
Una donna di Trieste, affetta da sclerosi multipla, morta per suicidio assistito con il sostegno del Servizio sanitario nazionale. Non era mai successo prima. Per Marco Cappato non è abbastanza: «Non deve più essere consentito di far attendere quasi un anno». Il nome è di fantasia. La sua storia, invece, no. E simboleggia l’avanguardia giuridica sul fine vita. «Anna», triestina cinquantacinquenne, è la prima persona italiana morta per suicidio assistito con il sostegno del Servizio sanitario nazionale. Scomparsa il 28 novembre scorso, a casa sua, dopo l’autosomministrazione di un farmaco. Aveva una sclerosi multipla, definita «secondariamente progressiva». L’associazione Luca Coscioni, con toni enfatici, sottolinea lo storico traguardo: «Aver completato la procedura prevista dalla Consulta con la cosiddetta sentenza Cappato\Dj Fabo che prevede, appunto, l’assistenza diretta del Ssn».Eutanasia di Stato. È il Tribunale di Trieste a dare l’ultimo parere. Il farmaco letale e la strumentazione vengono forniti, questa volta, dal Sistema sanitario nazionale. Come da inderogabile decreto. Con un medico volontario che aiuta la donna, seguendo le indicazioni di questa ordinanza cautelare datata 4 luglio 2023. «Quindi senza intervenire direttamente nella somministrazione del farmaco, azione che è rimasta di esclusiva spettanza di Anna» spiega l’associazione Coscioni. Decisione storica. Anche perché segue il diniego ricevuto in Lazio da Sibilla Barbieri, «pure lei dipendente da trattamenti vitali ma costretta a morire in Svizzera». Com’è successo nel febbraio 2017 a Dj Fabo, cieco e tetraplegico. Accompagnato in una clinica elvetica proprio da Marco Cappato, tesoriere proprio dell’associazione Coscioni, che poi porterà il caso nelle aule giudiziarie fino alla Cassazione. O com’è successo ad Alessandra Giordano, nel marzo 2019. Una storia che diventa un’inchiesta clamorosa, svelata in esclusiva da Panorama e La Verità. Dopo essere stato assolto in primo grado, Emilio Coveri, presidente di Exit Italia, altra associazione che promuove l’eutanasia, lo scorso giugno viene condannato in appello a tre anni e quattro mesi per l’istigazione al suicidio dell’insegnante siciliana. La quarantasettenne non era però una malata terminale. Soffriva di una nevralgia curabile: la sindrome di Eagle. Ma soprattutto era depressa, avviluppata in una nube che le offuscava l’esistenza. Ma c’è tribunale e tribunale. Nelle aule giudiziarie etnee, un anno fa, il pm Angelo Brugaletta attacca: «Se riteniamo il suicidio come unico rimedio ai propri mali, che tipo di società siamo? Siamo una società più evoluta o una società più meschina? Incitiamo alla vita o alla morte?». I giudici catanesi, alla fine, concordano. Alessandra non doveva morire. Qualche mese dopo, a Trieste, altri togati decidono invece per il suicidio assistito di Stato. Obbligano la sanità pubblica a dare tutta l’assistenza necessaria. Certo, la malattia della donna triestina non era certamente grave come quella dell’insegnante siciliana. Ma la domanda del magistrato catanese, riecheggiata in aula lo scorso giugno, sembra valere comunque: «Incitiamo alla vita o alla morte?».Stavolta, invece, la giustizia decide di oltrepassare un’altra linea etica. Tanto da venir applaudita dai vessilliferi dell’eutanasia. Conquista storica, tripudiano: «Per la prima volta in Italia una persona ha avuto accesso alla morte volontaria interamente nell’ambito del Servizio sanitario pubblico, dopo l’ordine di un giudice», esulta Filomena Gallo, segretaria dell’associazione Coscioni. Che riassume la pervicacia sua e dei colleghi. Anna, a novembre 2022, si rivolge all’Azienda sanitaria giuliano isontina (Asugi). E visto il diniego, per ottenere il sostegno del Ssn, «si rivolge alla giustizia civile e penale». La cinquantacinquenne presenta dunque un esposto ai carabinieri. Per poi «partecipare alla prima udienza civile in tribunale». E, alla fine, arriva l’ordinanza. L’Asugi deve applicare la decisione del giudice. «Si è fatta carico dell’intero percorso», insomma: farmaco, strumentazione e personale sanitario. Sempre con la supervisione dell’associazione pro eutanasia: «Abbiamo vigilato sull’intera procedura, a volte sollecitando alcuni passaggi» ammette Gallo.Così, l’indomito Cappato adesso rilancia: bisogna sveltire le procedure. «Non deve più essere consentito di far attendere quasi un anno, con il rischio di perdere le ultime forze per l’auto somministrazione del farmaco letale». Il tesoriere dell’associazione Coscioni, reduce da sonora sconfitta alle suppletive di Monza per il seggio senatoriale che fu di Silvio Berlusconi, annuncia quindi la campagna «Liberi subito». Le regioni si adoperino immediatamente per introdurre tempi e procedure certi nel suicidio assistito.Intanto, a supporto della storica battaglia, ancora l’associazione Coscioni diffonde l’ultimo messaggio della triestina morta lo scorso 28 novembre: «Anna è il nome che avevo scelto. E per il rispetto della privacy della mia famiglia, resterò Anna». La donna racconta: «Ho deciso di porre fine alle sofferenze che provo perché oramai sono davvero intollerabili». Ringrazia: «Chi mi ha aiutata a fare rispettare la mia volontà e la mia famiglia». E conclude: «Io oggi sono libera, sarebbe stata una vera tortura non avere la libertà di poter scegliere».Antonio Suetta, vescovo di Ventimiglia, da sempre in prima linea sul fine vita, si incarica del commiato più difficile: «Rispetto e umana pietà per Anna, ma siamo davanti a una scelta certamente non libera ma condizionata da una drammatica situazione». Il problema, ammette, «sta nella cultura di chi porta avanti questo genere di discorsi e nella legislazione dello stato». A Suetta non resta che inneggiare alla vita: «È un bene indisponibile. Come tale, non dev’essere mai violato». Tribunali permettendo.
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