto, il 27 giugno 2019, il vicepremier e il ministro del Mise, Luigi Di Maio, firma il decreto per sbloccare la cassa integrazione straordinaria. Con la riduzione delle ore lavorative voluto dalla Shernon, i calcoli della cassa integrazione prevedono cifre insostenibili: secondo i documenti visti dalla Verità, si parla di 400-450 euro per i dipendenti con la cassa integrazione al 50% (400 persone, lo ricordiamo), circa 600 per chi ce l'ha al 60% (834 dipendenti) e circa 800 per i 564 con la Cigs al 70%. Dal computo del personale restano poi esclusi altri 127 dipendenti (come ad esempio i dirigenti) per cui la cassa integrazione non è prevista. A questo punto, con un crollo da parte della Shernon così repentino (l'azienda è fallita in meno di un anno da quando il ministro Calenda decise di cederla), sono state molte le parti coinvolte a puntare il dito contro i tre commissari Coen, Sgaravato e Tassinari, esperti che a giugno hanno rassegnato le loro dimissioni in favore di tre nuovi commissari: Giuseppe Farchione, Luca Gratteri e Antonio Cattaneo.Non a caso, come confermato da diverse sigle sindacali contattate dalla Verità, la Procura sarebbe al lavoro proprio per capire se ci sono stati degli errori commessi dal consiglio di sorveglianza voluto dal Mise e composto nel 2015 da Giampietro Castano, responsabile dell'unità di gestione delle vertenze del Mise, dai tre vecchi commissari, dal legale che ha gestito il passaggio della Mercatone Uno a Shernon, Rosario Salonia, e dall'allora direttore risorse umane e sistemi informativi, Monica Checcucci. Del resto gli ingredienti per volere vederci più chiaro ci sarebbero tutti: non solo la Shernon non aveva alcuna esperienza pregressa nel campo della grande distribuzione organizzata non alimentare (l'azienda vendeva oggetti per la casa), ma il suo amministratore delegato, Valdero Rigoni, era già stato ad di una società dichiarata fallita dal tribunale di Vicenza nel 2014. In più, secondo la ricostruzione della Procura, l'amministrazione straordinaria avrebbe ricevuto 10 milioni dalla Shernon: ma questo denaro sarebbe arrivato dalla cessione da parte dell'azienda del magazzino di Mercatone Uno a una società americana (con un guadagno di 8 milioni da parte di quest'ultima) e non da fondi nella disponibilità della stessa Shernon. Insomma, il dubbio è che i commissari e il Mise abbiano scelto un imprenditore che non forniva garanzie e non aveva né la liquidità né l'esperienza per affrontare una sfida del genere.Di certo, sulla Shernon e sulla casa madre maltese Star alliance sorgono molti dubbi. Spulciando nel registro delle imprese maltesi, la figura chiave di Star alliance resta l'italiano Valdero Rigoni, in qualità di direttore, rappresentante legale e proprietario insieme al socio, Michael Charles Thalmann. Ad aprile di quest'anno, però, il controllo della Shernon è passato nelle mani dell'italiana Maiora invest, di proprietà sempre del duo Rigoni Thalmann, con sede a Padova nella residenza di quest'ultimo. La speranza era che, con una capogruppo italiana, potesse essere più facile per le banche aprire i rubinetti del credito.Purtroppo la storia della Mercatone Uno continua a lasciare l'amaro in bocca. Ieri, durante l'incontro al Mise tra Di Maio, le sigle sindacali e gli amministratori straordinari, non si è trovato l'accordo per avviare la procedura di riduzione dell'organico che avrebbe permesso a chi voleva staccarsi dall'azienda di trovare un altro lavoro. «Ugl non ha firmato il verbale per la procedura perché non si è trovato un accordo tra le parti», spiega Giorgia Costantino, segretario provinciale Ugl terziario Parma e addetta ufficio consegne e post-vendita alla Mercatone Uno. Durante l'incontro di ieri è emersa però una data importante: entro il 31 ottobre si dovranno valutare le offerte pervenute e capire quali saranno le prospettive per il futuro della Mercatone Uno.
Julio Velasco e Alessia Orro (Ansa)
Rod Dreher (Getty Images)