2022-11-25
La stampa ruffiana si è risvegliata oppressa
Prima il vittimismo di Roberto Saviano per le querele, poi le prediche a Giorgia Meloni che polemizza coi reporter: i giornali progressisti strillano che con la destra manca libertà. Piccolo dettaglio, sono gli stessi che a Mario Draghi rivolgevano complimenti anziché quesiti.Sembra proprio che, all’improvviso, in Italia ci siano gravissimi problemi con la libertà di stampa. Giornalisti intimiditi, quotidiani minacciati, opinioni che non si possono esprimere, mordacchia generalizzata. Insomma, con la destra al governo è tornato il regime, è ricomparsa la censura di stampo fascista, si riaffacciano le temibili purghe. Secondo Roberto Saviano, l’attuale esecutivo ha i tratti sudamericani della democratura, cioè di un sistema che formalmente rimane democratico ma nei fatti è dittatoriale. L’autore di Gomorra dice di sentirsi in pericolo, poiché è stato «portato a processo da tre ministri di questo governo», che sarebbero poi Gennaro Sangiuliano, Matteo Salvini e Giorgia Meloni in persona. Saviano sostiene che l’odio nei suoi confronti sia tale da non consentirgli di esporsi pubblicamente, e per questo ha cancellato due eventi programmati a Reggio Emilia. Lo scrittore accusa «i giornali di estrema destra, in alcuni casi pagati direttamente da esponenti della maggioranza».A nulla serve ricordare che, se uno finisce a processo, è perché ce l’ha mandato un giudice, e non un ministro: dunque si tratta di un procedimento giudiziario tipico di una democrazia liberale, e non di un processo politico da regime. Nel caso specifico di Saviano, per altro, parliamo di cause molto simili a quelle che tanti altri giornalisti devono affrontare. Anzi, spesso i cronisti vengono accusati di diffamazione anche se scrivono frasi molto più tenere di quelle utilizzate dal caro Roberto, che definì Salvini e la Meloni «bastardi», e attribuì loro una responsabilità morale e politica per le morti di migranti nel Mediterraneo. Tutte precisazioni inutili: Saviano si sente una vittima, un intellettuale scomodo minacciato dal potere, e obiettare non si può. Bisogna solo dargli ragione e mostrargli solidarietà.Egli, in ogni caso, non è l’unico a ritenere che la democrazia sia a rischio. A molti giornalisti e intellettuali di specchiata fede progressista, ad esempio, non è piaciuto il modo in cui Giorgia Meloni ha condotto una conferenza stampa di presentazione della manovra. Al presidente del Consiglio, in effetti, l’altro giorno è scappata qualche frasettina pungente a proposito dell’atteggiamento tenuto dai cronisti nei suoi confronti. E i «grandi giornali» non gliel’hanno perdonata. La Stampa, con Ilario Lombardo, ha scritto che la Meloni «limita lo spazio del confronto con i cronisti». Il direttore Massimo Giannini ha rincarato la dose, premurandosi di dare lezioni di schienadrittismo via Twitter: «Cara presidente Meloni», ha scritto, «i giornalisti stanno al mondo per fare domande, i politici hanno il dovere di dare risposte». Repubblica polemicamente si è chiesta se la Meloni non abbia «un problema con le domande», Domani ha indirettamente risposto sostenendo che la leader di FdI «ha un problema con la stampa». Per farla breve, a leggere i quotidiani degli ultimi giorni sembra proprio che in Italia ci sia stata una stretta liberticida.Sia chiaro: non proviamo alcun piacere quando qualcuno viene querelato, che si tratti di Roberto Saviano o di altri. Riteniamo che Giorgia Meloni avrebbe fatto meglio a risparmiarsi le bacchettate in conferenza stampa, se non altro perché chi riveste un ruolo di tale rilievo deve tenere a bada le emozioni. E pensiamo pure che Matteo Salvini potrebbe evitare le punzecchiature via social ai critici della carta stampata. In una democrazia sana, chi riveste incarichi di governo dovrebbe rispondere a critiche e accuse con i fatti, evitando il più possibile i tribunali, anche quando ha totalmente ragione: questione di stile.Ribadito che difendere il governo (su cui ci teniamo le nostre riserve) non ci interessa affatto, ci permettiamo giusto un paio di appunti, perché l’ipocrisia ci dà un filo fastidio. Se le Meloni e altri dovrebbero evitare le reprimende, è pur vero che alcuni colleghi farebbero miglior figura a evitare le tirate sulla dignità del giornalismo. Non ci siamo dimenticati il clima grottesco che esalava dalle conferenze stampa di Mario Draghi. Abbiamo visto giornalisti che, dopo aver evitato accuratamente ogni domanda, si congratulavano con l’allora premier, gli facevano i complimenti, addirittura bacchettavano i colleghi che osavano fare il proprio mestiere (ne sa qualcosa Alberto Ciapparoni, che un giorno s’azzardò a porre un quesito non stupido sulla gestione del Covid e fu guardato male da una sala intera).Ora, con il governo dei perfidi destrorsi, fan tutti i fenomeni. Ma fino a qualche mese fa i poderosi giornalisti italici s’affannavano a prostrarsi al piedi del Duca Conte Draghi: «Come è bravo sire, è proprio un bel presidente!». Lo spettacolo offerto è stato raccapricciante, roba che nemmeno ai tempi dell’Urss, dove almeno la servitù era per lo più imposta e non volontaria.E la sottomissione felice è stata persino la parte meno umiliante dell’atroce sceneggiata che abbiamo sopportato per oltre due anni. Oggi il Saviano frignante si lamenta della fine della libertà di stampa nei talk show di prima serata e sulle prime pagine dei quotidiani. Ai suoi lamenti tutti offrono un megafono. Contro la Meloni si levano i cori internettiani e si pubblicano editoriali furenti.Eppure gli stessi giornali che oggi gonfiano il petto, solo pochi mesi fa pubblicavano con enorme risalto liste di proscrizione contenenti i nomi di presunti putiniani da additare al pubblico ludibrio. Ricordate? Hanno stampato nomi e cognomi di registi, giornalisti, e scrittori colpevoli di avere una opinione diversa da quella predominante. Persone che non avevano commesso alcun crimine, se non quello di mostrare un pensiero divergente. Saviano ora sbraita d’essere oppresso dal potere: e quella contro i presunti putiniani che cos’era, allora? E certo a Giorgio Bianchi e tutti gli altri finiti all’indice non furono concesse paginate di interviste, o mezzore di comizio televisivo. Sapete com’è, loro non avevano la visibilità, la gloria e i denari del Roberto nazionale. Loro non stavano «dalla parte giusta».Vogliamo parlare poi del trattamento riservato agli altri nemici del popolo, ovvero i cosiddetti no vax? Quando filosofi famosi nel mondo come Giorgio Agamben venivano accusati di essere dei vecchi rincoglioniti dov’erano i difensori della libertà di pensiero? Quando nei talk show si inveiva contro le voci dissenzienti, dov’erano i teorici del giornalismo indipendente? Ve lo diciamo noi dov’erano: in prima fila a insultare, a censurare, a berciare. Invocavano il bavaglio, godevano a lustrare le calzature di Roberto Speranza, si prestavano a interviste imbarazzanti.Ce li ricordiamo eccome, questi eroi della scrittura, tutti pronti a bersi le uscite di Draghi tipo «non ti vaccini, ti ammali, muori». Quali domande hanno posto, all’epoca? Quale coraggio hanno mostrato, e quale apertura mentale? Oh, ce lo ricordiamo eccome quant’era libera la stampa prima dell’avvento della destra. Era liberissima di inginocchiarsi al cospetto del padrone.
(Guardia di Finanza)
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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