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2021-08-08
Speranza non dà i verbali del vertice con le Regioni all’inizio della pandemia
Roberto Speranza (Ansa)
A distanza di oltre un anno e mezzo, restano ancora coni d'ombra sulla gestione italiana della pandemia. Infatti, benché lo scorso 8 giugno i verbali della task force istituita dal ministro della Salute Roberto Speranza siano stati resi noti - sia pure obtorto collo, dopo richieste e addirittura ricorsi alla magistratura -, ci son ancora aspetti ed eventi opachi, tutti da chiarire. Peccato che, da Roma, la volontà di collaborare pare sia assai scarsa; ma andiamo con ordine.
Due mesi fa esatti, come si ricordava, son stati resi pubblici i verbali della task force relativi alle sedute avvenute tra il 22 gennaio e il 21 febbraio 2020. Quei verbali non dicono però tutto dell'attività di quei giorni, in cui veniva programmata la risposta dell'Italia al Covid. Sappiamo infatti che sabato 25 gennaio 2020, parallelamente all'incontro con la task force, se n'è tenuto un secondo tra il ministro Speranza e le regioni. Il contenuto di quella riunione, però, è tutt'ora oscuro: come se non fosse mai esistita.
Prova ne sia che, per averne notizie, sono state inoltrate a Roma ben due richieste di accesso agli atti: una da parte di Consuelo Locati, avvocato che nei processi di Bergamo e Roma guida il team dei legali di 520 familiari delle vittime del Covid, l'altra da Marco Lisei, capogruppo di Fratelli d'Italia nel Consiglio regionale dell'Emilia Romagna. Ebbene, nonostante il duplice sollecito, la risposta ministeriale è stata a dir poco scarna. Ci si è infatti limitati a fornire ai richiedenti informazioni sulla lista dei presenti e un comunicato stampa in cui si riferisce di «un incontro con i rappresentanti delle Regioni al fine di gestire il coordinamento sul territorio delle disposizioni adottate in questi giorni e la comunicazione dell'evolversi della situazione».
Un bel giro di parole che però dice nulla. Il quesito perciò resta: che cosa si son detti Speranza e i rappresentanti delle Regioni quel 25 gennaio 2020? L'interrogativo non è banale per più ragioni. In primo luogo perché, come rimarcava L'Eco di Bergamo del 9 luglio scorso, «in Procura, dov'è aperta un'inchiesta sulla pandemia, non risultano incontri segreti tra governo e Regioni» in data 25 gennaio. In seconda battuta, va evidenziato come quell'incontro sia avvenuto tra due date assai significative rispetto a come, in Italia, furono gestite le fasi iniziali della pandemia.
Infatti, il 22 gennaio, a seguito di una riunione con la task force, si erano date indicazioni precise sull'individuazione dei casi sospetti di Covid, precisando che il paziente con sintomi riconducibili al noto virus dovesse essere tenuto sotto controllo indipendentemente da un suo collegamento con Wuhan, città da dove tutto è iniziato. Invece alcuni giorni dopo, il 27 gennaio, il Ministero ha diramato indicazioni che, nella definizione dei casi sospetti, includessero un preciso legame con la Cina, allargando così parecchio le maglie del monitoraggio.
Ebbene, è plausibile che tale cambio di rotta - che non può non aver avuto conseguenze nelle fasi iniziali della pandemia, almeno per l'Italia - sia maturato in seno alla riunione del 25 gennaio, incontro sul contenuto del quale, ad oggi, non si sa ancora nulla. «Se il verbale di quella riunione non esistesse», ha spiegato alla Verità l'avvocato Locati, «saremmo in presenza di una violazione del diritto amministrativo, che impone che, entro 30 giorni da un incontro, se ne redigano gli atti». «Tuttavia, resta naturalmente possibile che quel verbale ci sia», ha aggiunto la legale, «e proprio per questo abbiamo inoltrato una nuova richiesta al ministero, in modo che ci risponda chiaramente se quel documento esiste oppure no».
«Quella riunione del 25 gennaio è molto importante», sottolinea Galeazzo Bignami, parlamentare di Fratelli d'Italia che tanto si è speso proprio per portare alla luce i verbali della task force, «perché aiuta a capire come il governo sta affrontando, nel rapporto con le Regioni, le prime fasi della pandemia. Teniamo presente che non era stato ancora dichiarato lo stato d'emergenza». «Il fatto che non si vogliano divulgare i contenuti di quell'incontro», conclude Bignami, «dimostra che la trasparenza è - e resta - un grosso problema per il ministro Speranza».
In effetti, capire come si stesse muovendo il governo italiano in quei giorni di gennaio, ben lungi dall'essere una curiosità superflua, sarebbe fondamentale. Aiuterebbe in particolare a comprendere se, da parte del governo, ci furono scelte avventate o poco sensate, anche se basta ripensare al «siamo prontissimi» scandito da Giuseppe Conte il 27 gennaio 2020, ospite da Lilli Gruber, per farsi un'idea; e per immaginare che le resistenze ministeriali sui verbali del 25 gennaio, più che un tentativo di tutelare la privacy, possano essere un modo per coprire delle responsabilità.
In calo decessi e tasso di positività
Frenano i contagi da virus Sars-Cov2 in Italia e confermano il rallentamento nella curva registrato negli ultimi sette giorni, come si legge nel report diffuso venerdì dal ministero della Salute.
Ieri sono stati registrati 6.902 nuovi positivi al Covid-19 su 293.863 tamponi effettuati. Il tasso di positività si abbassa così al 2,3%, con una riduzione dello 0,3% rispetto al 2,7% di venerdì (6.599 positivi su 244.657 tamponi). In calo anche i decessi: 22 (sono 2 in meno rispetto ai 24 del giorno precedente). In lieve aumento la pressione sugli ospedali. In terapia intensiva ci sono 11 pazienti in più (erano + 7 venerdì) per un totale di 288 degenti. I ricoverati in area medica sono 2.533 (+84 contro i 40 del giorno prima). Sono invece 105.714 le persone in isolamento domiciliare. Non preoccupano questi dati Gianni Rezza, direttore generale Prevenzione del ministero della Salute. Secondo l'esperto, «i tassi d'occupazione di area medica e terapia intensiva» tendono «in qualche regione a un certo aumento, però per ora contenuto. Possiamo anche aspettarci ancora un certo aumento sia in area medica che in terapia intensiva - spiega Rezza - come conseguenza a medio termine dell'aumento dell'incidenza che c'è stato nelle scorse settimane, però siamo ben al di sotto della soglia critica». Continua a decrescere l'età mediana di chi contrae l'infezione, che questa settimana è a 27 anni. Mentre resta stabile l'età mediana al primo ricovero a 52 anni. Anche l'età mediana in terapia intensiva è stabile poco sopra i 60 anni. I deceduti hanno intorno agli 80 anni, ma l'età è molto variabile perché, fortunatamente, i decessi sono piuttosto limitati in questo momento. Sul fronte delle vaccinazioni anti-Covid, sono 2,26 milioni gli over 50 che non si sono ancora sottoposti alla prima dose, pari al 23,39%. Tra questi, gli ultra sessantenni a cui non è ancora stato inoculato il vaccino sono 1,2 milioni, pari al 16,05%, secondo il report settimanale della struttura commissariale all'emergenza guidata dal generale Francesco Figliuolo. Sono senza prima dose inoltre 657.727 over 70 (10,93%) e 298.591 persone con più di 80 anni (6,56%). Il problema è che «sono le persone in queste fasce d'età che, quando contraggono l'infezione, hanno un rischio più elevato di manifestare sintomatologia complicata», ha ricordato il presidente dell'Istituto superiore di sanità (Iss), Silvio Brusaferro, durante la conferenza stampa sui dati del monitoraggio Covid-19. In particolare, «i dati disponibili indicano che le persone che vanno in rianimazione per l'80-90% dei casi sono non vaccinate», ha dichiarato Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo). «E questa è una dimostrazione di quanto importante sia il vaccino», ha ricordato Anelli invitando gli italiani che non vogliono vaccinarsi «a fare una forte riflessione e a comprendere come queste malattie infettive richiedono a tutti noi un impegno importante, ovvero essere disponibili a vaccinarsi». Sono i più giovani a trainare le immunizzazioni. «La cosa che colpisce di più», ha rilevato Brusaferro, «è il fatto che le giovani generazioni stanno aderendo in maniera importante alla campagna vaccinale». Quasi un milione di under 19 (circa il 37%) è vaccinato con la prima dose. I dati sono in due nuove tabelle inserite per la prima volta nel report del governo. I numeri dicono che è vaccinato il 32,43% dei ragazzi tra 16 e 19 anni (753.068 su 2,3 milioni). Più della metà, il 54,27% ha fatto la prima dose (1,2 milioni) o la dose unica (63.950), mentre non ha fatto neanche una dose il 45,73%. Nella fascia 12-15 i vaccinati sono il 9,02%, ma il 23% ha già fatto la prima dose e il 76% è in attesa della prima inoculazione. Oltre il 60% dei 20-39 anni ha già ricevuto almeno una dose.
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Nell'incontro del 25 gennaio 2020 potrebbe essere stata decisa la modifica, introdotta due giorni dopo, dei criteri da adottare per i malati sospetti, che accelerò i contagi. Ma il dicastero impedisce di visionare gli atti.Il rapporto tra test e casi rilevati scende al 2,3% e le morti a 22. Lieve salita di ricoveri ordinari e in terapia intensiva. Gianni Rezza: «Siamo ben al di sotto della soglia critica».Lo speciale contiene due articoli.A distanza di oltre un anno e mezzo, restano ancora coni d'ombra sulla gestione italiana della pandemia. Infatti, benché lo scorso 8 giugno i verbali della task force istituita dal ministro della Salute Roberto Speranza siano stati resi noti - sia pure obtorto collo, dopo richieste e addirittura ricorsi alla magistratura -, ci son ancora aspetti ed eventi opachi, tutti da chiarire. Peccato che, da Roma, la volontà di collaborare pare sia assai scarsa; ma andiamo con ordine.Due mesi fa esatti, come si ricordava, son stati resi pubblici i verbali della task force relativi alle sedute avvenute tra il 22 gennaio e il 21 febbraio 2020. Quei verbali non dicono però tutto dell'attività di quei giorni, in cui veniva programmata la risposta dell'Italia al Covid. Sappiamo infatti che sabato 25 gennaio 2020, parallelamente all'incontro con la task force, se n'è tenuto un secondo tra il ministro Speranza e le regioni. Il contenuto di quella riunione, però, è tutt'ora oscuro: come se non fosse mai esistita.Prova ne sia che, per averne notizie, sono state inoltrate a Roma ben due richieste di accesso agli atti: una da parte di Consuelo Locati, avvocato che nei processi di Bergamo e Roma guida il team dei legali di 520 familiari delle vittime del Covid, l'altra da Marco Lisei, capogruppo di Fratelli d'Italia nel Consiglio regionale dell'Emilia Romagna. Ebbene, nonostante il duplice sollecito, la risposta ministeriale è stata a dir poco scarna. Ci si è infatti limitati a fornire ai richiedenti informazioni sulla lista dei presenti e un comunicato stampa in cui si riferisce di «un incontro con i rappresentanti delle Regioni al fine di gestire il coordinamento sul territorio delle disposizioni adottate in questi giorni e la comunicazione dell'evolversi della situazione».Un bel giro di parole che però dice nulla. Il quesito perciò resta: che cosa si son detti Speranza e i rappresentanti delle Regioni quel 25 gennaio 2020? L'interrogativo non è banale per più ragioni. In primo luogo perché, come rimarcava L'Eco di Bergamo del 9 luglio scorso, «in Procura, dov'è aperta un'inchiesta sulla pandemia, non risultano incontri segreti tra governo e Regioni» in data 25 gennaio. In seconda battuta, va evidenziato come quell'incontro sia avvenuto tra due date assai significative rispetto a come, in Italia, furono gestite le fasi iniziali della pandemia.Infatti, il 22 gennaio, a seguito di una riunione con la task force, si erano date indicazioni precise sull'individuazione dei casi sospetti di Covid, precisando che il paziente con sintomi riconducibili al noto virus dovesse essere tenuto sotto controllo indipendentemente da un suo collegamento con Wuhan, città da dove tutto è iniziato. Invece alcuni giorni dopo, il 27 gennaio, il Ministero ha diramato indicazioni che, nella definizione dei casi sospetti, includessero un preciso legame con la Cina, allargando così parecchio le maglie del monitoraggio.Ebbene, è plausibile che tale cambio di rotta - che non può non aver avuto conseguenze nelle fasi iniziali della pandemia, almeno per l'Italia - sia maturato in seno alla riunione del 25 gennaio, incontro sul contenuto del quale, ad oggi, non si sa ancora nulla. «Se il verbale di quella riunione non esistesse», ha spiegato alla Verità l'avvocato Locati, «saremmo in presenza di una violazione del diritto amministrativo, che impone che, entro 30 giorni da un incontro, se ne redigano gli atti». «Tuttavia, resta naturalmente possibile che quel verbale ci sia», ha aggiunto la legale, «e proprio per questo abbiamo inoltrato una nuova richiesta al ministero, in modo che ci risponda chiaramente se quel documento esiste oppure no».«Quella riunione del 25 gennaio è molto importante», sottolinea Galeazzo Bignami, parlamentare di Fratelli d'Italia che tanto si è speso proprio per portare alla luce i verbali della task force, «perché aiuta a capire come il governo sta affrontando, nel rapporto con le Regioni, le prime fasi della pandemia. Teniamo presente che non era stato ancora dichiarato lo stato d'emergenza». «Il fatto che non si vogliano divulgare i contenuti di quell'incontro», conclude Bignami, «dimostra che la trasparenza è - e resta - un grosso problema per il ministro Speranza». In effetti, capire come si stesse muovendo il governo italiano in quei giorni di gennaio, ben lungi dall'essere una curiosità superflua, sarebbe fondamentale. Aiuterebbe in particolare a comprendere se, da parte del governo, ci furono scelte avventate o poco sensate, anche se basta ripensare al «siamo prontissimi» scandito da Giuseppe Conte il 27 gennaio 2020, ospite da Lilli Gruber, per farsi un'idea; e per immaginare che le resistenze ministeriali sui verbali del 25 gennaio, più che un tentativo di tutelare la privacy, possano essere un modo per coprire delle responsabilità.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/speranza-verbali-vertice-regioni-pandemia-2654565620.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="in-calo-decessi-e-tasso-di-positivita" data-post-id="2654565620" data-published-at="1628376096" data-use-pagination="False"> In calo decessi e tasso di positività Frenano i contagi da virus Sars-Cov2 in Italia e confermano il rallentamento nella curva registrato negli ultimi sette giorni, come si legge nel report diffuso venerdì dal ministero della Salute. Ieri sono stati registrati 6.902 nuovi positivi al Covid-19 su 293.863 tamponi effettuati. Il tasso di positività si abbassa così al 2,3%, con una riduzione dello 0,3% rispetto al 2,7% di venerdì (6.599 positivi su 244.657 tamponi). In calo anche i decessi: 22 (sono 2 in meno rispetto ai 24 del giorno precedente). In lieve aumento la pressione sugli ospedali. In terapia intensiva ci sono 11 pazienti in più (erano + 7 venerdì) per un totale di 288 degenti. I ricoverati in area medica sono 2.533 (+84 contro i 40 del giorno prima). Sono invece 105.714 le persone in isolamento domiciliare. Non preoccupano questi dati Gianni Rezza, direttore generale Prevenzione del ministero della Salute. Secondo l'esperto, «i tassi d'occupazione di area medica e terapia intensiva» tendono «in qualche regione a un certo aumento, però per ora contenuto. Possiamo anche aspettarci ancora un certo aumento sia in area medica che in terapia intensiva - spiega Rezza - come conseguenza a medio termine dell'aumento dell'incidenza che c'è stato nelle scorse settimane, però siamo ben al di sotto della soglia critica». Continua a decrescere l'età mediana di chi contrae l'infezione, che questa settimana è a 27 anni. Mentre resta stabile l'età mediana al primo ricovero a 52 anni. Anche l'età mediana in terapia intensiva è stabile poco sopra i 60 anni. I deceduti hanno intorno agli 80 anni, ma l'età è molto variabile perché, fortunatamente, i decessi sono piuttosto limitati in questo momento. Sul fronte delle vaccinazioni anti-Covid, sono 2,26 milioni gli over 50 che non si sono ancora sottoposti alla prima dose, pari al 23,39%. Tra questi, gli ultra sessantenni a cui non è ancora stato inoculato il vaccino sono 1,2 milioni, pari al 16,05%, secondo il report settimanale della struttura commissariale all'emergenza guidata dal generale Francesco Figliuolo. Sono senza prima dose inoltre 657.727 over 70 (10,93%) e 298.591 persone con più di 80 anni (6,56%). Il problema è che «sono le persone in queste fasce d'età che, quando contraggono l'infezione, hanno un rischio più elevato di manifestare sintomatologia complicata», ha ricordato il presidente dell'Istituto superiore di sanità (Iss), Silvio Brusaferro, durante la conferenza stampa sui dati del monitoraggio Covid-19. In particolare, «i dati disponibili indicano che le persone che vanno in rianimazione per l'80-90% dei casi sono non vaccinate», ha dichiarato Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo). «E questa è una dimostrazione di quanto importante sia il vaccino», ha ricordato Anelli invitando gli italiani che non vogliono vaccinarsi «a fare una forte riflessione e a comprendere come queste malattie infettive richiedono a tutti noi un impegno importante, ovvero essere disponibili a vaccinarsi». Sono i più giovani a trainare le immunizzazioni. «La cosa che colpisce di più», ha rilevato Brusaferro, «è il fatto che le giovani generazioni stanno aderendo in maniera importante alla campagna vaccinale». Quasi un milione di under 19 (circa il 37%) è vaccinato con la prima dose. I dati sono in due nuove tabelle inserite per la prima volta nel report del governo. I numeri dicono che è vaccinato il 32,43% dei ragazzi tra 16 e 19 anni (753.068 su 2,3 milioni). Più della metà, il 54,27% ha fatto la prima dose (1,2 milioni) o la dose unica (63.950), mentre non ha fatto neanche una dose il 45,73%. Nella fascia 12-15 i vaccinati sono il 9,02%, ma il 23% ha già fatto la prima dose e il 76% è in attesa della prima inoculazione. Oltre il 60% dei 20-39 anni ha già ricevuto almeno una dose.
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Femminismo è il vezzoso nome dato alla misandria occidentale, e la misandria è stato il mezzo per distruggere nel giro di due generazioni l’invincibile società occidentale giudaico-cristiana: le donne sempre vittime, i maschi sempre carnefici e soprattutto nemici. La «vera donna» si sente sorella di sconosciute, incluse cantanti mediocri che guadagnano cifre astronomiche mostrando la biancheria intima o la sua assenza, ma non deve avere linee di collaborazione o anche solo umana simpatia con il marito o il compagno. Il femminismo occidentale non è difesa delle donne, è misandria, odio per gli uomini. Il femminismo misandrico è un movimento creato a tavolino, con lo scopo di distruggere la famiglia, che è un’unità affettivo/economica con una sua intrinseca potenza: rende le persone non isolate, e quindi meno malleabili, tali da avere la forza di opporsi al potere dello Stato o del parastato. Il secondo scopo è abbattere i salari buttando sul mercato milioni di lavoratrici. Il terzo scopo è annientare le aree di lavoro non tassabile. Le donne a casa loro fanno lavori non tassabili: cucire, cucinare, costruire giocattoli, creare tende e vestiario, fare conserve, allevare bambini. Ora il loro lavoro è sostituito da supermercati, orrendi cibi precotti, con tutti i danni dei cibi processati, vestiario «made in China» fatto da schiavi sottopagati e soprattutto educatrici e insegnanti.
A ogni interazione madre-figlio, il cervello del bambino piccolo crea miliardi di sinapsi. Ogni interazione con l’estranea cui è affidato mentre mamma si sta facendo sfruttare da qualcuno in un posto di lavoro - e deve farlo perché il salario di papà è troppo basso - fabbrica molte meno sinapsi. Per i bambini, essere affidati a estranei al di sotto dei tre anni è un danno neurobiologico. Chi nega questa affermazione sta mentendo. Il bambino impara la regolazione delle emozioni sulla madre, ma per poter completare questo processo la madre deve essere presente. Con l’estranea cui è stato affidato, il processo non può realizzarsi. Inoltre, per quell’estranea il bambino è lavoro. Ci sono persone che amano il loro lavoro, altre che lo detestano: nel caso delle educatrici, quello che è detestato è il bambino. Ogni tanto bisogna mettere le videocamere per scoprire bambini picchiati o umiliati. La madre lavoratrice deve occuparsi del lavoro e quando alla sera torna a casa stanca e nervosa deve occuparsi del bambino, che alla sera, dopo ore e ore con estranee, è stanco e nervoso. Il peso è micidiale.
Le donne non mettono più al mondo figli. Il femminismo misandrico è stato creato per abbattere la natalità. Quando il bambino è malato, la mamma non può stare con lui. La presenza della madre fabbrica endorfine che potenziano il sistema immunitario. La sua assenza fabbrica cortisolo, ormone da stress che abbatte il sistema immunitario. Per poter essere affidato alle estranee del nido, il bambino deve essere sottoposto a un esavalente che in molte altre nazioni è vietato. Il 70% delle morti improvvise in culla avviene nella settimana successiva all’iniezione dell’esavalente. Perché le madri possano serenamente lavorare è stato creato il latte in polvere, pessimo prodotto che sostituisce il cibo perfetto dal punto di vista nutrizionale e immunologico che è il latte materno. È statisticamente dimostrata la differenza cognitiva e la migliore salute dei bambini allattati al seno. Dopo i tre anni un bambino potrebbe restarsene benissimo a casa sua; se proprio lo si vuole mandare all’asilo, sarebbe meglio non superare le due ore al giorno. Quando ha sei anni, il bambino dovrebbe andare in una scuola quattro ore, dalle 8.30 alle 12.30. Se la classe è fatta da bambini in maggioranza sereni e tutti della stessa madrelingua, come negli anni Cinquanta, quattro ore sono sufficienti.
Il bambino, messo sotto stress dalla mancanza cronica della madre, consegnato allo Stato per un numero spaventoso di ore, diventa un perfetto recipiente per la propaganda.
Le femministe hanno conquistato il diritto al lavoro. Il lavoro è una maledizione biblica. Anche l’aborto è una maledizione biblica e pure di quello hanno conquistato il diritto. Nella Cappella Sistina, Michelangelo ha rappresentato il momento in cui il serpente corrompe Eva con la mela: il serpente ha un volto di donna. Un’ intuizione geniale. Le donne hanno meno testosterone: questo le rende più accoglienti, permette la maternità, ma le rende meno capaci di battersi. Noi siamo meno capaci di combattere, cediamo più facilmente alla propaganda. Il vittimismo isterico del femminismo misandrico è stata la tentazione con cui le donne hanno annientato la invincibile civiltà giudaico-cristiana. Abbiamo ancora una generazione, forse una e mezza. Creperemo di denatalità e scemenze: tra due generazioni al massimo saremo una repubblica islamica. Il potere è stato tolto al pater familias, che era sporco brutto e cattivo, ma era comunque uno cui di quella donna e quei bambini importava, ed è stato consegnato allo Stato, una macchina burocratica cieca e stolida. Lo Stato decide quanti vaccini un bambino deve fare, mentre gli Ordini dei medici applicano la legge Lorenzin radiando tutti coloro che si permettono di parlare della criticità di questi farmaci. Lo Stato decide cosa un bambino deve mangiare: le orrende mense scolastiche dove si mangia pessimo cibo statale sono obbligatorie. Digitate su Google le parole mensa scolastica e tossinfezioni alimentari e troverete dati interessanti. I dati che mancano sono i danni su danni sul lungo periodo degli oli di bassa qualità, della conserva di pomodoro comprata dove costava meno (spesso sono pomodori coltivati in Cina con fertilizzanti pessimi). Lo Stato decide come il bambino deve vivere e se la famiglia si permette di farlo vivere felice in un bosco, lo Stato interviene. Lo Stato decide cosa il bambino deve pensare, perché l’etica gliela insegnano i docenti, quasi sempre femmine, che sono impiegati statali che eseguono gli ordini, le circolari, fanno corsi di aggiornamento Lgbt e hanno criminalizzato i ragazzi non vaccinati per il Covid.
Grazie al femminismo misandrico, in Italia, la disparità tra padre e madre è clamorosa: i padri sono esseri inferiori. La donna ha potere di vita e morte sul concepito, un potere osceno e criminale. Si considera criminale un padre che ha picchiato suo figlio, ma non si considera criminale una donna che ha fatto macellare il suo bambino nel suo ventre. Il potere che ha creato il femminismo misandrico vuole gli aborti, li adora. Se hai abbandonato il cane sei un bastando, se hai fatto uccidere tuo figlio nel tuo ventre sei un’eroina della libertà. Per far uccidere il bambino nel suo ventre, la donna ha bisogno di un medico, che diventa quindi un medico che sopprime vite umane. Il feto è vivo ed è umano. Chi lo sopprime, sta sopprimendo vite umane. Se la donna vuole abortire, il padre non può opporsi. La donna può abortire, ma il padre non può rifiutarsi di pagare gli alimenti, deve assumersi la responsabilità economica fino alla maggiore età (e spesso oltre), eredità garantita al figlio, un terzo del patrimonio che deve essere accantonato. La donna può rendere suo figlio orfano di padre: può partorirlo, disconoscerlo e impedire che il padre lo riconosca. Il padre, per riconoscere il figlio, deve arruolare uno o più avvocati, pagarli e imbarcarsi in una guerra giudiziaria lunga e dall’esito incerto. Mentre le donne sono normalmente aggredite da immigrati islamici, l’invasione che sostituisce il deficit demografico dei bambini abortiti, al punto che non si possono più fare manifestazioni in piazza come quelle di Capodanno, quando l’uomo è bianco e occidentale, la parola della donna in tribunale vale più di quella dell’uomo.
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Roberto Speranza (Ansa)
Sull’edizione del 7 marzo del 2023, Francesco Borgonovo riportava un eloquente scambio di messaggi tra l’allora presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro, e il ministro Roberto Speranza, che si esprimeva così: «Dobbiamo chiudere le scuole. Ne sono sempre più convinto». Ma il giorno seguente Brusaferro notava: «Per chiusura scuola Cts critico». E il ministro incalzava: «Così ci mandate a sbattere». Dopo una serie di ulteriori scambi, Brusaferro cedeva: «Va bene. Domani bisognerà pensare a illustrare come il parere riporti principi ed elementi di letteratura e modellistica lasciando al Consiglio dei ministri le scelte». Tradotto: prima si prendeva la decisione, poi si trovava l’appiglio «scientifico».
L’audizione di Miozzo appare indubitabilmente sincera. L’esperto sottolinea il contesto emergenziale in cui agivano i commissari, mettendo in guardia dai «Soloni del senno di poi». Parla del Cts come punto di riferimento «mitologico», «di fatto chiamato a rispondere a qualsiasi tipo di richiesta e necessità» che «di sanitario avevano ben poco: la distanza tra i tavoli nei ristoranti, il numero di passeggeri all’interno di un autobus, la distanza tra i banchi di scuola». «Che ci azzeccavo io, medico esperto di emergenze internazionali, con la distanza degli ombrelloni al mare?», osserva. «Eppure dovevamo dare un’indicazione, che alla fine, in un modo o nell’altro, veniva fuori con l’intelligenza, con il buonsenso, con la lettura che di volta in volta si faceva del contesto nazionale e internazionale». Dato il vuoto decisionale, in buona sostanza, il Cts si è dovuto far carico di una serie di questioni lontane dalla sua competenza. E sbaglia, spiega Miozzo, chi ci ha visto un «generatore di norme, di leggi, di indirizzi e di potere decisionale, cosa che assolutamente non ha mai avuto»: «Quello che il Comitato elaborava come indicazioni tecnico-scientifiche era offerto al governo, che lo doveva tradurre in atti normativi». L’equivoco si verificò solo perché alcuni passaggi venivano copiati tali e quali nelle leggi.
Miozzo ribadisce a più riprese che il Cts forniva solo pareri sulla base di assunti scientifici necessariamente - visto il contesto - in divenire. La dinamica, però, appare chiaramente invertita: se un organo subisce pressioni politiche (fatto testimoniato sopra) e viene interpellato su questioni che esulano dalle proprie competenze, è perché esso viene usato per sottrarre decisioni politiche al dibattito democratico. Una strategia che non riguarda solo il Covid: in pandemia ha conosciuto il suo culmine, ma è iniziata ben prima e proseguita ben dopo: l’ideologia green ne è una dimostrazione plastica. E anche il prezzo di queste scelte scellerate, per usare le parole di Miozzo, lo abbiamo pagato e lo pagheremo ancora in futuro. Se si parla tanto di Covid, in fondo, è puramente per una questione di metodo.
Miozzo avanza almeno un’altra considerazione degna di nota quando spiega che il piano pandemico del 2006 era una «lettera morta negli archivi della nostra amministrazione». Nessuno lo conosceva, «non era mai stata fatta un’esercitazione e non era stato fatto l’acquisto di beni di pronto soccorso e di Dpi. Non c’era nulla». Una responsabilità che imputa ai ministri precedenti e non a Speranza. Ai fini del buon funzionamento della democrazia, è fondamentale stabilire le responsabilità: a tagliare i fondi alla sanità per un decennio, in nome di una presunta austerità espansiva richiesta dall’«Europa», sono stati governi sostenuti dalla sinistra che oggi bercia contro l’attuale esecutivo. Lo dicono i dati, lo raccontano le condizioni in cui ci siamo trovati ad affrontare la pandemia. Almeno e limitatamente all’impreparazione del piano pandemico, possiamo anche assolvere Speranza. Ma non possiamo assolvere il Partito democratico dall’aver ucciso la sanità italiana.
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A mettere nero su bianco qualche dato in grado di smontare le ultime illusioni sui vantaggi del motore a batteria, è l’Adiconsum che periodicamente fa un report sull’andamento delle tariffe di ricarica. Lo stato dell’infrastruttura è ancora carente. I punti di ricarica sono 70.272 di cui un 10% non è attivo. La maggioranza dei punti (53.000) è in corrente alternata (Ac) con potenza inferiore a 50 Kw mentre le ricariche ultra veloci sono meno di 5.000. Intraprendere un percorso in autostrada è da temerari: la copertura delle aree di servizio è ancora al 48% e ci sono solo 1.274 punti. Essere a secco di elettricità e beccare un paio di stazioni di servizio sprovviste di colonnine apre scenari da incubo. Quindi, nella pianificazione di un percorso, bisognerebbe anche avere contezza della distribuzione delle ricariche.
Ma veniamo ai costi. Il prezzo unico nazionale a novembre scorso era pari a 0,117 euro il Kwh, in aumento del 5% rispetto a ottobre 2025. I prezzi medi alla colonnina sono per la Ac (lenta e accelerata) di 0,63 euro al Kwh (in aumento di 1 centesimo rispetto a ottobre), per la veloce (Dc) di 0,75 euro /Kwh (+1 centesimo rispetto a ottobre) e per la ultra veloce (Hpc) di 0,76 euro/kwh (stazionario). Per le tariffe medie massime si arriva a 0,83 per ricariche Ac, 0,82 per la Dc e 1,01 per Hpc.
Il report di Adiconsum fa un confronto con i carburanti fossili e evidenza che la parità di costo con benzina e diesel si attesta mediamente tra 0,60 e 0,65 euro/kwh. Ma molte tariffe medie attuali, superano questa soglia di convenienza.
Inoltre esistono forti divergenze tra i prezzi minimi e massimi che nella ricarica ultra veloce possono arrivare fino a 1,01 euro /Kwh. L’associazione dei consumatori segnala tra le tariffe più convenienti per la Ac, Emobility (0,25 euro/Kwh) per la Dc, Evdc in roaming su Enel X Way (0,45 euro/Kwh) e per l’alta potenza, la Tesla Supercharger (0,32 euro/Kwh). La conclusione del report è che c’è un rincaro, anche se lieve delle ricariche più diffuse ovvero Ac e Dc e il consiglio dell’Adiconsum, è che a fronte dell’alta variabilità dei prezzi è fondamentale utilizzare le app dedicate per verificare quale operatore offre il prezzo più basso sulla singola colonnina.
Questo vuol dire che mentre all’estero, come ad esempio in Germania, si fa il pieno utilizzando semplicemente il bancomat o la carta di credito, come al self service dei distributori, in Italia bisogna scaricare una infinità di app, a seconda del fornitore o del gestore, con la complicazione delle informazioni di pagamento e della registrazione. Chi ha la ventura (o sventura) di aver scelto una full electric, deve fare la gimcana tra le varie app, studiando con la comparazione, la soluzione più vantaggiosa. Un bello stress.
Secondo i dati più recenti di Eurostat e Switcher.ie, mentre la media europea per un pieno si attesta intorno a 14 euro, in Italia la spesa media sale a circa 20,30 euro. Nel nostro Paese, come detto prima, la media di ricarica Ac è di 0,63 euro /Kwh, in Francia e Spagna si scende sotto gli 0,45-0,50 euro /Kwh. La ricarica ultra rapida che nelle nostre colonnine è di media 0,76 euro/Kwh con picchi sopra 1 euro, in Francia si mantiene mediamente intorno a 0,60 euro/Kwh. Il costo dell’energia all’ingrosso in Italia è tra i più alti d’Europa, inoltra l’Iva e le accise sull’energia elettrica ad uso di ricarica pubblica sono meno agevolate rispetto alla Francia dove l’Iva è al 5,5%. Inoltre l’Italia non prevede riduzioni degli oneri di sistema per le infrastrutture ad alta potenza.
C’è un altro elemento di divergenza tra l’Italia e il resto dell’Europa che non incentiva l’acquisto di un’auto elettrica, ed è la metodologia del pagamento. Il nostro Paese è il regno delle app e degli abbonamenti. La ricarica «spontanea» (senza registrazione) è rara e spesso molto costosa. In paesi come Olanda, Danimarca e Germania, il pieno è gestito più come un servizio di pubblica utilità «al volo». Con il regolamento europeo Afir, nel 2025 è diventato obbligatorio per le nuove colonnine fast permettere il pagamento con carta di credito/debito tramite Pos. In Nord Europa questa pratica è già la norma, riducendo la necessità di avere dieci app diverse sul telefono. Inoltre in Paesi tecnologicamente avanzati (Norvegia, Germania), è molto diffuso il sistema Plug & Charge: colleghi il cavo e l’auto comunica direttamente con la colonnina per il pagamento, senza bisogno di tessere o smartphone. In Italia, questa tecnologia è limitata quasi esclusivamente alla rete Tesla.
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