True
2019-04-08
La Francia punta sulla Libia perché teme di perdere l'Algeria. Rischio altra ondata di migranti
True
Ansa
All'origine delle manifestazioni degli algerini che, nelle ultime settimane sono scesi in piazza per chiedere più democrazia e un nuovo Stato, non ci sono solo i vent'anni di potere quasi assoluto di Abdelaziz Bouteflika. Le proteste di piazza sono il risultato di diversi fattori. Storici innanzitutto, ma anche sociali. Ad esempio, il diffuso disinteresse per la cosa pubblica, mostrato dagli algerini, ha favorito il progressivo aumento del potere di servizi segreti e forze occulte della società. La Verità ha intervistato diverse personalità legate all'Algeria. Giornalisti, filosofi, scrittori, come il celebre Boulem Sansal, che hanno condiviso le proprie aspettative e timori sugli sviluppi della situazione in questo Paese nordafricano, capace di influenzare tutta l'area mediterranea ma anche l'Europa. Se la Francia è il Paese che, per ragioni storiche e demografiche, guarda con più apprensione a quanto accade ad Algeri, anche l'Italia deve tenersi pronta ad ogni evenienza. L'attenzione del nostro Paese è massima, come ha confermato Matteo Salvini in una conferenza stampa dopo il meeting del G7 di Parigi, venerdì 5 aprile. Rispondendo a La Verità, il ministro dell'interno ha detto che sull'Algeria «siamo molto preoccupati da ogni possibile focolaio di tensione che possa prodursi sul fronte mediterraneo». Lo spettro di una crisi economica e umanitaria è sempre in agguato. Basti pensare che, secondo i dati ufficiali dell'Ons (Ufficio Nazionale di Statistica algerino, ndr) la disoccupazione era arrivata nel settembre 2018, all' 11,7%. Inoltre la Banca Mondiale prevede per il 2019 un rallentamento della crescita. Cifre che non lasciano ben sperare e che rischiano di trasformare l'Algeria in un Venezuela alle porte dell'Europa.
Lo «status quo» di comodo dentro e fuori il Paese
I cittadini del Paese nordafricano sono corresponsabili della sclerotizzazione del potere in Algeria. Lo spiega molto bene a La Verità, José Lenzini. Uno dei massimi conoscitori della vita e delle opere di Albert Camus, è un ex corrispondente di Le Monde. E' nato in Algeria due anni prima dell'indipendenza e vissuti nel Paese fino ai suoi vent'anni. Attualmente cura per la casa editrice francese «Editions de l'Aube» una collana dedicata alle voci del Mediterraneo. Secondo Lenzini «già dalla nascita del nuovo Stato indipendente, il potere ha confiscato la democrazia ai cittadini. Ma questa situazione veniva giustificata dal fatto che era “necessario" per uscire dal periodo coloniale». Era un male minore. «Gli algerini, a qualsiasi livello della società si sono abituati a lasciar perdere» spiega il giornalista. «Ognuno trovava un proprio tornaconto». Per spiegare meglio questo misto di rassegnazione e di noncuranza, Lenzini cita un semplice esempio. «Nel corso dei decenni, si è diffuso l'uso della parola “Maalich" che significa “non fa niente", “non importa". Tutti si adattavano alla situazione». I nodi sono venuti al pettine quando il prezzo del petrolio è crollato. Inoltre, a partire dal 1988, l'Algeria ha vissuto una guerra civile che è durata per circa dieci anni. «Una guerra - ricorda Lenzini - che ha provocato la morte di circa 150.000 persone. Un tributo di sangue altissimo, se si pensa che la guerra per l'indipendenza aveva fatto 300.000 vittime».
L'attaccamento al potere di una certa classe dirigente e militare, faceva comodo non solo all'interno del Paese. Anche altre nazioni ne hanno tratto vantaggi importanti. «Non bisogna dimenticare - sottolinea Lenzini - che l'Algeria rappresenta una barriera capace di contenere gli importanti flussi migratori sub sahariani. Se non ci fosse l'esercito algerino, avremmo un flusso di migranti superiore di cinque o sei volte rispetto all'attuale. Tra questi migranti ci sarebbero anche molti esponenti di Daesh». In questo senso ha fatto comodo a tutti lo status quo algerino. In ogni caso quello che è chiaro, secondo Lenzini è che nessuno, in Algeria ha saputo anticipare quanto sta accadendo in questi giorni. La scossa è arrivata dai giovani che rappresentano il 30% della popolazione. «I giovani credono più alle “storie" del “dramma" della rivoluzione o del colonialismo che appartengono al passato». Semplicemente spiega il giornalista «si sentono privati della libertà, in particolare di quella di espressione, ma anche e soprattutto del lavoro. E' anche per queste ragioni che si sono ingrossati i ranghi delle manifestazioni».
Molti algerini che vivono a Parigi potrebbero tornare in patria

È uno degli autori algerini francofoni più apprezzati all'estero. Boulem Sansal da anni denuncia la corruzione e la tirannia del potere che ha governato l'Algeria dall'indipendenza in poi. Per La Verità ha accettato di analizzare l'attualità algerina, tentando di tracciarne uno sviluppo.
Come ha reagito, apprendendo la notizia delle dimissioni di Abdelaziz Bouteflika?
«Con molta gioia. Ma la questione non è chiusa. Ora bisogna far cadere lo Stato Maggiore dell'Esercito e la direzione dei servizi segreti perché sono le due istituzioni che gestiscono il Paese. E' un sistema totalitario, corrotto. Questa operazione sarà estremamente più difficile».
Ma cosa potrebbe accadere ora ?
«L'Algeria potrebbe trovarsi a vivere una situazione catastrofica. Ad esempio, c'è il rischio di una guerra interna dell'Esercito stesso. Tra i militari c'è la "nuova guardia", che vuole vivere in uno Stato “normale". Sul fronte opposto, troviamo coloro che hanno interessi enormi de difendere. Interessi non solo algerini ma che sono legati ad altre paesi. Ad esempio l'Esercito algerino è un cliente importantissimo per l'industria degli armamenti di Russia e Cina. Questa contrapposizione potrebbe dare origine ad un colpo di Stato. In questo caso, ci ritroveremmo in una situazione simile a quella del 1988. Ma potrebbe anche succedere qualcosa di simile a ciò che è accaduto in Siria. El Assad ha creato una contro rivoluzione islamista. Nel 1988, in Algeria il potere è arrivato persino a liberare dal carcere dei casseurs. Gente che ha ricevuto il mandato di andare a inquinare le manifestazioni pacifiche dei giovani. La seconda tappa è stata di legalizzare l'azione per gli islamisti. Questi hanno approfittato del sostegno dei servizi segreti e di certe parti dello Stato Maggiore. Ne è seguita la guerra civile ma il potere è rimasto in sella e si è ricostituito in modo ancora più forte. Hanno fatto solo qualche piccola concessione superficiale. Durante questa guerra civile molti oppositori sono stati assassinati. Il potere è in grado di riproporre lo stesso scenario».
Gli algerini sono pronti, secondo lei a diventare i protagonisti del loro futuro nazionale?
«Credo che il nostro popolo non riesca fare il passo successivo. Questo perché non è in grado di individuare dei delegati che possano organizzare e partecipare a dei negoziati. Perché è chiaro che sia necessario negoziare. Bisogna che il popolo esprima un elite intelligente e competente. Tutto dipende dalla mobilitazione e determinazione dei cittadini tutti i giorni della settimana. Non solo il venerdì. Giornalisti; avvocati, studenti... Sarebbero in grado di tenere il livello della protesta elevato, sul lungo periodo?»
Se dal lato politico ci si trova in un impasse. Come va l'economia algerina?
«La situazione peggiora. Il potere ha gli strumenti per provocare delle penurie o ritardare il pagamento dei salari. Possono trasformare le rivendicazioni politiche in rivendicazioni sociali. Potremmo ritrovarci in una situazione simile a quella che sta vivendo il Venezuela».
Secondo lei come, Parigi si prepara al peggio?
«La Francia è molto preoccupata. Gli scenari possibili sono due. Se la situazione migliorasse, tornerebbe tutto a suo favore. Moltissimi algerini che vivono in Francia - non quelli che hanno la doppia nazionalità - potrebbero tornare in patria. Perché un buon governo potrebbe rilanciare davvero l'economia e questo permetterebbe di creare delle opportunità reali. Ma se, al contrario, le cose andassero male, questo potrebbe rappresentare un problema non indifferente per la Francia, perché i problemi algerini potrebbero essere “esportati" nelle comunità presenti in Francia. Inoltre Potrebbe esserci un'immigrazione "selvaggia". Tuttavia, penso che in un primo momento, gli algerini potrebbero dirigersi verso la Tunisia o il Marocco. Credo che però i due vicini nordafricani, ristabilirebbero i visti e i controlli alle frontiere. In seguito, questa emigrazione avrebbe un impatto su tutti i paesi mediterranei, Italia e Spagna incluse».
Se si realizzasse un quadro simile, che ruolo potrebbero giocare Italia e Spagna ?
«Gli interessi in Algeria di Spagna e Italia, sono numerosi. Le relazioni tra Algeri, Roma e Madrid sono amichevoli perché, nei confronti dell'Algeria, non hanno un passato difficile come quello francese. Potrebbero intervenire ma temo che, in questa fase, non abbiano i mezzi per per farlo. D'altra parte, quale potrebbe essere la loro controparte in Algeria? Potrebbero passare da una "diplomazia segreta"? Oppure dovrebbero avviare rapporti con i servizi segreti di Algeri? Credo di no, dato che questi ultimi sono nel mirino della popolazione perché hanno fatto del male a tanta gente. Gli algerini non vogliono più sentir parlare di questa organizzazione. Dopo sette settimane di manifestazioni, la popolazione algerina non è ancora riuscita ad esprimere un'elite in grado di negoziare. Tornando al paragone con il Venezuela, vediamo che lì c'è Guaidò che discute con gli Usa ed è sostenuto da una cinquantina di Paesi. In Algeria non c'è una personalità simile. Anche i partiti di opposizione subiscono una forma di rigetto da parte della popolazione».
Le donne algerine, un tassello essenziale per il futuro

Nella manifestazioni in Algeria, numerose donne hanno partecipato ai cortei. Il loro ruolo è essenziale in questa fase storica. Se il Paese dovesse riuscire a dirigersi verso la nascita di un vero regime democratico, le donne algerine correrebbero forse meno rischi di “regressione" della loro condizione, rispetto a quelle dei paesi che hanno vissuto delle primavere arabe. Ne è convinta Razika Adnani - scrittrice, filosofa e islamologa algerina residente in Francia - che, parlando con La Verità, sottolinea il cambiamento rispetto a ciò' che è accaduto in Tunisia, Egitto o Siria, dal 2011 in poi.
«Siamo nel 2019 e il punto di vista della popolazione, in particolare dei giovani, sugli integralisti islamici è mutato notevolmente, rispetto a prima delle primavere arabe. In molti si sono resi conto dell'estrema violenza di Daesh e non vogliono che questo accada anche in Algeria». Questo ha dei riflessi anche sulla condizione femminile perché si è visto come il califfato ha trattato le donne. La gente è più informata e si sa quello che è accaduto in altri paesi arabi. «Senza le donne, le manifestazioni di queste settimane non avrebbero avuto la stessa forza» spiega Razika Adnani «il ruolo della donna è molto importante in questo movimento e in Algeria». Questo spiega anche perché, secondo la scrittrice algerina, non si possa costruire «una nuova Algeria, moderna e democratica, senza che le donne abbiano un ruolo non secondario».
Per Adnani, «non deve ripetersi ciò che le donne algerine hanno vissuto prima e dopo l'indipendenza. Prima hanno partecipato attivamente alla lotta. Poi sono state relegate ad occuparsi della famiglia e del focolare». La strada da percorrere resta però lunga come lo hanno dimostrato alcuni episodi accaduti durante le manifestazioni della scorsa settimana. «Alcune donne - testimonia Adnani, che è tornata da Algeri pochi giorni fa - sono state aggredite da degli uomini che hanno strappato gli striscioni che queste portavano. Contenevano dei messaggi per l'uguaglianza tra l'uomo e la donna».
Secondo la filosofa algerina, «i tradizionalisti ci sono e ci saranno sempre. Ma ci sono anche tantissimi uomini e donne che si sono ribellati e che, sui social hanno detto no». Per Adnani è necessario però un coinvolgimento attivo di coloro che vogliono la democrazia. «Non si ottiene nulla senza la lotta pacifica. La lotta intellettuale, delle idee».
Verso una Cabilia autonoma?

Wikipedia
Tra le incognite del dopo Bouteflika figura anche la reazione della Cabilia, una regione ad est di Algeri che copre un territorio compreso tra il mediterraneo e la catena montuosa della Djurdjura. Quest’area è abitata da una popolazione di etnia berbera che parla una propria lingua e che vanta una storia millenaria. Nella storia recente dell’Algeria, questa regione ha rappresentato un focolaio di contestazioni al potere centrale. «Già nel 1962, dopo l’indipendenza, i cabili hanno animato la contestazione contro il governo di Algeri - spiega Mohamed Sadoun magistrato francese di origini algerine e autore di vari libri - poi il potere centrale ha promosso una campagna di arabizzazione della regione». Storicamente, in effetti l’Algeria come i suoi vicini del Maghreb, non sono Paesi di etnia e lingua araba. Se la religione musulmana è arrivata nel sesto secolo dopo Cristo, il Paese ha continuato in realtà a mantenere la propria lingua e la propria cultura. Poi sono arrivati i colonizzatori francesi che, spiega Sadoun «hanno cercato di legittimarsi come “successori” di Roma, presentando la presenza araba come una “parentesi” iniziata nel settimo secolo dopo Cristo». In seguito, continua Sadoun, «già negli anni ‘40 prima, dell’indipendenza, alcuni movimenti politici hanno cercato di inserire l’Algeria nella sfera mondo arabo, avvicinandola alle politiche di Damasco o de Il Cairo. Con l’indipendenza quindi, i Cabili si sono trovati automaticamente circoscritti in una minoranza». Le tensioni più forti con il potere di Algeri, si sono registrate all’inizio degli anni 2000. «Una contestazione, sedata nel sangue ha provocato la morte di 130 persone», ricorda Sadoun. «E proprio da quella occasione che il governo ha vietato le manifestazioni ad Algeri fino a “tollerare” quelle delle ultime settimane».
La situazione in Cabilia è seguita con molta attenzione anche dall’estero, in particolare dalla Francia. Anche in questo caso per ragioni storico-sociologiche. «La Cabilia è sempre stata molto povera - sottolinea Sadoun - per questo è diventata una terra di emigrazione. Molti dei suoi abitanti si sono diretti in Francia per lavorare nelle fabbriche transalpine. Questo ha creato delle comunità berbere sull’altra sponda del Mediterraneo». Se nella regione algerina si creassero delle tensioni, queste potrebbero avere degli effetti anche nelle periferie francesi.
C’è poi un’ulteriore specificità della Cabilia che vale la pena di considerare. In questa regione si sono registrate numerose conversioni al cristianesimo. Nel periodo coloniale, l’opera di evangelizzazione era svolta dai Padri Bianchi. Poi, negli anni 2000, sono arrivate le Chiese Evangeliche. Per fronteggiare questa penetrazione in terra musulmana, le autorità algerine hanno introdotto il reato di conversione dei musulmani ad altre religioni. E cosi, i protestanti di Algeria vivono con molte difficoltà la propria fede. «I cristiani cabili, restano una minoranza - precisa Sadoun - ma da questa comunità sono emerse delle figure importanti come i fratelli giornalisti e scrittori Marguerite-Taos e Jean Amrouche». Se la situazione in Algeria evolvesse verso la costituzione di una forma di governo realmente democratica, la Cabilia potrebbe diventare una regione autonoma. Anche se la questione anima i dibattiti nel Paese. «Non mancano tendenze autonomiste e indipendentiste - conclude Sadoun - ma altri pensano che tutto il Paese sia berbero quindi non avrebbe senso separare la regione dall’Algeria. Del resto, per le strade di Algeri si vedono spesso sventolare bandiere Algerine accanto a quelle berbere. Un segno degli intrecci che esistono tra queste due anime del Paese».
Continua a leggereRiduci
Il ministro dell'Interno Matteo Salvini ha detto che sull'Algeria «siamo molto preoccupati da ogni possibile focolaio di tensione che possa prodursi sul fronte mediterraneo». I nodi sono venuti al pettine quando il prezzo del petrolio è crollato. Inoltre, a partire dal 1988, l'Algeria ha vissuto una guerra civile che è durata per circa dieci anni. In Venezuela Juan Guaidò discute con gli Usa ed è sostenuto da una cinquantina di Paesi. Ad Algeri non c'è una personalità simile. Anche i partiti di opposizione subiscono una forma di rigetto da parte della popolazione. Tra le incognite del dopo Abdelaziz Bouteflika figura anche la reazione della Cabilia, una regione ad est di Algeri che copre un territorio compreso tra il mediterraneo e la catena montuosa della Djurdjura Lo speciale contiene cinque articoli. All'origine delle manifestazioni degli algerini che, nelle ultime settimane sono scesi in piazza per chiedere più democrazia e un nuovo Stato, non ci sono solo i vent'anni di potere quasi assoluto di Abdelaziz Bouteflika. Le proteste di piazza sono il risultato di diversi fattori. Storici innanzitutto, ma anche sociali. Ad esempio, il diffuso disinteresse per la cosa pubblica, mostrato dagli algerini, ha favorito il progressivo aumento del potere di servizi segreti e forze occulte della società. La Verità ha intervistato diverse personalità legate all'Algeria. Giornalisti, filosofi, scrittori, come il celebre Boulem Sansal, che hanno condiviso le proprie aspettative e timori sugli sviluppi della situazione in questo Paese nordafricano, capace di influenzare tutta l'area mediterranea ma anche l'Europa. Se la Francia è il Paese che, per ragioni storiche e demografiche, guarda con più apprensione a quanto accade ad Algeri, anche l'Italia deve tenersi pronta ad ogni evenienza. L'attenzione del nostro Paese è massima, come ha confermato Matteo Salvini in una conferenza stampa dopo il meeting del G7 di Parigi, venerdì 5 aprile. Rispondendo a La Verità, il ministro dell'interno ha detto che sull'Algeria «siamo molto preoccupati da ogni possibile focolaio di tensione che possa prodursi sul fronte mediterraneo». Lo spettro di una crisi economica e umanitaria è sempre in agguato. Basti pensare che, secondo i dati ufficiali dell'Ons (Ufficio Nazionale di Statistica algerino, ndr) la disoccupazione era arrivata nel settembre 2018, all' 11,7%. Inoltre la Banca Mondiale prevede per il 2019 un rallentamento della crescita. Cifre che non lasciano ben sperare e che rischiano di trasformare l'Algeria in un Venezuela alle porte dell'Europa. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/speciale-ghisalberti-2634019642.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="lo-status-quo-di-comodo-dentro-e-fuori-il-paese" data-post-id="2634019642" data-published-at="1765538940" data-use-pagination="False"> Lo «status quo» di comodo dentro e fuori il Paese I cittadini del Paese nordafricano sono corresponsabili della sclerotizzazione del potere in Algeria. Lo spiega molto bene a La Verità, José Lenzini. Uno dei massimi conoscitori della vita e delle opere di Albert Camus, è un ex corrispondente di Le Monde. E' nato in Algeria due anni prima dell'indipendenza e vissuti nel Paese fino ai suoi vent'anni. Attualmente cura per la casa editrice francese «Editions de l'Aube» una collana dedicata alle voci del Mediterraneo. Secondo Lenzini «già dalla nascita del nuovo Stato indipendente, il potere ha confiscato la democrazia ai cittadini. Ma questa situazione veniva giustificata dal fatto che era “necessario" per uscire dal periodo coloniale». Era un male minore. «Gli algerini, a qualsiasi livello della società si sono abituati a lasciar perdere» spiega il giornalista. «Ognuno trovava un proprio tornaconto». Per spiegare meglio questo misto di rassegnazione e di noncuranza, Lenzini cita un semplice esempio. «Nel corso dei decenni, si è diffuso l'uso della parola “Maalich" che significa “non fa niente", “non importa". Tutti si adattavano alla situazione». I nodi sono venuti al pettine quando il prezzo del petrolio è crollato. Inoltre, a partire dal 1988, l'Algeria ha vissuto una guerra civile che è durata per circa dieci anni. «Una guerra - ricorda Lenzini - che ha provocato la morte di circa 150.000 persone. Un tributo di sangue altissimo, se si pensa che la guerra per l'indipendenza aveva fatto 300.000 vittime».L'attaccamento al potere di una certa classe dirigente e militare, faceva comodo non solo all'interno del Paese. Anche altre nazioni ne hanno tratto vantaggi importanti. «Non bisogna dimenticare - sottolinea Lenzini - che l'Algeria rappresenta una barriera capace di contenere gli importanti flussi migratori sub sahariani. Se non ci fosse l'esercito algerino, avremmo un flusso di migranti superiore di cinque o sei volte rispetto all'attuale. Tra questi migranti ci sarebbero anche molti esponenti di Daesh». In questo senso ha fatto comodo a tutti lo status quo algerino. In ogni caso quello che è chiaro, secondo Lenzini è che nessuno, in Algeria ha saputo anticipare quanto sta accadendo in questi giorni. La scossa è arrivata dai giovani che rappresentano il 30% della popolazione. «I giovani credono più alle “storie" del “dramma" della rivoluzione o del colonialismo che appartengono al passato». Semplicemente spiega il giornalista «si sentono privati della libertà, in particolare di quella di espressione, ma anche e soprattutto del lavoro. E' anche per queste ragioni che si sono ingrossati i ranghi delle manifestazioni». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/speciale-ghisalberti-2634019642.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="molti-algerini-che-vivono-a-parigi-potrebbero-tornare-in-patria" data-post-id="2634019642" data-published-at="1765538940" data-use-pagination="False"> Molti algerini che vivono a Parigi potrebbero tornare in patria È uno degli autori algerini francofoni più apprezzati all'estero. Boulem Sansal da anni denuncia la corruzione e la tirannia del potere che ha governato l'Algeria dall'indipendenza in poi. Per La Verità ha accettato di analizzare l'attualità algerina, tentando di tracciarne uno sviluppo.Come ha reagito, apprendendo la notizia delle dimissioni di Abdelaziz Bouteflika?«Con molta gioia. Ma la questione non è chiusa. Ora bisogna far cadere lo Stato Maggiore dell'Esercito e la direzione dei servizi segreti perché sono le due istituzioni che gestiscono il Paese. E' un sistema totalitario, corrotto. Questa operazione sarà estremamente più difficile».Ma cosa potrebbe accadere ora ?«L'Algeria potrebbe trovarsi a vivere una situazione catastrofica. Ad esempio, c'è il rischio di una guerra interna dell'Esercito stesso. Tra i militari c'è la "nuova guardia", che vuole vivere in uno Stato “normale". Sul fronte opposto, troviamo coloro che hanno interessi enormi de difendere. Interessi non solo algerini ma che sono legati ad altre paesi. Ad esempio l'Esercito algerino è un cliente importantissimo per l'industria degli armamenti di Russia e Cina. Questa contrapposizione potrebbe dare origine ad un colpo di Stato. In questo caso, ci ritroveremmo in una situazione simile a quella del 1988. Ma potrebbe anche succedere qualcosa di simile a ciò che è accaduto in Siria. El Assad ha creato una contro rivoluzione islamista. Nel 1988, in Algeria il potere è arrivato persino a liberare dal carcere dei casseurs. Gente che ha ricevuto il mandato di andare a inquinare le manifestazioni pacifiche dei giovani. La seconda tappa è stata di legalizzare l'azione per gli islamisti. Questi hanno approfittato del sostegno dei servizi segreti e di certe parti dello Stato Maggiore. Ne è seguita la guerra civile ma il potere è rimasto in sella e si è ricostituito in modo ancora più forte. Hanno fatto solo qualche piccola concessione superficiale. Durante questa guerra civile molti oppositori sono stati assassinati. Il potere è in grado di riproporre lo stesso scenario».Gli algerini sono pronti, secondo lei a diventare i protagonisti del loro futuro nazionale?«Credo che il nostro popolo non riesca fare il passo successivo. Questo perché non è in grado di individuare dei delegati che possano organizzare e partecipare a dei negoziati. Perché è chiaro che sia necessario negoziare. Bisogna che il popolo esprima un elite intelligente e competente. Tutto dipende dalla mobilitazione e determinazione dei cittadini tutti i giorni della settimana. Non solo il venerdì. Giornalisti; avvocati, studenti... Sarebbero in grado di tenere il livello della protesta elevato, sul lungo periodo?»Se dal lato politico ci si trova in un impasse. Come va l'economia algerina?«La situazione peggiora. Il potere ha gli strumenti per provocare delle penurie o ritardare il pagamento dei salari. Possono trasformare le rivendicazioni politiche in rivendicazioni sociali. Potremmo ritrovarci in una situazione simile a quella che sta vivendo il Venezuela». Secondo lei come, Parigi si prepara al peggio?«La Francia è molto preoccupata. Gli scenari possibili sono due. Se la situazione migliorasse, tornerebbe tutto a suo favore. Moltissimi algerini che vivono in Francia - non quelli che hanno la doppia nazionalità - potrebbero tornare in patria. Perché un buon governo potrebbe rilanciare davvero l'economia e questo permetterebbe di creare delle opportunità reali. Ma se, al contrario, le cose andassero male, questo potrebbe rappresentare un problema non indifferente per la Francia, perché i problemi algerini potrebbero essere “esportati" nelle comunità presenti in Francia. Inoltre Potrebbe esserci un'immigrazione "selvaggia". Tuttavia, penso che in un primo momento, gli algerini potrebbero dirigersi verso la Tunisia o il Marocco. Credo che però i due vicini nordafricani, ristabilirebbero i visti e i controlli alle frontiere. In seguito, questa emigrazione avrebbe un impatto su tutti i paesi mediterranei, Italia e Spagna incluse».Se si realizzasse un quadro simile, che ruolo potrebbero giocare Italia e Spagna ?«Gli interessi in Algeria di Spagna e Italia, sono numerosi. Le relazioni tra Algeri, Roma e Madrid sono amichevoli perché, nei confronti dell'Algeria, non hanno un passato difficile come quello francese. Potrebbero intervenire ma temo che, in questa fase, non abbiano i mezzi per per farlo. D'altra parte, quale potrebbe essere la loro controparte in Algeria? Potrebbero passare da una "diplomazia segreta"? Oppure dovrebbero avviare rapporti con i servizi segreti di Algeri? Credo di no, dato che questi ultimi sono nel mirino della popolazione perché hanno fatto del male a tanta gente. Gli algerini non vogliono più sentir parlare di questa organizzazione. Dopo sette settimane di manifestazioni, la popolazione algerina non è ancora riuscita ad esprimere un'elite in grado di negoziare. Tornando al paragone con il Venezuela, vediamo che lì c'è Guaidò che discute con gli Usa ed è sostenuto da una cinquantina di Paesi. In Algeria non c'è una personalità simile. Anche i partiti di opposizione subiscono una forma di rigetto da parte della popolazione». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/speciale-ghisalberti-2634019642.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="le-donne-algerine-un-tassello-essenziale-per-il-futuro" data-post-id="2634019642" data-published-at="1765538940" data-use-pagination="False"> Le donne algerine, un tassello essenziale per il futuro Nella manifestazioni in Algeria, numerose donne hanno partecipato ai cortei. Il loro ruolo è essenziale in questa fase storica. Se il Paese dovesse riuscire a dirigersi verso la nascita di un vero regime democratico, le donne algerine correrebbero forse meno rischi di “regressione" della loro condizione, rispetto a quelle dei paesi che hanno vissuto delle primavere arabe. Ne è convinta Razika Adnani - scrittrice, filosofa e islamologa algerina residente in Francia - che, parlando con La Verità, sottolinea il cambiamento rispetto a ciò' che è accaduto in Tunisia, Egitto o Siria, dal 2011 in poi. «Siamo nel 2019 e il punto di vista della popolazione, in particolare dei giovani, sugli integralisti islamici è mutato notevolmente, rispetto a prima delle primavere arabe. In molti si sono resi conto dell'estrema violenza di Daesh e non vogliono che questo accada anche in Algeria». Questo ha dei riflessi anche sulla condizione femminile perché si è visto come il califfato ha trattato le donne. La gente è più informata e si sa quello che è accaduto in altri paesi arabi. «Senza le donne, le manifestazioni di queste settimane non avrebbero avuto la stessa forza» spiega Razika Adnani «il ruolo della donna è molto importante in questo movimento e in Algeria». Questo spiega anche perché, secondo la scrittrice algerina, non si possa costruire «una nuova Algeria, moderna e democratica, senza che le donne abbiano un ruolo non secondario». Per Adnani, «non deve ripetersi ciò che le donne algerine hanno vissuto prima e dopo l'indipendenza. Prima hanno partecipato attivamente alla lotta. Poi sono state relegate ad occuparsi della famiglia e del focolare». La strada da percorrere resta però lunga come lo hanno dimostrato alcuni episodi accaduti durante le manifestazioni della scorsa settimana. «Alcune donne - testimonia Adnani, che è tornata da Algeri pochi giorni fa - sono state aggredite da degli uomini che hanno strappato gli striscioni che queste portavano. Contenevano dei messaggi per l'uguaglianza tra l'uomo e la donna». Secondo la filosofa algerina, «i tradizionalisti ci sono e ci saranno sempre. Ma ci sono anche tantissimi uomini e donne che si sono ribellati e che, sui social hanno detto no». Per Adnani è necessario però un coinvolgimento attivo di coloro che vogliono la democrazia. «Non si ottiene nulla senza la lotta pacifica. La lotta intellettuale, delle idee». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem4" data-id="4" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/speciale-ghisalberti-2634019642.html?rebelltitem=4#rebelltitem4" data-basename="verso-una-cabilia-autonoma" data-post-id="2634019642" data-published-at="1765538940" data-use-pagination="False"> Verso una Cabilia autonoma? Wikipedia Tra le incognite del dopo Bouteflika figura anche la reazione della Cabilia, una regione ad est di Algeri che copre un territorio compreso tra il mediterraneo e la catena montuosa della Djurdjura. Quest’area è abitata da una popolazione di etnia berbera che parla una propria lingua e che vanta una storia millenaria. Nella storia recente dell’Algeria, questa regione ha rappresentato un focolaio di contestazioni al potere centrale. «Già nel 1962, dopo l’indipendenza, i cabili hanno animato la contestazione contro il governo di Algeri - spiega Mohamed Sadoun magistrato francese di origini algerine e autore di vari libri - poi il potere centrale ha promosso una campagna di arabizzazione della regione». Storicamente, in effetti l’Algeria come i suoi vicini del Maghreb, non sono Paesi di etnia e lingua araba. Se la religione musulmana è arrivata nel sesto secolo dopo Cristo, il Paese ha continuato in realtà a mantenere la propria lingua e la propria cultura. Poi sono arrivati i colonizzatori francesi che, spiega Sadoun «hanno cercato di legittimarsi come “successori” di Roma, presentando la presenza araba come una “parentesi” iniziata nel settimo secolo dopo Cristo». In seguito, continua Sadoun, «già negli anni ‘40 prima, dell’indipendenza, alcuni movimenti politici hanno cercato di inserire l’Algeria nella sfera mondo arabo, avvicinandola alle politiche di Damasco o de Il Cairo. Con l’indipendenza quindi, i Cabili si sono trovati automaticamente circoscritti in una minoranza». Le tensioni più forti con il potere di Algeri, si sono registrate all’inizio degli anni 2000. «Una contestazione, sedata nel sangue ha provocato la morte di 130 persone», ricorda Sadoun. «E proprio da quella occasione che il governo ha vietato le manifestazioni ad Algeri fino a “tollerare” quelle delle ultime settimane». La situazione in Cabilia è seguita con molta attenzione anche dall’estero, in particolare dalla Francia. Anche in questo caso per ragioni storico-sociologiche. «La Cabilia è sempre stata molto povera - sottolinea Sadoun - per questo è diventata una terra di emigrazione. Molti dei suoi abitanti si sono diretti in Francia per lavorare nelle fabbriche transalpine. Questo ha creato delle comunità berbere sull’altra sponda del Mediterraneo». Se nella regione algerina si creassero delle tensioni, queste potrebbero avere degli effetti anche nelle periferie francesi. C’è poi un’ulteriore specificità della Cabilia che vale la pena di considerare. In questa regione si sono registrate numerose conversioni al cristianesimo. Nel periodo coloniale, l’opera di evangelizzazione era svolta dai Padri Bianchi. Poi, negli anni 2000, sono arrivate le Chiese Evangeliche. Per fronteggiare questa penetrazione in terra musulmana, le autorità algerine hanno introdotto il reato di conversione dei musulmani ad altre religioni. E cosi, i protestanti di Algeria vivono con molte difficoltà la propria fede. «I cristiani cabili, restano una minoranza - precisa Sadoun - ma da questa comunità sono emerse delle figure importanti come i fratelli giornalisti e scrittori Marguerite-Taos e Jean Amrouche». Se la situazione in Algeria evolvesse verso la costituzione di una forma di governo realmente democratica, la Cabilia potrebbe diventare una regione autonoma. Anche se la questione anima i dibattiti nel Paese. «Non mancano tendenze autonomiste e indipendentiste - conclude Sadoun - ma altri pensano che tutto il Paese sia berbero quindi non avrebbe senso separare la regione dall’Algeria. Del resto, per le strade di Algeri si vedono spesso sventolare bandiere Algerine accanto a quelle berbere. Un segno degli intrecci che esistono tra queste due anime del Paese».
Pier Silvio Berlusconi (Getty Images)
Forza Italia, poi, è un altro argomento centrale ed è anche l’occasione per ribadire un concetto che negli ultimi mesi aveva già espresso: «Il mio pensiero non cambia, c’è la necessità di un rinnovamento nella classe dirigente del partito». Esprime gratitudine per il lavoro svolto dal segretario nazionale, Antonio Tajani, e da tutta la squadra di Forza Italia che «ha tenuto in piedi il partito dopo la scomparsa di mio padre, cosa tutt’altro che facile». Ma confessa che per il futuro del partito «servirebbero facce nuove, idee nuove e un programma rinnovato, che non metta in discussione i valori fondanti di Forza Italia, che sono i valori fondanti del pensiero e dell'agire politico di Silvio Berlusconi, ma valori che devono essere portati a ciò che è oggi la realtà». E fa una premessa insolita: «Non mi occupo di politica, ma chi fa l’imprenditore non può essere distante dalla politica. Che io e Marina ci si appassioni al destino di Forza Italia, siamo onesti, è naturale. Tra i lasciti di mio padre tra i più grandi, se non il più grande, c’è Forza Italia». Tajani è d’accordo e legge nelle parole di Berlusconi «sollecitazioni positive, in perfetta sintonia sulla necessità del rinnovamento e di guardare al futuro, che poi è quello che stiamo già facendo».
In qualità di esperto di comunicazione, l’ad di Mediaset, traccia anche il punto della situazione sullo stato di salute dell’editoria italiana, toccando i tasti dolenti delle paventate vendite di Stampa e Repubblica, appartenenti al gruppo Gedi. La trattativa tra Gedi e il gruppo greco AntennaUno, guidato dall’armatore Theodore Kyriakou, scatena l’agitazione dei giornalisti. «Il libero mercato è sovrano, ma è un dispiacere vedere un prodotto italiano andare in mano straniera». Pier Silvio Berlusconi elogia, invece, Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport: «Cairo è un editore puro, ormai l’unico in Italia, e ha fatto un lavoro eccellente: Corriere e Gazzetta hanno un’anima coerente con la loro storia».
Una stoccata sulla patrimoniale: «Non la ritengo sbagliata, ma la parola patrimoniale, secondo me, non va bene. Così com’era sbagliatissima l’espressione “extra profitti”, cosa vuol dire extra? Non vuol dire niente e mi sembra onestamente fuori posto che in certi momenti storici dell’economia di particolare fragilità, ci possano essere delle imposte una tantum che vengono legate a livello di profitto delle aziende».
Un tema di stretta attualità, specialmente dopo le dichiarazioni di Donald Trump, è il ruolo dell’Europa nel mondo. «Di sicuro ciò che è stato fatto fino a oggi non è sufficiente, ma l’Europa deve riuscire a esistere, ad agire e a difendersi. Di questo sono certo. Prima di tutto da cittadino italiano ed europeo e ancor di più da imprenditore italiano ed europeo».
Quanto al controllo del gruppo televisivo tedesco ProSieben, Pier Silvio Berlusconi assicura che «in Germania faremo il possibile per mantenere l’occupazione del gruppo così com’è, al momento non c’è nessun piano di licenziamento». Ora Mfe guarda alla Francia? «Lì ci sono realtà consolidate private come Tf1 e M6: entrare in Francia sarebbe un sogno, ma al momento non vedo spiragli».
Continua a leggereRiduci
Il primo ministro bulgaro Rosen Zhelyazkov (Ansa)
Il governo svolgerà le sue funzioni fino all’elezione del nuovo consiglio dei ministri. «Sentiamo la voce dei cittadini che protestano […] Giovani e anziani, persone di diverse etnie, di diverse religioni, hanno votato per le dimissioni», ha dichiarato Zhelyazkov. Anche gli studenti si erano uniti nell’ultima protesta antigovernativa di mercoledì, a Sofia e in altre città bulgare, contro la proposta di bilancio del governo per il 2026, la prima in euro. La prima proposta senza il coordinamento con le parti sociali e la prima a prevedere un aumento delle tasse e dei contributi previdenziali.
All’insegna del motto «Non ci lasceremo ingannare. Non ci lasceremo derubare», migliaia di dimostranti «portavano lanterne come segno simbolico per mettere in luce la mafia e la corruzione nel Paese», riferiva l’emittente nazionale Bnt. Chiedevano le dimissioni dell’oligarca Delyan Peevski e dell’ex primo ministro Boyko Borissov, sanzionato dagli Stati Uniti e dal Regno Unito per presunta corruzione. Borissov mercoledì avrebbe dichiarato che i partiti della coalizione avevano concordato di rimanere al potere fino all’adesione della Bulgaria all’eurozona, il prossimo 1° gennaio.
Secondo Zhelyazkov, si trattava di una protesta «per i valori e il comportamento» e ha dichiarato che il governo è nato da una complessa coalizione tra partiti (i socialisti del Bsp e i populisti di Itn), diversi per natura politica, storia ed essenza, «ma uniti attorno all’obiettivo e al desiderio che la Bulgaria prosegua il suo percorso di sviluppo europeo». Mario Bikarski, analista senior per l’Europa presso la società di intelligence sui rischi Verisk Maplecroft, aveva affermato che le turbolenze politiche e il ritardo nel bilancio «creeranno incertezza finanziaria a partire da gennaio».
La sfiducia nel governo in realtà ha radici anche nel diffuso malcontento per l’entrata del Paese nell’eurozona, ottenuta a giugno dopo ripetuti ritardi dovuti all’instabilità politica e al mancato raggiungimento degli obiettivi di inflazione richiesti. Secondo i risultati di un sondaggio dell’Eurobarometro, i cui risultati sono stati pubblicati l’11 dicembre, il 49% dei bulgari è contrario all’euro, il 42% è favorevole e il 9% è indeciso. Guarda caso, la maggioranza degli intervistati in cinque Stati membri non appartenenti all’area dell’euro è contraria all'euro: Repubblica Ceca (67%), Danimarca (62%), Svezia (57%), Polonia (51%) e appunto Bulgaria.
Quasi la metà dei bulgari teme la perdita della sovranità nazionale, è contro la moneta unica e rimane affezionata alla propria moneta, al lev, che secondo Bloomberg rappresenta «un simbolo di stabilità» dopo la grave crisi economica di fine anni Novanta.
Se la Commissione europea ha ripetutamente messo in guardia contro le carenze dello stato di diritto in Bulgaria, affermando a luglio che il livello di indipendenza giudiziaria in quel Paese era «molto basso» e la strategia anticorruzione «limitata»; se per Transparency International è tra Paesi europei con il più alto tasso di percezione della corruzione ufficiale da parte dell’opinione pubblica, resta il fatto che i bulgari non scalpitano per entrare nell’eurozona.
Continua a leggereRiduci
Ppalazzo Berlaymont (Getty Images)
In base allo schema ipotizzato, per quanto se ne può sapere, Bruxelles convoglierebbe le attività immobilizzate della Banca centrale russa in una linea di credito a tasso zero per l’Ucraina. L’Ue intenderebbe coprire 90 miliardi di euro del deficit di finanziamento dell’Ucraina, che è di 135 miliardi di euro, per i prossimi due anni attingendo a queste attività. A Kiev verrebbe chiesto di rimborsare il prestito solo dopo che Mosca avrà accettato di risarcire i danni causati dalla sua aggressione. Cosa che non avverrà mai. La proposta non ha precedenti nella storia moderna e solleva enormi dubbi e alcune contrarietà su aspetti di grande rilevanza.
Innanzitutto, sul tema delicato della compensazione monetaria destinata a coprire i danni o le perdite subite durante una guerra. Da che mondo è mondo, dalle imposizioni di Roma verso Cartagine dopo la prima e seconda guerra punica, alla guerra franco- prussiana fino a giungere alla Prima e Seconda guerra mondiale, sono sempre stati coloro che hanno perso le guerre che hanno dovuto pagare i debiti, e non il contrario. L’Ue su questa materia capovolge la storia.
In secondo luogo ci sono potenziali implicazioni economiche e strategiche: l’utilizzo degli asset sovrani russi per emettere il prestito di riparazione potrebbe avere effetti «a catena» in tutta l’Eurozona e provocare un esodo di investitori preoccupati da decisioni unilaterali delle autorità in futuro. Ma il punto dirimente e controverso in questo dibattito riguarda non tanto la già avvenuta immobilizzazione degli stessi, bensì l’effettiva possibilità di una confisca permanente. Nel caso degli asset di soggetti «riconducibili» al Cremlino (si pensi ad esempio agli oligarchi) inoltre, le confische rischierebbero di collidere col rispetto dei diritti di godimento di proprietà facenti parte della cornice dei diritti umani. Ancor più complicata è la confisca permanente di asset di diretta proprietà di uno Stato estero, che sono protetti dall’immunità e dal diritto internazionale. Inoltre, una delle più intuitive conseguenze di una confisca da parte dei Paesi europei sarebbe la sicura ritorsione russa. Il Cremlino ha infatti fatto sapere di avere pronta una lista di asset occidentali da aggredire a tal fine. A ogni modo, gli investimenti in Russia e riserve in rublo differiscono significativamente da Paese a Paese, e a essere particolarmente esposti sono proprio i paesi dell’Unione europea. Più che a livello di riserve delle varie banche centrali dei singoli Stati o della stessa Bce, una forte vulnerabilità risiede negli investimenti europei su suolo russo. Stando a fonti russe, su 288 miliardi di dollari la quota di asset degli Stati europei vale oltre 220 miliardi, ossia più del 75%.
Bisogna aggiungere anche che a preoccupare molti Paesi sarebbero anche le possibili conseguenze che una confisca così audace economicamente e «legalmente» avrebbe sulla stabilità dell’euro. Dando vita ad un importante precedente reputazionale, l’esproprio degli asset russi rischierebbe infatti di spingere molte banche centrali di vari Paesi stranieri a ridurre le loro riserve in euro come misura cautelare, indebolendo così la valuta dell’eurozona. È in parte un meccanismo già avviato non solo dalla Russia stessa, ma anche da paesi come Turchia o Cina, che da qualche anno stanno via via sganciandosi da valute come il dollaro e l’euro. Del resto chi si fiderebbe più dell’Europa se basta una decisione politica per sottrarre risorse finanziarie di proprietà di soggetti economici e di Stati esteri che hanno investito nel Vecchio continente? Deve averlo compreso bene la stessa Bce, condividendo le preoccupazioni emerse da più parti se ha deciso di rifiutare di fornire garanzie per il prestito di circa 140 miliardi di euro all’Ucraina, non solo perché la proposta della Commissione europea viola il suo mandato, ma si presume anche per le debolezze politiche e legali di una simile iniziativa.
Infine, una annotazione generale. Questa idea della Commissione europea fa, per così dire, uno scempio del concetto di libero mercato, introducendo una idea di capitalismo politico che si avvicina molto al cosiddetto capitalismo di Stato. Un capitalismo che si addice molto alle autocrazie che Bruxelles vorrebbe combattere. Davvero una gran bella pensata. Se invece di rischiare di pagare conseguenze che ricadrebbero sui cittadini europei, utilizzassero quel poco di sale in zucca rimasto per favorire un negoziato di pace ricostruirebbero un po’ di quella credibilità che allo stato attuale sembra decisamente smarrita.
Continua a leggereRiduci
Ursula von der Leyen (Ansa)
Nella visione del segretario generale della Nato, gli europei saranno «il prossimo obiettivo di Mosca» entro cinque anni. Ma non solo, il conflitto potrebbe addirittura essere «della stessa portata della guerra che hanno dovuto sopportare i nostri nonni e bisnonni». E su queste basi vaghe ha quindi esortato gli alleati ad aumentare gli sforzi di Difesa per scongiurare il temuto conflitto. Poco importa quindi a Rutte se Mosca ha confermato pure ieri che non nutre «alcun piano aggressivo nei confronti dei membri della Nato o dell’Ue». Nella conferenza stampa, a fianco del cancelliere tedesco, Friedrich Merz, il segretario generale della Nato ha poi tirato le orecchie ai Paesi della Nato, colpevoli di non prendere sul serio «la minaccia russa» e di essere «silenziosamente compiacenti».
Ma chi non prende sul serio gli avvertimenti è Bruxelles in merito agli asset russi: il Comitato dei rappresentanti permanenti presso l’Ue (Coreper) ha raggiunto un accordo sulla visione rivista della proposta inerente all’articolo 122 del Trattato Ue. E ha dato il via libera alla procedura scritta che si concluderà entro le 17 di oggi. Qualora arrivasse il voto favorevole, il blocco degli asset russi sarà quindi a tempo indeterminato. Si completa così il primo step per far sì che siano utilizzati i beni russi congelati a sostegno Kiev, in vista del Consiglio Ue della prossima settimana. A commentare il risultato è stato il commissario europeo all’Economia, Valdis Dombrovskis: «È stato approvato in linea di principio un regolamento che proibisce il trasferimento» degli asset russi congelati. E ha quindi spiegato che il regolamento «dovrebbe aiutare con il prestito basato sugli asset russi» visto che «assicura che restino congelati», senza il bisogno di rinnovare il blocco all’unanimità ogni sei mesi. Anche il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, è intervenuta in merito dicendo: «Domani (oggi, ndr) spero che sia compiuto il prima passo per l’uso degli asset russi, metterli al sicuro, poi la decisione su come usarli sarà presa al Consiglio Europeo la prossima settimana, in un voto a maggioranza qualificata». A non condividere la linea di Bruxelles sono sicuramente la Slovacchia e l’Ungheria. Il premier slovacco, Robert Fico, ha già scritto al presidente del Consiglio europeo, António Costa: «Vorrei affermare che, in occasione del prossimo Consiglio europeo, non sono in grado di sostenere alcuna soluzione alle esigenze finanziarie dell’Ucraina che preveda la copertura delle spese militari dell’Ucraina per i prossimi anni». Continuando a mettere i puntini sulle i, ha sottolineato: «La politica di pace che sostengo con coerenza mi impedisce di votare a favore del prolungamento del conflitto militare: fornire decine di miliardi di euro per le spese militari significa prolungare la guerra». «Profonda preoccupazione» è stata espressa da Budapest per «la recente tendenza» ad «aggirare le procedure di decisione all’unanimità». Anche perché l’articolo 122 non è «la base giuridica corretta» per bloccare senza scadenza gli asset russi.
Sul fronte delle trattative di pace il tempo stringe. E dopo che Kiev ha inviato la sua versione del piano a Washington, ieri pomeriggio la Coalizione dei volenterosi si è riunita virtualmente. Tra i leader che hanno preso parte, il presidente ucraino, Volodymyr Zelenskyy, il premier britannico, Keir Starmer, il presidente francese, Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco, Friedrich Merz. Al termine del meeting, il leader di Kiev ha dichiarato: «Stiamo lavorando per assicurare che le garanzie di sicurezza includano componenti serie di deterrenza europea e siano affidabili». E ha avvisato pure Washington: «È importante che gli Stati Uniti siano con noi e sostengano questi sforzi. Nessuno è interessato a una terza invasione russa». Von der Leyen ha ripetuto che «l’obiettivo è raggiungere una pace giusta e sostenibile per l’Ucraina». Le iniziative europee, in ogni caso, per Mosca non sono efficaci. Il ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, ha infatti commentato: «L’Europa sta cercando in tutti i modi di sedersi al tavolo delle trattative, ma le idee che coltiva non saranno utili ai negoziati». E ha lanciato un avvertimento già noto ai leader europei: qualora venissero schierate le forze di peacekeeping in Ucraina saranno considerate «immediatamente» gli «obiettivi legittimi» di Mosca.
L’agenda dei negoziati intanto prosegue: domani è previsto un incontro a Parigi tra i funzionari ucraini, americani, francesi, tedeschi e britannici per tentare di raggiungere un consenso sul piano di pace. Secondo quanto riferito da Axios, a rappresentare i leader europei e l’Ucraina saranno i rispettivi consiglieri per la sicurezza nazionale, ma non è ancora chiaro se per gli Stati Uniti parteciperà il segretario di Stato americano, Marco Rubio.
Continua a leggereRiduci