Ecco gli atti dell’inchiesta sulla prof che filmò l’incontro a Fiano Romano. Smentiti i sospetti sui rapporti tra la donna e gli apparati di intelligence. Clicca qui per vedere la gallery esclusiva.C’è chi in queste ore sta cercando di far credere che dietro al famoso video dell’incontro all’autogrill tra Matteo Renzi e l’ex agente dei servizi segreti Marco Mancini ci sia un complotto. Le carte dell’inchiesta aperta dalla Procura di Roma sulla questione in queste ore passano in modo un po’ carbonaro di mano in mano, soprattutto in alcuni selezionati salotti, ma la storia della congiura non regge. Fa acqua da tutte le parti. Anche se qualcuno potrebbe abboccare.La documentazione visionata dalla Verità non consente fraintendimenti: la professoressa che il 23 dicembre 2020 si trovava alla stazione di servizio Feronia di Fiano Romano e ha ripreso la scena dell’incontro (due video di 24 e 29 secondi e 13 foto) tra Renzi e Mancini quel giorno genera traffico telefonico solo con utenze riconducibili a famigliari e amici (i due genitori, il marito e una collega) e con alcuni call center come hanno confermato i tabulati richiesti dalla Procura capitolina, che, sollecitata dall’ex premier, non sembra proprio aver fatto sconti alla signora e ai giornalisti che si sono trovati le proprie fonti spiattellate su piazza. La donna, l’antivigilia di due anni fa, si sposta dall’Alto Lazio per raggiungere Roma, dove risiede il padre affetto da grave una malattia cronica. L’anziano si era sentito poco bene e la figlia, come confermato dalle celle telefoniche, andò a prelevare lui e la madre nella Capitale per condurli per le festività natalizie nella propria città.I controlli fatti dalla polizia sembrano proprio confermare che non ci troviamo di fronte a una Mata Hari manovrata da chissà chi, ma a una docente che ha ritenuto di diventare una fonte giornalistica dopo aver osservato quello strano incontro in piena crisi di governo.OFFERTE A VUOTOIl 24 dicembre la professoressa ha inviato due messaggi vocali e alcuni messaggi di testo con allegate le foto sul profilo di Messenger del titolare di un blog della sua città, nel Nord del Lazio, senza alcun esito, visto che il blogger «la informava che non ne avrebbe fatto uso, ma le avrebbe conservate in archivio non essendo in grado di riconoscere chi fosse l’interlocutore di Renzi». Forse perché il direttore editoriale del blog che si presenta come «giornale indipendente online» si occupa solo di cronaca locale. I messaggi vocali agli atti confermerebbero il genuino entusiasmo della donna, colpita dal singolare rendez-vous.La docente non soddisfatta è tornata alla carica il 31 dicembre, il giorno di San Silvestro, quando anche i giornalisti sono impegnati nei preparativi del cenone, questa volta con il Fatto quotidiano: «Carissimi sono una vostra lettrice ancora legata al cartaceo però […] vi vorrei inviare delle foto che ho fatto il giorno 23 dicembre intorno alle ore 15:30/16 mentre per una sosta caffè mi trovavo all’area di servizio A1 di Fiano Romano… un personaggio è noto a tutti l’altro purtroppo io lo disconosco… non so se possano interessarvi o se possano significare qualcosa… non ho potuto ascoltare che cosa si dicessero, ma si sono trattenuti per una mezz’ora abbondante… un caro saluto e buon anno». Ma al Fatto la mail è sfuggita e nessuno ha risposto.A questo punto ogni persona di buon senso non può che porsi un quesito: ma se dietro a quelle foto e a quei filmati c’era un complotto oscuro di apparati deviati o comunque ostili a Renzi e Mancini come è possibile che questa Spectre non sia riuscita a trovare qualcuno disposto a pubblicare la notizia bomba nelle ore in cui erano in corso le ultime disperate trattative per non far cadere l’esecutivo. Insomma i complottardi non devono essere stati di gran livello. Oppure, come crediamo noi, non esistevano.La verità è che in quella fase concitata a Palazzo Chigi qualcuno aveva scommesso sulle doti di negoziatore di Mancini, all’epoca dirigente del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza) e ascoltato consigliere del direttore Gennaro Vecchione. Al punto che secondo alcuni addetti ai lavori Mancini quel giorno si sarebbe recato a Fiano Romano non per consegnare dei «babbi di cioccolato» a Renzi, ma in veste di ambasciatore di Conte & C. incaricato di trovare una quadra sul governo in caduta libera. Una mission impossible da cui Mancini sarebbe potuto uscire con le mostrine da vicedirettore. Ma il piano fallì, sebbene sia rimasta testimonianza del conciliabolo all’autogrill grazie al senso civico di una professoressa che riteneva di essere testimone di qualcosa di losco.ARRIVA «REPORT»Ma dopo aver tentato inutilmente di piazzare il materiale, la donna lo dimentica nel suo computer per quasi quattro mesi, sino al 12 aprile successivo. Quel giorno Report trasmette un’inchiesta intitolata «Lo sterco del diavolo». «Nel corso della puntata ho visto un servizio dedicato alla figura di tale Gianmario Ferramonti, in cui si ipotizzava che lo stesso avesse mandato dei messaggi all’onorevole Maria Elena Boschi, figura di punta del partito di Matteo Renzi per promuovere una sorta di complotto, almeno così mi era sembrato di capire dal tenore del servizio per favorire la caduta del governo Conte bis» ha spiegato la professoressa a verbale l’8 novembre scorso. Dopo aver visto la trasmissione ha subito pensato che «le foto relative a quell’incontro tanto singolare nell’autogrill di Fiano Romano potessero risultare interessanti per la redazione». E per questo ha scritto due messaggi all’indirizzo pubblicato sulla pagina Facebook del programma, uno delle 13 e 28 e uno delle 13 e 37. Nel primo ricorda di essersi fermata nell’area di servizio di Fiano Romano per una «sosta tecnica» del padre: «Mentre attendevo con mia madre in macchina arriva un’Audi con vetri oscurati che si avvicina a una Giulietta già precedentemente parcheggiata. Dall’Audi scende Renzi che saluta affettuosamente il signore nelle foto e si dirigono in disparte a parlare. Sono stati circa venti minuti a parlare dopo di che la Giulietta ha ripreso il viaggio per Roma e l’Audi ha imboccato a tutta velocità l’autostrada in direzione Firenze». La docente, con grande onestà, rivela di aver inviato lo stesso materiale «ad altre redazioni, che non mi hanno risposto». Poi chiosa: «Dopo pochi giorni dall’incontro di Renzi con questo tipo è caduto il governo… io non credo sia una coincidenza… con affetto una vostra spettatrice e ammiratrice per il lavoro che svolgete». Alle 14 e 46, dopo poco più di un’ora, si fa vivo il conduttore in persona: «Gentile V., sono Sigfrido Ranucci, potrei avere un suo contatto».L’EX SISDEL’indagata inizia ad avere rapporti telefonici sia con Ranucci che con l’inviato Giorgio Mottola, il quale il 27 aprile la raggiunge a casa per preparare l’intervista.Il 28 aprile il giornalista contatta un altro ospite che, seppur oscurato in volto, andrà in onda nella stessa puntata di Report del 3 maggio, intitolata «Babbi e spie». ovvero il settantenne ex dirigente dei servizi segreti Carlo Parolisi. L’uomo, pluridecorato e con una grande carriera alle spalle, è spesso ospitato in tv e sui giornali come esperto di geopolitica e situazioni di crisi. Nel sito dell’azienda di investigazioni di cui è senior advisor è così descritto: «Già funzionario di Polizia (sezioni antiterrorismo delle Digos di Genova e Roma), transita al Sisde (Nucleo intelligence dell’Alto commissario antimafia).Allo scioglimento della struttura, permane al Sisde con incarichi dirigenziali in centri operativi, per poi transitare al Sismi (successivamente Aise) con incarichi operativi in Italia e all’estero. Posto in quiescenza, riveste per due anni l’incarico di Chief security officer presso Finmeccanica Uk. Docente in materia d’intelligence presso l’università Sapienza e la Lumsa di Roma e presso Scuola superiore Sant’Anna di Pisa».È lui che nella trasmissione del 3 maggio dice la sua su Mancini e lo riconosce ufficialmente da video e foto: «Direi proprio che è lui». E aggiunge: «Può ingenerare un sospetto un incontro di questo genere». Si capisce che Parolisi non deve avere in grande simpatia l’ex collega. Per esempio ha ricordato quando «spalleggiava» l’ex capo della security Telecom-Pirelli Giuliano Tavaroli, il quale, nel 2010, ha patteggiato 4 anni e 6 mesi per i dossier illegali sfornati dal suo team. Mancini per quella vicenda è stato indagato e poi prosciolto, mentre per il sequestro dell’imam Abu Omar è stato arrestato, condannato in primo grado a 9 anni e poi assolto grazie all’opposizione per due volte del segreto di Stato. Parolisi a proposito di Mancini ha ricordato che dopo le inchieste giudiziarie è salito di grado: «Già aveva un alto livello dirigenziale, è stato promosso a un livello equivalente a dirigente generale». E a chi gli chiede dei rapporti di Mancini con il Palazzo e delle sue «grosse ambizioni di carriera» replica: «È fatto noto che frequenta molti politici dei più diversi schieramenti. Si è parlato di lui come vicedirettore dell’Aise e queste sembravano essere le sue aspirazioni. E poi a un certo punto sembrava di capire che ci potesse essere per lui una promozione a vicedirettore del Dis».CONTATTILa Digos di Roma sottolinea che Parolisi è un pensionato, senza pregiudizi di polizia, che ha indagato sul sequestro dell’onorevole Aldo Moro e che la moglie negli anni ‘80 era stata a sua volta una professoressa. Dai tabulati risulta che tra il 27 e il 29 aprile Mottola e Parolisi si sentano più volte. E su questo punto ci preme sottolineare come nessun giornalista investigativo chiamerebbe una fonte riservata con la normale linea telefonica. Ormai, magistrati, politici, investigatori e giornalisti per le conversazioni più delicate utilizzano chat criptate come Whatsapp o Signal. Anche Renzi e i renziani.Il 27 aprile Mottola e Parolisi sono entrambi in Toscana, il 28 l’ex agente è a Roma e il giornalista a Milano, il 29 Mottola è nella Capitale e Parolisi di nuovo in Toscana. I due si sentono anche il 25 maggio e l’8 giugno, quando il leader di Italia viva ha già sporto denuncia. Ma il 23 dicembre e nei giorni immediatamente successivi Parolisi non ha contatti né con la professoressa, che non sentirà mai nell’arco di tempo monitorato (1 dicembre 2020-25 giugno 2021), né con il giornalisti. Il suo cellulare tace nella pace dell’antivigilia di Natale immerso nella campagna toscana. In sostanza non partecipa in nessun modo al presunto «complotto». Commenta la notizia a posteriori. Come ne chiosa molte altre in trasmissioni come Di Martedì di Giovanni Floris.E, per quanto riguarda la docente, le indagini hanno confermato in modo inequivocabile l’inesistenza di qualsivoglia rapporto con apparati di intelligence.LA LUNGA SOSTAC’è poi la questione della lunga permanenza dell’indagata all’autogrill, 40 minuti circa. Ma la signora nel suo interrogatorio giustifica la pausa in modo credibile. Il padre si sarebbe sentito male già all’altezza dell’uscita Settebagni, dove avrebbe fatto una prima sosta, «dando di stomaco». A Fiano Romano avrebbe avuto un «altro malessere» e sarebbe ricorso altre due volte al bagno, cercando tra una ritirata e l’altra di riprendersi con una camomilla calda e con un bicchiere d’acqua. Dunque se la professoressa è rimasta così tanto nell’area di servizio il motivo era legato allo stato di salute del suo babbo.E dal posto di guida è riuscita a riprendere Renzi e Mancini che parlavano a poco più di dieci metri da lei, mentre i quattro uomini delle due rispettive scorte non si accorgevano di nulla. Forse perché una donna alla guida di un’utilitaria con due anziani a bordo non desterebbe sospetto in nessuno. La docente venne colpita dall’arrivo di Mancini, perché era accompagnato da due uomini di scorta e perché «era vestito molto elegantemente». Successivamente vide arrivare anche l’auto di Renzi con il lampeggiante acceso. L’ex premier, appena sceso, avrebbe indossato la mascherina, «l’uomo dai capelli bianchi» si sarebbe avvicinato e i due sarebbero passati «in prossimità dell’auto» dell’indagata, per poi appartarsi «in posizione defilata».L’Audi di Renzi aveva ostruito la strada alla 500 della professoressa e i due personaggi si sarebbero salutati praticamente davanti alla donna e per questo, essendo abbassato il finestrino dalla parte del padre, la docente ha avuto modo di sentire l’ex premier pronunciare questa frase: «Tanto per qualsiasi cosa sai come (o dove) trovarmi». La signora a quel punto sarebbe ripartita lentamente in direzione Viterbo. Questo il racconto di quello che è avvenuto subito dopo: «Poco prima delle gallerie sono stata superata dall’Audi di Renzi che ho riconosciuto perché aveva il lampeggiante acceso e viaggiava a velocità sostenuta».INCONGRUENZE VENIALILa professoressa non avrebbe avvistato, invece, l’altra auto e per questo avrebbe «dedotto che la stessa avesse preso una diversa direzione». Ma poiché in tv e nelle mail ha sostenuto che si fosse diretta in direzione Roma i suoi detrattori hanno provato a inchiodarla a quella imprecisione.Ma la ricostruzione della donna è stata confermata oltre che dalle ricevute del Telepass anche da tabulati e celle telefoniche, documentazione che la docente ha potuto visionare solo alla fine delle investigazioni, una quindicina di giorni dopo il suo interrogatorio. Dunque la lunga sosta sembra spiegata in modo del tutto coerente e in quell’autogrill, davanti alla testimone, ferma per la nausea del genitore, iniziò a materializzarsi l’incontro dei misteri.IL VERBALE«Non ho difficoltà ad ammettere che sono stata molto incuriosita dalla particolare situazione a cui assistevo» ha detto V. a verbale. «Da semplice cittadina, innegabilmente curiosa sono rimasta profondamente colpita da questo singolare episodio […] ci tengo a precisare però che ho ritenuto di effettuare le riprese e le fotografie del senatore Renzi mentre dialogava con il suo interlocutore perché ho intuito il rapporto pubblico e non meramente privatistico che univa i due soggetti: di cui l’uno era uno dei massimi leader politici italiani e l’altro un personaggio munito di scorta e auto di servizio». Proprio per tale motivo la professoressa, a questo punto si potrebbe parlare di una giornalista ad honorem, avrebbe immaginato che «il fatto fosse meritevole di essere raccontato nell’esercizio del diritto di cronaca». Il suo avvocato Giulio Vasaturo ha specificato che la sua assistita avrebbe assunto «consapevolmente il ruolo di “fonte giornalistica”» e che «non ha mai chiesto né percepito alcun compenso economico o di altro genere, per il contributo che da semplice cittadina ha volontariamente dato a questa inchiesta giornalistica». Renzi non ha voluto incontrare la donna, né ha accettato di essere sentito dalla difesa della docente come consente il codice. Meglio mantenere la vicenda nel limbo e sollevare sospetti. La Procura anziché chiedere l’archiviazione della professoressa dopo aver visionato i tabulati, ha preferito inviarle l’avviso di chiusura delle indagini dando la possibilità a Renzi e Mancini di accedere agli atti, tra l’altro con l’esplicito consenso della stessa indagata. La contestazione è quella prevista dall’artico 617 septies che colpisce con pene sino a quattro anni «chiunque, al fine di recare danno all’altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati». La punibilità è esclusa se la diffusione avviene nell’esercizio del diritto di cronaca, caso che ci sembra essere quello di specie.007 E AUTOGRILLEppure su alcuni giornali è stato paventato persino che dietro a quei video potessero esserci i servizi segreti cinesi oppure quelli russi, a cui Mancini avrebbe pestato i calli. Adesso i supporter dell’ex dirigente del Dis sono alla ricerca di altri mandanti. Se Parolisi è stato «mascherato» (anche se la voce resta perfettamente riconoscibile), Report ha mandato in onda un altro ex 007 ed ex compagno di avventure di Mancini e Tavaroli, Marco Bernardini, il quale è stato condannato in via definitiva a 5 anni e 8 mesi per aver prodotto migliaia di dossier illegali per conto della security di Telecom Pirelli. Bernardini, senza peli sulla lingua, ha raccontato quella che già quindici anni fa sarebbe stata una specialità della ditta. «L’autogrill è un luogo abituale di incontri?» gli hanno domandato quelli di Report. E Bernardini ha risposto: «Un luogo abituale sì. Quando venivo giù da Milano a Roma e facevo i viaggi con Giuliano Tavaroli ogni tanto ci si fermava in qualche autogrill tra Bologna e Firenze e lui parlava con Marco Mancini». Quindi a nostro modesto avvisto sarebbe più interessante sapere non perché la professoressa fosse a Fiano Romano ma perché ci fossero Renzi e Mancini e che cosa si siano detti.
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Il testo del prof Raoul Pupo, storico italiano già professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste, è stato scritto per il Circolo della Storia, la nuova comunità nazionale che si è costituita un mese fa per la direzione scientifica dello storico Tommaso Piffer, e raggruppa circa duemila appassionati di tutta Italia. I contenuti sono aperti alla libera fruizione, info e adesioni circolodellastoria.it
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Il 10 novembre 1975: ad Osimo venne firmato il Trattato italo-jugoslavo che definiva il confine tra i due Stati ed offriva nuovi spunti per la già buona collaborazione economica fra i due Paesi. Nel 1977 l’entrata in vigore del Trattato fu comunicata al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ne prese atto e depose la pietra tombale su ogni ipotesi di costituzione del Territorio Libero di Trieste, così come previsto dal Trattato di pace del 1947.
Ce n’era bisogno, dal momento che il Memorandum di Londra del 1954 aveva già di fatto realizzato la spartizione del mai costituito TLT? Certo che no, secondo i rappresentanti dei profughi italiani dalla zona B, cui la simulazione di provvisorietà contenuta nel Memorandum aveva alimentato l’illusione di poter, prima o poi, chissà in quale modo, recuperare la propria terra. Altroché, era invece il giudizio comune delle cancellerie occidentali, perché la provvisorietà formale del Memorandum era stata concepita soltanto per acquietare le rispettive opinioni pubbliche ed ormai, trascorsi vent’anni, l’effetto era stato raggiunto. Gli sloveni si erano rassegnati alla perdita di Trieste, divenuta nel frattempo un ottimo mercato per tutti gli acquirenti jugoslavi, mentre a diventare la tanto desiderata Novi Trst era stata Capodistria. In Italia molti pensavano che Trieste si trovasse dall’altra parte del ponte rispetto a Trento e la zona B non avevano proprio idea di che cosa fosse.
I rapporti bilaterali negli anni Sessanta nel complesso erano buoni. L’interscambio economico era ottimo, anche perché la Germania federale aveva interrotto i rapporti commerciali con la Jugoslavia dopo che il governo di Belgrado aveva riconosciuto la repubblica democratica tedesca. Fatto ancor più importante, la Jugoslavia costituiva un ottimo cuscinetto strategico per l’Italia che aveva così visto allontanarsi il fronte caldo della guerra fredda, mentre l’Italia e per suo tramite la NATO coprivano le spalle alla Jugoslavia.
Le incognite riguardavano il futuro e cioè il “dopo Tito”, perché erano in molti a chiedersi se la Repubblica Federativa sarebbe sopravvissuta alla morte del suo carismatico fondatore e leader. Alcuni scenari possibili erano davvero molto allarmanti.
Uno di questi era il riallineamento della Jugoslavia all’Unione Sovietica, paventato sia da una parte della stessa dirigenza politica jugoslava che dalla NATO ed in particolare dall’Italia, che si sarebbe ritrovata l’armata rossa alle porte di Monfalcone. Un altro ed ancor più inquietante scenario prevedeva il collasso della compagine federale, con la secessione delle repubbliche del nord ed il successivo intervento militare sovietico in difesa del socialismo ed occidentale a tutela dell’indipedenza slovena e croata: una situazione questa ad altissimo rischio, perché avrebbe potuto innescare un conflitto europeo. Ma anche se non si fosse arrivati alle armi, la frammentazione jugoslava avrebbe danneggiato gli interessi italiani, perché Slovenia e Croazia sarebbero state troppo deboli per fungere da efficace barriera contro le forze del patto di Varsavia.
In ogni caso, se la crisi fosse esplosa con un confine italo-jugoslavo ancora giuridicamente incerto, questo avrebbe concesso una formidabile leva al Cremlino nei confronti dell’Italia. Infatti, se la condizione della zona B era incerta, allora lo era anche quella della zona A e sul destino di Trieste i russi avrebbero avuto probabilmente non poco da dire.
Insomma, tutto consigliava di chiudere anche formalmente la partita, sia per contribuire alla stabilizzazione della Jugoslavia, sia per mettere definitivamente in sicurezza il confine orientale italiano. La spinta decisiva venne nel 1968 dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che suscitò grandissimo allarme anche in Jugoslava e venne seguita dalla proclamazione della “dottrina Breznev, che gettava ombre lunghe sul futuro dello Stato balcanico. In quella circostanza il ministro degli esteri italiano, Medici, oltre a rassicurare il governo di Belgrado che quello italiano non intendeva sollevare rivendicazioni territoriali approfittando della necessità di quello jugoslavo di concentrare le sue forze ai confini con i Paesi del Patto di Varsavia, prese l’iniziativa di proporre colloqui esplorativi sulla possibilità di superare il Memorandum. Partì così un negoziato, affidato all’ambasciatore Milesi Ferretti ed al plenipotenziario Perišić: nonostante il comune intento delle parti a giungere ad una soluzione formale che riproducesse sostanzialmente quella di fatto, l’iter negoziale si rivelò lungo e complesso fino a generare momenti di acuta tensione.
Le questioni da risolvere erano in effetti parecchie, dalle sacche territoriali occupate dagli jugoslavi lungo il confine dell’Isonzo, ai problemi delle viabilità nell’Isontino, alla delimitazione delle acque territoriali nel golfo di Trieste. I nodi politici fondamentali però due.
L’Italia riteneva di detenere ancora formalmente la sovranità su tutti territori che avrebbero dovuto dar vita al mai costituto Territorio Libero di Trieste in nome della “dottrina Cammarata”, in applicazione della quale, dopo l’estensione dell’amministrazione italiana alla zona A , aveva fatto di Trieste il capoluogo della regione autonoma Friuli -Venezia Giulia. Pertanto, intendeva ottenere quale contropartita alla sua rinuncia formale alla zona B la concessione da parte jugoslava di una piccola striscia della zona B medesima. Si trattava di una compensazione prevalentemente simbolica, dal momento che l’area era deserta, ma tornava utile per ampliare l’asfittico distretto industriale di Trieste. Per contro, gli jugoslavi non solo negavano la sussistenza della sovranità italiana sulla zona B in linea con la maggior parte della giurisprudenza internazionale, ma si consideravano essi stessi detentori della sovranità sulla zona fin dal 1954 e di conseguenza non erano affatto disposti a concessioni seppur solo simboliche.
Invece, il governo di Belgrado desiderava estendere le norme di tutela della minoranza slovena previste dall’Allegato al Memorandum anche alle altre province italiane, compresa quella di Udine in riferimento alla ex “Slavia veneta” e chiedeva gli venisse riconosciuto un droit de regard sull’applicazione di tale normativa. Roma invece non ne voleva sentir parlare, vuoi perché secondo il governo italiano in provincia di Udine di sloveni non ce n’erano proprio, neanche nelle valli del Natisone, del Torre e Resia, vuoi perché il “droit de regard” a favore dell’Austria stava procurando infiniti problemi all’Italia nella questione dell’Alto Adige.
Inoltre Aldo Moro, vero protagonista dell’interlocuzione con il governo jugoslavo, amava notoriamente le pazienti tessiture, capaci di assorbire senza troppe scosse novità altrimenti difficili da far accettare sia alle forze politiche che al corpo elettorale. Viceversa Belgrado aveva fretta di concludere, anche perché pressata dagli ambienti sloveni, mentre i ritmi blandi imposti dall’Italia venivano interpretati come sintomi di scarsa convinzione o, peggio, come segnali di una volontà di elusione – in linea con il tradizionale machiavellismo italico – celante il segreto desiderio di non condurre in porto le trattative
Ne seguirono alcuni tentativi di forzatura da parte jugoslava. Il primo avvenne alla fine del 1970, nell’imminenza della visita di Tito in Italia. Al rifiuto italiano di mettere ufficialmente in agenda la questione dei confini, che provocò il malumore jugoslavo, seguì un’indiscrezione stampa, d’incerta provenienza, che rendeva nota l’esistenza dei colloqui riservati. Ne venne un polverone politico-mediatico, che il governo italiano concluse con una dichiarazione ufficiale di Moro nella sua qualità di Ministro degli esteri, secondo la quale l’Italia non era disponibile a rinunciare ai “propri legittimi interessi nazionali”, intendendo la zona B; tale espressione dal governo di Belgrado venne considerata “a carattere specificatamente irredentista” e la visita di Tito fu rimandata di alcuni mesi.
La seconda e ben più grave forzatura arrivò nel 1974, quando il governo jugoslavo fece apporre lungo la linea di demarcazione fra le zone A e B alcuni cartelli stradali con la scritta “confine di stato” a sottolineare la piena sovranità jugoslava sulla zona B. Il governo italiano reagì con una nota durissima che evocava la perdurante sovranità italiana sulla zona B e ne nacque un putiferio, perché il governo di Belgrado decise di alzare l’asticella della crisi, passando dal livello diplomatico a quello delle campagne di stampa e, addirittura, delle dimostrazioni militari simboliche.
A quel punto, divenne evidente che il negoziato andava concluso per evitare un collasso generale dei rapporti italo-jugoslavi che nessuno voleva. Di fronte ai tradizionali incagli, la soluzione sul piano del metodo venne dall’attivazione di un canale negoziale alternativo, che era già stato preparato segretamente nel 1973 dai ministri degli esteri Medici e Minić, affidandolo al Direttore Generale del Ministero dell’industria Italiano, Eugenio Carbone, ed al Sottosegretario presso il Ministero del Commercio Jugoslavo, lo Sloveno Boris Šnuderl. Una scelta del genere già lasciava intuire la preferenza dei due governi per uno spostamento dell’asse del negoziato verso il terreno delle intese economiche, decisamente più praticabile rispetto ai vicoli ciechi dei contenziosi politico-territoriali, anche se ovviamente i due negoziatori vennero assistiti da rappresentanti dei rispettivi Ministeri degli esteri.
Il canale in effetti funzionò, anche perché i due grandi nodi vennero rimossi con una scelta politica dall’alto. In coerenza con l’opinione prevalente all’interno della carriera diplomatica, il governo italiano decise di rinunciare alla compensazione simbolica in zona B, puntando invece a più concrete compensazioni di natura politica – ad esempio, sulla questione delle minoranze – ed economica. A quest’ultimo riguardo, il negoziatore italiano riprese la richiesta di ampliamento della zona industriale di Trieste in territorio jugoslavo, spostando però la ricerca dei terreni necessari dalla zona B al Carso triestino, dove il confine era già definito e dove le aree disponibili erano assai più vaste. Prese corpo in tal modo, su richiesta italiana, l’ipotesi di creare un nuovo distretto industriale alle spalle della città, destinato a risolvere il problema del mancato sviluppo di Trieste vuoi in maniera diretta – generando cioè occupazione – vuoi indiretta, mediante l’incremento dei traffici portuali. A cavaliere del confine quindi sarebbe stata ricavata una zona franca, capace di attrarre investimenti per prodotti diretti all’esportazione facendo convergere le energie imprenditoriali delle aree più dinamiche dei due Paesi, il nord Italia e quella Slovenia che non vedeva l’ora di evadere dalle gabbie del sistema comunista. Da parte sua il governo di Belgrado rinunciò sia all’estensione delle norme di tutela della minoranza slovena alla provincia di Udine, sia al droit de regard, accontentandosi di due dichiarazioni d’intenti unilaterali simmetriche.
Alla fine del 1974 l’accordo era quindi raggiunto, ma dapprima la caduta del quinto governo Rumor e poi la richiesta italiana di attendere le elezioni amministrative del giugno1975, fecero slittare la ratifica parlamentare appena all’autunno. Di conseguenza, la firma giunse il 10 novembre in quel di Osimo.
Le cancellerie occidentali applaudirono, i due governi s’industriarono a presentare l’accordo come il primo raggiunto nello “spirito di Helsinki”, anche se un legame diretto fra il negoziato italo-jugoslavo e quello per la CSCE non c’era mai stato; l’URSS abbozzò; l’opinione pubblica italiana quasi non si accorse dell’accaduto, mentre quella locale triestina protestò, com’era largamente previsto, ma in una misura ed in forme che sorpresero un po’ tutti.
Piero Amara (Ansa)
L’ex avvocato svela l’ascesa del manager di Gioia Tauro già accusato in Iran e imputato a Roma «Diventò fornitore di Eni grazie a me, ma si tenne le quote. In Calabria aveva relazioni pericolose».
The italian job è diventato un intrigo internazionale. L’agenzia di stampa Bloomberg, da alcune settimane, si sta dedicando agli affari petroliferi del manager calabrese Francesco Mazzagatti, il più pagato in Gran Bretagna (oltre 30 milioni di euro di stipendio nel 2024). Il suo tentativo di acquisire da Shell ed Exxon mobile, con la sua società Viaro Energy Ltd (controllata da Viaro investment Ltd), l’impianto di gas di Bacton, a nord-est di Londra, considerato la «spina dorsale» della struttura energetica inglese, ha attirato l’attenzione dell’agenzia governativa britannica Nsta (l’Autorità di transizione del Mare del Nord che regola l’attività delle industrie di petrolio e gas offshore). Ma anche l’acquisto della Rockerose energy ha portato all’apertura un’inchiesta.
Johann Chapoutot (Wikimedia)
Col saggio «Gli irresponsabili», Johann Chapoutot rilegge l’ascesa del nazismo senza gli occhiali dell’ideologia. E mostra tra l’altro come socialdemocratici e comunisti appoggiarono il futuro Führer per mettere in crisi la Repubblica di Weimar.
«Quella di Weimar è una storia così viva che resuscita i morti e continua a porre interrogativi alla Germania e, al di là della Germania, a tutte le democrazie che, di fronte al periodo 1932-1933, a von Papen e Hitler, ma anche a Schleicher, Hindenburg, Hugenberg e Thyssen, si sono trovate a misurare la propria finitudine. Se la Grande Guerra ha insegnato alle civiltà che sono mortali, la fine della Repubblica di Weimar ha dimostrato che la democrazia è caduca».
(Guardia di Finanza)
I finanzieri del Comando Provinciale di Palermo, grazie a una capillare attività investigativa nel settore della lotta alla contraffazione hanno sequestrato oltre 10.000 peluches (di cui 3.000 presso un negozio di giocattoli all’interno di un noto centro commerciale palermitano).
I peluches, originariamente disegnati da un artista di Hong Kong e venduti in tutto il mondo dal colosso nella produzione e vendita di giocattoli Pop Mart, sono diventati in poco tempo un vero trend, che ha generato una corsa frenetica all’acquisto dopo essere stati indossati sui social da star internazionali della musica e del cinema.
In particolare, i Baschi Verdi del Gruppo Pronto Impiego, attraverso un’analisi sulla distribuzione e vendita di giocattoli a Palermo nonché in virtù del costante monitoraggio dei profili social creati dagli operatori del settore, hanno individuato sette esercizi commerciali che disponevano anche degli iconici Labubu, focalizzando l’attenzione soprattutto sul prezzo di vendita, considerando che gli originali, a seconda della tipologia e della dimensione vengono venduti con un prezzo di partenza di circa 35 euro fino ad arrivare a diverse migliaia di euro per i pezzi meno diffusi o a tiratura limitata.
A seguito dei preliminari sopralluoghi effettuati all’interno dei negozi di giocattoli individuati, i finanzieri ne hanno selezionati sette, i quali, per prezzi praticati, fattura e packaging dei prodotti destavano particolari sospetti circa la loro originalità e provenienza.
I controlli eseguiti presso i sette esercizi commerciali hanno fatto emergere come nella quasi totalità dei casi i Labubu fossero imitazioni perfette degli originali, realizzati con materiali di qualità inferiore ma riprodotti con una cura tale da rendere difficile per un comune acquirente distinguere gli esemplari autentici da quelli falsi. I prodotti, acquistati senza fattura da canali non ufficiali o da piattaforme e-commerce, perlopiù facenti parte della grande distribuzione, venivano venduti a prezzi di poco inferiori a quelli praticati per gli originali e riportavano loghi, colori e confezioni del tutto simili a questi ultimi, spesso corredati da etichette e codici identificativi non conformi o totalmente falsificati.
Questi elementi, oltre al fatto che in alcuni casi i negozi che li ponevano in vendita fossero specializzati in giocattoli originali di ogni tipo e delle più note marche, potevano indurre il potenziale acquirente a pensare che si trattasse di prodotti originali venduti a prezzi concorrenziali.
In particolare, in un caso, l’intervento dei Baschi Verdi è stato effettuato in un negozio di giocattoli appartenente a una nota catena di distribuzione all’interno di un centro commerciale cittadino. Proprio in questo negozio è stato rinvenuto il maggior numero di pupazzetti falsi, ben 3.000 tra esercizio e magazzino, dove sono stati trovati molti cartoni pieni sia di Labubu imbustati che di scatole per il confezionamento, segno evidente che gli addetti al negozio provvedevano anche a creare i pacchetti sorpresa, diventati molto popolari proprio grazie alla loro distribuzione tramite blind box, ossia scatole a sorpresa, che hanno creato una vera e propria dipendenza dall’acquisto per i collezionisti di tutto il mondo. Tra gli esemplari sequestrati anche alcune copie più piccole di un modello, in teoria introvabile, venduto nel mese di giugno a un’asta di Pechino per 130.000 euro.
Soprattutto in questo caso la collocazione all’interno di un punto vendita regolare e inserito in un contesto commerciale di fiducia, unita alla cura nella realizzazione delle confezioni, avrebbe potuto facilmente indurre in errore i consumatori convinti di acquistare un prodotto ufficiale.
I sette titolari degli esercizi commerciali ispezionati e destinatari dei sequestri degli oltre 10.000 Labubu falsi che, se immessi sul mercato avrebbero potuto fruttare oltre 500.000 euro, sono stati denunciati all’Autorità Giudiziaria per vendita di prodotti recanti marchi contraffatti.
L’attività s’inquadra nel quotidiano contrasto delle Fiamme Gialle al dilagante fenomeno della contraffazione a tutela dei consumatori e delle aziende che si collocano sul mercato in maniera corretta e che, solo nell’ultimo anno, ha portato i Baschi Verdi del Gruppo P.I. di Palermo a denunciare 37 titolari di esercizi commerciali e a sequestrare oltre 500.000 articoli contraffatti, tra pelletteria, capi d’abbigliamento e profumi recanti marchi delle più note griffe italiane e internazionali.
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