2020-04-27
Gli Usa di Trump i più colpiti dal coronavirus. E in Florida alcuni italiani puntano il dito contro la Disney
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Il Covid 19 sta colpendo in modo particolarmente duro gli Stati Uniti. L'area maggiormente martoriata continua a rivelarsi lo Stato di New York, ma situazioni particolarmente complesse si registrano anche in Michigan, New Jersey e California. Cinque luoghi da visitare virtualmente per scoprire la natura statunitense. Dall'Oregon alle Hawaii, alcuni dei luoghi più belli degli Usa da vedere dal divano di casa.L'odissea dei lavoratori italiani a Walt Disney World impossibilitati a tornare a casa era davvero tale? Alcuni dei loro colleghi ci raccontano che non è andata proprio così è che l'azienda di Topolino ha tutelato i suoi dipendenti fino all'ultimo minuto. Lo speciale contiene tre articoli, video e gallery fotografiche.Il coronavirus sta colpendo in modo particolarmente duro gli Stati Uniti. Secondo la Johns Hopkins University, il Paese è ormai da tempo al primo posto per numero di contagi, con quasi un milione di casi e oltre 54.000 decessi. L'area maggiormente martoriata continua a rivelarsi lo Stato di New York, ma situazioni particolarmente complesse si registrano anche in Michigan, New Jersey e California. Il problema non è poi soltanto sanitario. La pandemia in corso sta infatti determinando degli effetti disastrosi anche dal punto di vista economico. Pochi giorni fa, Reuters ha riportato che, dalla metà di marzo ad oggi, oltre 26 milioni di lavoratori americani abbiano fatto richiesta di sussidi per la disoccupazione. Questa crisi è quindi inevitabilmente entrata a gamba tesa nell'agone politico statunitense. Se – soprattutto a cavallo tra febbraio e marzo – aveva effettivamente minimizzato la situazione, con il passare del tempo Donald Trump ha scelto di imboccare una strada decisamente keynesiana, nel tentativo di contrastare gli effetti economici recessivi del morbo. Ricordiamo che, finora, il Congresso – su forte input della Casa Bianca – abbia approvato con maggioranze bipartisan quattro pacchetti di aiuti, per un totale di quasi 3.000 miliardi di dollari. Una cifra senza precedenti nella storia americana: basti ricordare che, per salvare le banche dal fallimento ai tempi di George W. Bush nel 2008, furono usati 700 miliardi, mentre – sotto Barack Obama nel 2009 – le erogazioni pubbliche per arginare la Grande Recessione superarono di poco gli 800 miliardi. In questo senso, tali stanziamenti non soltanto certificano la linea keynesiana del presidente americano ma, nei fatti, anche una sorta di convergenza politica tra repubblicani e democratici nel tentativo di fronteggiare l'attuale crisi economica. Nonostante Trump venga sovente definito come un presidente “divisivo", in realtà asinello ed elefantino – pur trattando in modo serrato – hanno strettamente collaborato per approvare questi ingenti pacchetti di aiuti, anche grazie alla regìa della stessa Casa Bianca. Inoltre, al di là della collaborazione con il Congresso, Trump si è mosso anche autonomamente: invocando una legge di guerra come il Defense Production Act, ha infatti potenziato la produzione di materiale sanitario (dalle mascherine ai respiratori).Negli scorsi giorni, si sono riscontrate poi delle tensioni tra il presidente e alcuni governatori sulla questione della riapertura delle attività economiche. È noto che la Casa Bianca vorrebbe spingere per accelerare i tempi e non ha mai nascosto di auspicare una ripresa già per il mese di maggio. Una linea che svariati Stati considerano invece troppo avventata. Ne è sorto uno scontro istituzionale tra governo federale e singoli Stati su chi avesse l'autorità di decidere il da farsi: scontro tuttavia fondamentalmente placatosi con una sorta di compromesso. Trump ha infatti stabilito che Washington fornirà delle linee guida generali con una serie di fasi per la riapertura, ma che – nel concreto – dovranno essere i singoli governatori a decidere caso per caso, in base alla situazione sul proprio territorio. In tutto questo, c'è anche da sottolineare che, nonostante voglia accelerare i tempi, non si debba ritenere che il presidente stia auspicando una riapertura scriteriata. Prova ne è il fatto che, qualche giorno fa, Trump ha espresso disaccordo con il governatore repubblicano della Georgia, Brian Kemp, che ha già avviato le operazioni per la ripartenza economica.Uno degli aspetti che probabilmente sarà destinato a rivestire una fondamentale importanza sul fronte della campagna elettorale per le presidenziali di novembre è costituito dall'accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina. Lo scorso gennaio, le due nazioni siglarono infatti un'intesa parziale che avrebbe dovuto preludere a un progressivo allentamento della guerra dei dazi. La situazione oggi è tuttavia drasticamente mutata, in particolare a causa delle tensioni geopolitiche che si registrano tra Washington e Pechino sulle responsabilità della pandemia. Per Trump si tratta di un nodo fondamentale. Da una parte, il presidente americano ha sempre puntato a utilizzare l'accordo commerciale con la Cina come un successo della propria presidenza: un successo, ovviamente, da rivendersi in campagna elettorale. Dall'altra, Trump deve tuttavia tener conto di due fattori: la crescente influenza dei falchi anticinesi nel Partito Repubblicano e – forse soprattutto – l'aumento di un sentimento avverso a Pechino da parte dell'elettorato americano. Secondo un recente sondaggio del Pew Research Center, circa il 62% degli statunitensi nutre oggi ostilità nei confronti della Repubblica Popolare. Un dato che il presidente non può certo ignorare in vista delle elezioni novembrine. Trump, che per il momento sulla questione ha preferito barcamenarsi tra posizioni divergenti, dovrà quindi presto scegliere quale linea seguire: o la via tradizionale che pone l'enfasi sui successi commerciali oppure l'approccio battagliero nei confronti della Cina, sottolineando magari i collegamenti politici tra Pechino e il suo probabile avversario democratico di novembre, Joe Biden.E proprio Biden sta ovviamente cercando di approfittarne. L'ex vicepresidente sta infatti accusando Trump di essere stato troppo morbido con la Cina, soprattutto tra febbraio e marzo. Un'argomentazione che, se in parte ha una propria fondatezza, dall'altra può rivelarsi un'arma a doppio taglio, visto che – come accennato – l'ex vicepresidente ha una storia di profonda convergenza con la Repubblica Popolare. Al momento, le stesse rilevazioni sondaggistiche sembrano caratterizzate da una certa volatilità. Se tra marzo e aprile Trump riscuoteva forte apprezzamento per la propria gestione della crisi pandemica, negli ultimi dieci giorni la situazione per lui è peggiorata. Pur non essendosi registrato un crollo, il presidente sta comunque riscontrando una certa fatica e dovrà riuscire a ribaltare presto la situazione, se vuole riconquistare la Casa Bianca a novembre. E' esattamente in questo senso che è per lui impellente scegliere velocemente quale strategia adottare in campagna elettorale, onde evitare di perire in mezzo al guado. Sul fronte opposto, Biden non può comunque dormire sonni troppo tranquilli. E' vero che svariate rilevazioni lo danno attualmente in vantaggio in alcuni Stati chiave. Va tuttavia sottolineato che siamo ancora ad aprile. E, soprattutto, che anche l'ex vicepresidente non abbia ancora una linea così chiara dal punto di vista della strategia elettorale. I suoi consiglieri sono infatti spaccati su questo fronte, tra chi lo vorrebbe spingere a una maggiore incisività e chi auspica mantenga invece il suo attuale basso profilo. Ora, se è vero che il basso profilo lo rende meno esposto, è altrettanto vero che questo approccio ha gettato da oltre un mese Biden in un cono d'ombra: una situazione che, a circa sei mesi dalle elezioni, potrebbe rivelarsi problematica.Stefano Graziosi