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2025-12-06
Trump suona la sveglia all’Europa: «Rischia di sparire entro 20 anni»
Donald Trump (Ansa)
La diagnosi dei mali del Vecchio continente, contenuta nel faldone, è severa. Il testo denuncia «le attività dell’Unione europea e di altri corpi transnazionali, che minano la libertà e la sovranità politiche», nonché «le politiche migratorie», «la repressione della libertà d’espressione e la soppressione dell’opposizione politica», la «voragine» che si è aperta nei tassi di natalità, «la perdita delle identità nazionali e della fiducia in sé stessi». «Se le attuali tendenze dovessero continuare», è la profezia apocalittica, «il continente sarà irriconoscibile entro 20 anni, se non meno».
«area vitale per noi»
Persino le frizioni con la Russia vengono attribuite allo smarrimento culturale dell’Europa, la quale godrebbe di un «significativo vantaggio nel potere coercitivo», tale da consentirle una certa tranquillità. Perciò gli Stati Uniti intendono profondere sforzi diplomatici, «sia per ripristinare condizioni di stabilità strategica nell’area euroasiatica, sia per mitigare il rischio di un conflitto tra la Russia e gli Stati europei». Anche perché il conflitto in Ucraina ha aggravato le «dipendenze esterne» dei Paesi Ue, Germania in primis: le sue aziende sono arrivate a delocalizzare in Cina per «usare il gas russo che non possono ottenere in patria».
L’accusa nei confronti delle élite del Vecchio continente è pesante: «Una vasta maggioranza degli europei vuole la pace, eppure quel desiderio non viene tradotto in politiche, in larga misura perché quei governi hanno sovvertito il processo democratico». È facile cogliere l’allusione alla conventio ad excludendum dei partiti di sistema nei confronti di Afd in Germania e del Rassemblement national in Francia. L’amministrazione, pertanto, dice di trovarsi in disaccordo «con i funzionari europei, che nutrono aspettative irrealistiche rispetto alla guerra, fondate su governi di minoranza instabili».
L’insofferenza per l’involuzione dell’Unione europea, d’altronde, non impedisce al documento di riconoscere che «l’Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti». E che sarà cruciale «promuovere la grandezza europea». Purché l’Europa impari a difendersi da sé, a «reggersi in piedi da sola». E purché si ponga fine alla «percezione» - evitando che diventi realtà - che la Nato sia «un’alleanza in perpetuo allargamento». Stando al retroscena di Reuters, Washington vorrebbe che l’Ue ne assuma la guida entro il 2027.
Il senso del «corollario Trump» alla dottrina Monroe, della quale il presidente americano ha celebrato giusto quattro giorni fa i 250 anni, sta qui. Non si tratta, semplicemente, di respingere ogni ingerenza negli affari del continente americano, bensì di rivendicare l’emisfero occidentale quale sfera d’influenza degli Usa, contrastando l’influenza russa e cinese, il narcotraffico, impiegando dazi e minaccia della forza come strumenti di pressione e agendo per contenere l’espansione delle potenze ostili, affinché non intacchino gli interessi vitali di Washington.
l’indo-pacifico
Trump vuole che la sua politica estera sia «pragmatica senza essere “pragmatista”, realistica senza essere “realista”», semmai improntata a una forma di «realismo flessibile»; e, ancora, che essa riposi su dei principi «senza essere “idealista”», che sia «muscolare senza essere “da falchi” e misurata senza essere “da colombe”». Poca ideologia, molti fatti, che concorrano all’obiettivo di mettere «l’America al primo posto», «America first». Perciò va corretta la tracotanza degli egemoni americani post Guerra fredda. «Gli Stati Uniti», proclama la Casa Bianca, «respingono il concetto fallimentare di dominio globale» e non hanno più intenzione di «sprecare sangue e denaro per limitare l’influenza di tutte le grandi e medie potenze del mondo». Niente più poliziotti del mondo. Si dovrà ricalibrare la presenza militare Usa nelle varie aree geografiche, «per affrontare le minacce urgenti nel nostro emisfero». Tenendosi lontani «da teatri la cui importanza relativa per la sicurezza nazionale americana è diminuita». Il tutto, sullo sfondo di una «propensione al non intervento», pur nella convinzione che si debba mantenere «la pace attraverso la forza».
Kiev e Bruxelles sono avvisate. Perché, nonostante il giuramento di fedeltà all’Europa e al Regno Unito, ancorché accompagnato dalla pretesa di più contributi alle spese militari e più equità nei rapporti commerciali, il nucleo degli interessi Usa non è in Europa. È nell’Indo-Pacifico. Quell’area che produce già «quasi la metà del Pil mondiale a parità di potere d’acquisto» e la cui quota di ricchezza planetaria, nel XXI secolo, «di certo crescerà». La priorità dell’amministrazione statunitense sarà interrompere le strategie industriali e commerciali «predatorie», il furto di proprietà intellettuale nel campo tecnologico, le minacce alla catena di approvvigionamento di materie prime, il flusso di fentanyl e la guerra ibrida e psicologica portata avanti da Pechino. Trump ha ormai smontato l’illusione dei suoi predecessori: che «aprendo i nostri mercati alla Cina, incoraggiando le imprese americane a investire in Cina e spostando la nostra manifattura in Cina, avremmo facilitato l’ingresso della Cina nel cosiddetto “ordine internazionale basato sulle regole”».
Come invertire la rotta? La Casa Bianca si propone di «arruolare» i suoi alleati, cioè di esigere da loro - Giappone, Corea, la stessa Europa - una completa collaborazione e una crescente responsabilizzazione sul piano militare. Dopodiché, bisognerà «allargare» la rete di Paesi amici dell’America. Sembra un’eco della teoria del politologo cinese Yan Xuetong, molto ascoltato da Xi Jinping e convinto che la competizione tra grandi potenze sarà decisa dalla loro capacità di attrarre sostegno sullo scacchiere. Di certo, se per The Donald l’Ucraina è periferica, Taiwan è invece centrale. L’avviso a Pechino è cristallino: «Gli Stati Uniti non supportano alcun cambiamento unilaterale dello status quo».
Anche il Medio Oriente e, soprattutto, l’Africa, paiono meno rilevanti agli occhi di Trump. Soddisfatto della tregua a Gaza («Negli ultimi nove mesi», scrive nell’introduzione il presidente, «abbiamo salvato la nazione e il mondo dall’orlo della catastrofe e del disastro»), dell’indebolimento dell’Iran e della stabilizzazione della Siria, il tycoon confida di porre termine all’era «in cui il Medio Oriente dominava la politica estera americana». Nel continente nero, intanto, gli Usa cercheranno di sostituire, al «paradigma degli aiuti esteri», quello degli investimenti e della crescita.
droga, woke, nazioni
Il documento uscito ieri, però, aiuta altresì a comprendere la filosofia che ispira la politica interna di Trump. Se l’obiettivo ultimo della sua strategia è conservare la sovranità e la prosperità degli Usa, per mantenere una influenza determinante sull’emisfero occidentale e limitare le ambizioni degli avversari, si capisce per quale motivo siano così essenziali il controllo dei confini e la lotta ai fattori di sgretolamento della società: la droga, il woke, la cappa ideologica, la deindustrializzazione. «America first», poi, significa ripensare la funzione delle «più intrusive organizzazioni transnazionali», le quali saranno tenute a «favorire anziché danneggiare la sovranità». Si spiegano le scintille con l’Onu e l’Oms. È il principio del «primato delle nazioni», che dovrebbe far scoppiare la bolla del multilateralismo europeo. Un bel sogno infranto. Oppure un incubo dal quale ci dobbiamo risvegliare.
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Il documento strategico della Casa Bianca bacchetta le élite del Vecchio continente: «I cittadini invocano la pace, loro sovvertono la democrazia». Avvisi a Nato («Basta espansione») e Cina: «Non tocchi Taiwan».Viva l’Europa, abbasso l’Unione europea. È la sintesi brutale ma efficace della dottrina di Donald Trump, esposta in un documento di una trentina di pagine, datato novembre 2025, che la Casa Bianca ha diffuso ieri. A bistrattare Bruxelles ci hanno già pensato diversi esponenti dell’amministrazione americana: il segretario di Stato, Marco Rubio, ha rifiutato d’incontrare l’omologa, Kaja Kallas, a Washington; il suo vice, Christopher Landau, ha rinfacciato a Federica Mogherini, già Alto rappresentante Ue, ora sotto inchiesta, di essere stata un’estimatrice del regime castrista; JD Vance, dopo il discorso di Monaco di febbraio, durissimo con l’Unione, ha contestato la multa da 120 milioni comminata a X per violazione del Dsa. In realtà, a suo parere, per il rifiuto della piattaforma di «impegnarsi nella censura».La diagnosi dei mali del Vecchio continente, contenuta nel faldone, è severa. Il testo denuncia «le attività dell’Unione europea e di altri corpi transnazionali, che minano la libertà e la sovranità politiche», nonché «le politiche migratorie», «la repressione della libertà d’espressione e la soppressione dell’opposizione politica», la «voragine» che si è aperta nei tassi di natalità, «la perdita delle identità nazionali e della fiducia in sé stessi». «Se le attuali tendenze dovessero continuare», è la profezia apocalittica, «il continente sarà irriconoscibile entro 20 anni, se non meno».«area vitale per noi»Persino le frizioni con la Russia vengono attribuite allo smarrimento culturale dell’Europa, la quale godrebbe di un «significativo vantaggio nel potere coercitivo», tale da consentirle una certa tranquillità. Perciò gli Stati Uniti intendono profondere sforzi diplomatici, «sia per ripristinare condizioni di stabilità strategica nell’area euroasiatica, sia per mitigare il rischio di un conflitto tra la Russia e gli Stati europei». Anche perché il conflitto in Ucraina ha aggravato le «dipendenze esterne» dei Paesi Ue, Germania in primis: le sue aziende sono arrivate a delocalizzare in Cina per «usare il gas russo che non possono ottenere in patria».L’accusa nei confronti delle élite del Vecchio continente è pesante: «Una vasta maggioranza degli europei vuole la pace, eppure quel desiderio non viene tradotto in politiche, in larga misura perché quei governi hanno sovvertito il processo democratico». È facile cogliere l’allusione alla conventio ad excludendum dei partiti di sistema nei confronti di Afd in Germania e del Rassemblement national in Francia. L’amministrazione, pertanto, dice di trovarsi in disaccordo «con i funzionari europei, che nutrono aspettative irrealistiche rispetto alla guerra, fondate su governi di minoranza instabili».L’insofferenza per l’involuzione dell’Unione europea, d’altronde, non impedisce al documento di riconoscere che «l’Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti». E che sarà cruciale «promuovere la grandezza europea». Purché l’Europa impari a difendersi da sé, a «reggersi in piedi da sola». E purché si ponga fine alla «percezione» - evitando che diventi realtà - che la Nato sia «un’alleanza in perpetuo allargamento». Stando al retroscena di Reuters, Washington vorrebbe che l’Ue ne assuma la guida entro il 2027. Il senso del «corollario Trump» alla dottrina Monroe, della quale il presidente americano ha celebrato giusto quattro giorni fa i 250 anni, sta qui. Non si tratta, semplicemente, di respingere ogni ingerenza negli affari del continente americano, bensì di rivendicare l’emisfero occidentale quale sfera d’influenza degli Usa, contrastando l’influenza russa e cinese, il narcotraffico, impiegando dazi e minaccia della forza come strumenti di pressione e agendo per contenere l’espansione delle potenze ostili, affinché non intacchino gli interessi vitali di Washington.l’indo-pacificoTrump vuole che la sua politica estera sia «pragmatica senza essere “pragmatista”, realistica senza essere “realista”», semmai improntata a una forma di «realismo flessibile»; e, ancora, che essa riposi su dei principi «senza essere “idealista”», che sia «muscolare senza essere “da falchi” e misurata senza essere “da colombe”». Poca ideologia, molti fatti, che concorrano all’obiettivo di mettere «l’America al primo posto», «America first». Perciò va corretta la tracotanza degli egemoni americani post Guerra fredda. «Gli Stati Uniti», proclama la Casa Bianca, «respingono il concetto fallimentare di dominio globale» e non hanno più intenzione di «sprecare sangue e denaro per limitare l’influenza di tutte le grandi e medie potenze del mondo». Niente più poliziotti del mondo. Si dovrà ricalibrare la presenza militare Usa nelle varie aree geografiche, «per affrontare le minacce urgenti nel nostro emisfero». Tenendosi lontani «da teatri la cui importanza relativa per la sicurezza nazionale americana è diminuita». Il tutto, sullo sfondo di una «propensione al non intervento», pur nella convinzione che si debba mantenere «la pace attraverso la forza».Kiev e Bruxelles sono avvisate. Perché, nonostante il giuramento di fedeltà all’Europa e al Regno Unito, ancorché accompagnato dalla pretesa di più contributi alle spese militari e più equità nei rapporti commerciali, il nucleo degli interessi Usa non è in Europa. È nell’Indo-Pacifico. Quell’area che produce già «quasi la metà del Pil mondiale a parità di potere d’acquisto» e la cui quota di ricchezza planetaria, nel XXI secolo, «di certo crescerà». La priorità dell’amministrazione statunitense sarà interrompere le strategie industriali e commerciali «predatorie», il furto di proprietà intellettuale nel campo tecnologico, le minacce alla catena di approvvigionamento di materie prime, il flusso di fentanyl e la guerra ibrida e psicologica portata avanti da Pechino. Trump ha ormai smontato l’illusione dei suoi predecessori: che «aprendo i nostri mercati alla Cina, incoraggiando le imprese americane a investire in Cina e spostando la nostra manifattura in Cina, avremmo facilitato l’ingresso della Cina nel cosiddetto “ordine internazionale basato sulle regole”».Come invertire la rotta? La Casa Bianca si propone di «arruolare» i suoi alleati, cioè di esigere da loro - Giappone, Corea, la stessa Europa - una completa collaborazione e una crescente responsabilizzazione sul piano militare. Dopodiché, bisognerà «allargare» la rete di Paesi amici dell’America. Sembra un’eco della teoria del politologo cinese Yan Xuetong, molto ascoltato da Xi Jinping e convinto che la competizione tra grandi potenze sarà decisa dalla loro capacità di attrarre sostegno sullo scacchiere. Di certo, se per The Donald l’Ucraina è periferica, Taiwan è invece centrale. L’avviso a Pechino è cristallino: «Gli Stati Uniti non supportano alcun cambiamento unilaterale dello status quo».Anche il Medio Oriente e, soprattutto, l’Africa, paiono meno rilevanti agli occhi di Trump. Soddisfatto della tregua a Gaza («Negli ultimi nove mesi», scrive nell’introduzione il presidente, «abbiamo salvato la nazione e il mondo dall’orlo della catastrofe e del disastro»), dell’indebolimento dell’Iran e della stabilizzazione della Siria, il tycoon confida di porre termine all’era «in cui il Medio Oriente dominava la politica estera americana». Nel continente nero, intanto, gli Usa cercheranno di sostituire, al «paradigma degli aiuti esteri», quello degli investimenti e della crescita.droga, woke, nazioniIl documento uscito ieri, però, aiuta altresì a comprendere la filosofia che ispira la politica interna di Trump. Se l’obiettivo ultimo della sua strategia è conservare la sovranità e la prosperità degli Usa, per mantenere una influenza determinante sull’emisfero occidentale e limitare le ambizioni degli avversari, si capisce per quale motivo siano così essenziali il controllo dei confini e la lotta ai fattori di sgretolamento della società: la droga, il woke, la cappa ideologica, la deindustrializzazione. «America first», poi, significa ripensare la funzione delle «più intrusive organizzazioni transnazionali», le quali saranno tenute a «favorire anziché danneggiare la sovranità». Si spiegano le scintille con l’Onu e l’Oms. È il principio del «primato delle nazioni», che dovrebbe far scoppiare la bolla del multilateralismo europeo. Un bel sogno infranto. Oppure un incubo dal quale ci dobbiamo risvegliare.
Il governatore della banca centrale indiana Sanjay Malhotra (Getty Images)
La decisione arriva dopo i dati ufficiali diffusi la scorsa settimana, che certificano un’espansione dell’8,2% nel trimestre chiuso a settembre. Numeri che mostrano come l’economia indiana abbia finora assorbito senza scosse l’impatto dei dazi al 50% imposti dagli Stati Uniti sulle esportazioni di Nuova Delhi.
Un sostegno decisivo è arrivato dal crollo dell’inflazione: dal sopra il 6% registrato nel 2024 a livelli prossimi allo zero. Un calo che, secondo gli analisti, offre ulteriore margine per nuovi tagli nei prossimi mesi. «Nonostante un contesto esterno sfavorevole, l’economia indiana ha mostrato una resilienza notevole», ha dichiarato Malhotra, pur avvertendo che la crescita potrebbe «attenuarsi leggermente». Ma la combinazione di espansione superiore alle attese e inflazione «benigna» nel primo semestre fiscale rappresenta, ha aggiunto, «un raro periodo Goldilocks».
Sulla scia dell’ottimismo, l’RBI ha rivisto al rialzo la stima di crescita per l’anno fiscale che si chiuderà a marzo: +7,3%, mezzo punto in più rispetto alle previsioni precedenti.
La reazione dei mercati è stata immediata: la Borsa di Mumbai ha chiuso in rialzo (Sensex +0,2%, Nifty 50 +0,3%), mentre la rupia si è indebolita dello 0,4% superando quota 90 sul dollaro, molto vicino ai minimi storici toccati due giorni prima. La valuta indiana è la peggiore d’Asia dall’inizio dell’anno. Malhotra ha ribadito che la banca centrale non persegue un tasso di cambio specifico: «Il nostro obiettivo è solo ridurre volatilità anomala o eccessiva».
Il Paese, fortemente trainato dalla domanda interna, risente meno di altri dell’offensiva tariffaria voluta da Donald Trump, che ad agosto ha raddoppiato i dazi sui prodotti indiani come ritorsione per gli acquisti di petrolio russo scontato. Una rupia debole, inoltre, aiuta alcuni esportatori a restare competitivi. Tuttavia, gli analisti prevedono che gli effetti più pesanti della guerra commerciale si vedranno nell’attuale trimestre e invitano a prudenza anche sulla recente lettura del Pil.
Tra gli obiettivi politici di lungo periodo rimane quello fissato dal premier Narendra Modi: diventare un Paese «sviluppato» entro il 2047, centenario dell’indipendenza. Per riuscirci, servirebbe una crescita media dell’8% l’anno. Il governo ha avviato negli ultimi mesi una serie di riforme strutturali - dalla semplificazione dell’imposta su beni e servizi alla revisione del codice del lavoro - per proteggere l’economia dagli shock esterni.
Malhotra aveva assunto la guida dell’RBI in una fase di rallentamento economico e inflazione oltre il tetto del 6%. Da allora ha accelerato sul fronte monetario: tre tagli consecutivi nei primi mesi del 2025 per un punto percentuale complessivo. L’inflazione retail di ottobre si è fermata allo 0,25% annuo.
Il governatore ha annunciato anche un intervento di liquidità: operazioni di mercato aperto per 1.000 miliardi di rupie e swap dollaro-rupia per 5 miliardi di dollari, per sostenere il sistema finanziario.
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Palazzo Berlaymont a Bruxelles, sede della Commissione europea (Getty Images)
Una di queste si chiama S-info, che sta per Sustainable information. Come si legge sul sito ufficiale, «si tratta di un progetto finanziato dall’Ue, incentrato sui media e ispirato dall’esigenza di rafforzare la democrazia. Ha una durata di due anni, da dicembre 2023 a novembre 2025. Coinvolge organizzazioni di quattro Paesi dell’Unione europea: Italia, Belgio, Romania e Malta. Il progetto esplorerà i modi in cui gli attivisti della società civile e i giornalisti indipendenti possono collaborare per svolgere giornalismo investigativo, combattere la disinformazione, combattere la corruzione, promuovere i diritti sociali e difendere l’ambiente. L’obiettivo finale è quello di creare un modello operativo di attivismo mediatico sostenibile che possa essere trasferito ad altri Paesi e contesti».
La tiritera è la solita: lotta alla disinformazione, promozione dei diritti... S-info è finanziato da Eacea, ovvero l’agenzia esecutiva della Commissione europea che gestisce il programma Europa creativa, il quale a sua volta finanzia il progetto giornalistico in questione con la bellezza di 492.989 euro. E che cosa fa con questi soldi il progetto europeo? Beh, tra le altre cose finanzia inchieste che sono presentate come giornalismo investigativo. Una di queste è stata realizzata da Alice Dominese, la cui biografia online descrive come «laureata in Scienze politiche e relazioni internazionali tra Italia e Francia, con un master in giornalismo. Collabora con L’Espresso e Domani, e ha scritto per La Stampa, Il Manifesto e The Post Internazionale, tra gli altri. Si occupa principalmente di diritti, migrazione e tematiche di genere».
La sua indagine, facilmente rintracciabile online, è intitolata Sottotraccia ed è dedicata ai temibili movimenti pro vita. «Questo articolo», si legge nella presentazione, «è il frutto di una delle due inchieste finanziate in Italia dal grant del progetto europeo S-info, cofinanziato dalla Commissione europea. La pubblicazione originale si trova sul sito ufficiale del progetto. In questa inchiesta, interviste e analisi di documenti ottenuti tramite una richiesta di accesso agli atti esplorano il rapporto tra movimento antiabortista, sanità e servizi pubblici in Piemonte. Le informazioni raccolte fanno luce sull’uso che le associazioni pro vita fanno dei finanziamenti regionali e sul ruolo della Stanza dell’ascolto, il presidio che ha permesso a queste associazioni di inserirsi nel primo ospedale per numero di interruzioni volontarie di gravidanza in Italia».
Niente in contrario ai finanziamenti pubblici, per carità. Ma guarda caso questi soldi finiscono a giornalisti decisamente sinistrorsi che, pronti via, se la prendono con i movimenti per la vita. Non stupisce, dopo tutto i partner italiani del progetto S-info sono Globalproject.info, Melting pot Europa e Sherwood.it, tutti punti di riferimento mediatici della sinistra antagonista.
Proprio Radio Sherwood, lo scorso giugno, ha organizzato a Padova il S-info day, durante il quale è stato presentato il manifesto per il giornalismo sostenibile. Evento clou della giornata un dibattito intitolato «Sovvertire le narrazioni di genere». Partecipanti: «L’attivista transfemminista Elena Cecchettin e la giornalista Giulia Siviero, moderato da Anna Irma Battino di Global project». La discussione si è concentrata «su come le narrazioni di genere, troppo spesso costruite attorno a stereotipi o plasmate da dinamiche di potere, possano essere decostruite e trasformate attraverso un giornalismo più consapevole, posizionato e inclusivo». Tutto meraviglioso: la Commissione europea combatte la disinformazione finanziando incontri sulla decostruzione del genere e inchieste contro i pro vita. Alla faccia della libera informazione.
«Da Bruxelles», ha dichiarato Maurizio Marrone, assessore piemontese alle Politiche sociali, «arriva una palese ingerenza estera per screditare azioni deliberate dal governo regionale eletto dai piemontesi, peraltro con allarmismi propagandistici smentiti dalla realtà. Il nostro fondo Vita nascente finanzia sì anzitutto i progetti dei centri di aiuto alla vita a sostegno delle madri in difficoltà, ma eroga contributi anche ai servizi di assistenza pubblica per le medesime finalità, partendo dall’accompagnamento nei parti in anonimato. Ci troviamo di fronte a un grave precedente, irrispettoso delle autonomie locali italiane e della loro sovranità».
Carlo Fidanza, capodelegazione europeo di Fdi, annuncia invece che presenterà «un’interrogazione parlamentare alla Commissione europea per far luce sui finanziamenti dell’agenzia Eacea a questi attacchi mediatici creati a tavolino per alimentare odio ideologico contro il volontariato pro vita. L’Unione europea dovrebbe sostenere le politiche delle Regioni italiane, non alimentare con soldi pubblici la macchina del fango contro le loro iniziative non omologate al pensiero unico woke».
Insomma, a Bruxelles piace il giornalismo libero. A patto che sia pagato dai contribuenti per prendersela con i nemici ideologici.
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Lo stand della casa editrice Passaggio al bosco a «Più libri più liberi» (Ansa)
Basta guardare la folla che si presenta e, con un pizzico di curiosità, guarda i titoli di questa casa editrice. Titoli che si sono esauriti in pochissimo tempo. La rivoluzione conservatrice, un volume scritto da Armin Mohler, che racconta la storia intellettuale della Germania tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. «Abbiamo dovuto chiedere di portarci nuovi libri», spiegano dalla casa editrice, «perché ormai ne avevamo davvero pochi e alcuni titoli erano completamente esauriti». Oppure Psicopatologia del radical chic, che immaginiamo sia stato parecchio utile in questi giorni di polemica per comprendere come ragiona chi, in nome della libertà, vorrebbe la censura per gli altri. Oppure Coraggio. Manuale di guerriglia culturale. Una virtù, quella del coraggio appunto, che parrebbe mancare a chi, come ad esempio Alessandro Barbero, nel 2019 diceva: «Penso che l’antifascismo non passi necessariamente attraverso il proibire a una casa editrice di destra di avere uno stand». E che oggi invece sottoscrive appelli per boicottare una casa editrice di destra insieme a Zerocalcare, che ha deciso di non partecipare alla kermesse ma di continuare comunque a vendere i suoi libri (come si dice in romanesco pecunia non olet?). Corrado Augias, invece, è riuscito a fare di meglio. Ha scritto una lettera, a Repubblica ovviamente, in cui ha annunciato che non si sarebbe presentato in fiera, dove avrebbe dovuto parlare di Piero Gobetti. Una lettera piena di pathos, quasi che si trovasse al confino, in cui spiegava: «Io sono favorevole alla tolleranza, anzi la pratico - anche con gli intolleranti per scelta, per età, per temperamento. C’è però una distinzione. Un conto sono gli intolleranti un altro, ben diverso, chi si fa partecipe cioè complice delle idee di un regime criminale come il nazismo». Perché si inizia sempre così: sono tollerante, ma fino a un certo punto. Anzi: fino al «però». Fino a dove ci sono quelli che Augias definisce nazisti, anche se in realtà non lo sono.
Dallo stand di Passaggio al bosco, come dicevamo, stanno passando tutti. Alcuni chiedono di parlare con l’editore, Marco Scatarzi, dicendo di condividere poco o nulla di ciò che stampa, ma esprimendo comunque solidarietà nei suoi confronti. Ci sono anche scolaresche che si fermano e pongono domande su quei libri «proibiti». Anche Anna Paola Concia, che certamente non può essere considerata una pericolosa reazionaria, è andata a visitare lo stand esprimendo vicinanza a Passaggio al bosco. Il mondo al contrario, appunto. O solamente un mondo in cui c’è un po’ di buonsenso. Quello che ti fa dire che chiunque può pubblicare qualsiasi testo purché non sia contrario alla legge.
C’è chi, però, continua a non accettare la presenza della casa editrice. Nel pomeriggio di ieri, per esempio, un gruppo di femministe ha prima urlato «siamo tutte antifasciste» e poi ha lanciato un volantino in cui si dà la colpa al capitalismo, che insieme al nazismo è ovunque, se Passaggio al bosco è lì. Oggi, inoltre, una ventina di case editrici ha deciso di coprire, per una mezz’ora di protesta, i propri libri. «Questo è ciò che è accaduto alla libertà di stampa e di pensiero quando i fascisti e i nazisti hanno messo in pratica la loro libertà di espressione. Vogliamo una Più libri più liberi antifascista».
Per una strana eterogenesi dei fini, gli stand delle case editrici più agguerrite contro Passaggio al bosco, tra cui per esempio Red Star, sono vuoti. Pochi visitatori spaesati si aggirano tra i libri su Lenin e quelli su Stalin. Un fantasma si aggira per gli stand: ed è quello degli antifa.
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