2021-10-15
Il pass fa bene solo agli stranieri
I camionisti di ditte estere possono circolare senza il lasciapassare, i dipendenti di quelle italiane no. È l'ultima contraddizione di un provvedimento che rischia di causare danni seri all'economia e gravi disagi alle famiglie, senza produrre alcun beneficio Mario Draghi è un uomo che in questi sei mesi di governo ha dimostrato di avere una qualità che manca a tanti politici: ascolta tutti, ma poi decide da sé, senza farsi condizionare. Lo si è visto in più occasioni: per giorni ha lasciato che i partiti che lo sostengono si scannassero, dividendosi e insultandosi. Ma poi, a prescindere dalle beghe sul decreto Zan o sulla patrimoniale, ha fatto ciò che aveva in testa. La capacità di decidere in un Paese in cui la politica è indecisa a tutto è certo un pregio. E dopo aver avuto un premier tentenna, che varava riforme con inclusa la formula «salvo intese», che era un po' come decidere ma anche no, non possiamo che apprezzare.Tuttavia, pur riconoscendo al presidente del Consiglio il talento di non essere solo un mediatore ma anche un «decisore», ci permettiamo di invitarlo a una riflessione sul green pass, affinché si renda conto di aver imboccato una via che può portare solo guai per l'Italia. Premessa, qui non sono in discussione i vaccini e il contributo fondamentale che hanno dato al contenimento della pandemia, facendoci intravedere dopo un anno e mezzo l'uscita dal tunnel. Qui discutiamo dell'applicazione pratica di una misura che era stata presentata come un modo gentile per accompagnare le persone verso i centri vaccinali. Come hanno spiegato meglio di me una serie di esperti, a cominciare da Andrea Crisanti, il certificato verde non è un attestato di immunità al Covid, ma un passaporto che consente minori controlli e obblighi nella vita di tutti i giorni. Con il lasciapassare abbiamo potuto tornare a frequentare bar e ristoranti e anche a viaggiare. Tutto ciò ha sicuramente contribuito a indurre le persone a sottoporsi all'iniezione e non è certo nostra intenzione discuterne. Grazie al lavoro svolto dal generale Francesco Paolo Figliuolo e a una macchina sanitaria d'eccezione coadiuvata da un esercito di volontari, abbiamo raggiunto percentuali di vaccinazione che solo sei mesi fa, quando il commissariato anti Covid era affidato alle mani di Domenico Arcuri, erano inimmaginabili. Oggi l'80% degli italiani con piu di 12 anni ha ricevuto prima e seconda dose e se si sale nella fascia di popolazione ritenuta a rischio, si arriva anche al 90% e oltre. Quindi, siamo avanti rispetto a quasi tutti i grandi Paesi europei e ci collochiamo tra i primi dieci nel mondo ad aver raggiunto tali livelli. Aggiungo che le terapie intensive non sono vuote, ma quasi e che le corsie degli ospedali non sono certo intasate di pazienti Covid. Dunque, perché imporre una misura come il green pass obbligatorio per poter lavorare anche se si sta all'aria aperta, se si svolge un impiego da casa o se non si hanno contatti con il pubblico? Perché se un dipendente è in smart working, cioè nel salotto del proprio appartamento, l'azienda deve verificare che sia vaccinato? Chi potrà mai contagiare? Il divano? E come mai si scarica sul datore di lavoro l'obbligo di verificare che la colf abbia il certificato green e, nel caso che così non fosse, si costringe la famiglia a sospenderla, ma a mantenerla in casa qualora nel suo contratto siano previsti vitto e alloggio? È evidente che non ci sono ragioni di emergenza ma, da modo gentile per convincere gli italiani a vaccinarsi, il certificato verde si è trasformato in un modo assai poco gentile per costringerli a farlo. Tutto ciò però non ha prodotto la corsa al siero, come probabilmente a Palazzo Chigi prevedevano, bensì ha portato all'esatto opposto, cioè a un irrigidimento delle posizioni. In tutti i Paesi occidentali c'è una quota di popolazione che non vuole vaccinarsi. Ma in nessun Paese sta accadendo ciò che sta succedendo da noi.Risultato: abbiamo aziende che rischiano di rimanere bloccate, vuoi perché costrette a sospendere del personale qualificato e indispensabile, vuoi perché c'è il pericolo di uno sciopero a oltranza. Abbiamo visto che cosa sta succedendo nel porto di Trieste, che per protesta potrebbe essere bloccato, paralizzando uno dei punti d'approdo più importanti d'Italia, dove arrivano merci indispensabili per il Nord Italia e per alcuni Paesi confinanti. A fermarsi potrebbero essere pure i trasporti, perché gran parte dei camionisti, per ragioni che qui non vogliamo indagare, non hanno il green pass. Secondo le associazioni di categoria, almeno 80.000 sono in queste condizioni. Per di più gli autisti di Tir lamentano la disparità di trattamento con i colleghi stranieri, che potranno entrare e lavorare in Italia anche senza certificato, con il solo tartufesco divieto di scaricare all'interno dell'azienda le merci. Le incongruenze sono tante, a cominciare da uno Stato che impone la sospensione del lavoratore senza lasciapassare e rifiuta di pagare i tamponi, ma allo stesso tempo una sua azienda è pronta a fare il contrario. Insomma, bastano questi pochi accenni per capire che il braccio di ferro non conviene a nessuno, perché non siamo di fronte alla protesta di qualche migliaio di contestatori di professione, ma a quella di qualche milione di persone e il danno per il Paese potrebbe essere forte. È per tali motivi che occorre ripensarci. È vero, Draghi è un uomo deciso, pronto a tirar dritto per la strada senza curarsi delle proteste. Ma qualche volte anche il miglior decisionista può fermarsi e fare un passo indietro. Non sarebbe un segno di debolezza, ma di intelligenza. Non sarebbe neppure un retrocedere della campagna vaccinale, ma solo un modo per trovare un'altra via per indurre i renitenti al siero a ripensarci. A volte basta poco: magari anche solo un rinvio. Un segnale per dire che una via di mezzo si può trovare.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
Continua a leggere
Riduci