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2020-01-20
Testimoni svaniti e assoluzioni in Algeria: l'inchiesta Eni in Nigeria in marcia verso flop
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Ansa
C'è una data sul calendario del 2020 che i vertici di Eni, il nostro colosso petrolifero, hanno cerchiato con il rosso. E' quella del 29 gennaio, quando nel tribunale di Milano ci sarà un'udienza chiave per i destini del processo sulla presunta corruzione intorno al giacimento nigeriano Opl-245. L'amministratore delegato Claudio Descalzi è imputato per corruzione internazionale insieme con i vertici di Shell, in una sempre più intricata vicenda che è stata ribattezzata dai media internazionali come il processo del secolo. Si parla di una presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari pagata dalle due aziende agli uomini dell'allora presidente della Nigeria, Goodluck Jonathan, per aggiudicarsi la licenza esplorativa di uno dei giacimenti di petrolio più importanti nello Stato africano. Anche in Olanda, sede di Shell, c'è un'indagine in corso, ma i giudici olandesi sono appesi al processo milanese che nelle ultime settimane ha avuto diverse battute di arresto e imprevisti che stanno mettendo in seria difficoltà l'accusa.
L'istruttoria doveva chiudersi prima della fine dell'anno, ma tra ritardi e testimoni nigeriani scomparsi, è slittata fino alla fine di gennaio. A San Donato ci si aspetta la sentenza prima di marzo, prima delle decisioni del governo (in particolare il ministero dell'Economia) sul rinnovo dei vertici. Eni è tra le società partecipate che dovrà rinnovare il consiglio di amministrazione. Descalzi ha ottenuto buoni risultati economici in questi anni (il titolo in borsa è stabile e in crescita) e continua a raccogliere commesse in Africa e medio oriente, sempre più fondamentali data l'instabilità della Libia, uno dei nostri hub petroliferi più importanti. Il 29 gennaio a Milano dovrebbe presentarsi quello che è considerato il vero Victor Nwafor, ovvero il capo della sicurezza personale dell'ex presidente Jonathan, forse l'unico che potrebbe aver visto materialmente le valigette piene di soldi a casa dell'ex manager Eni Roberto Casula.
La questione però è controversa. Perché un Victor fu già ascoltato all'inizio del gennaio 2019, ma poi non si è rivelato quello vero. In realtà, quello che dovrebbe essere il giusto testimone, si chiama Isaac Chinonyerem Eke, un superpoliziotto vicino all'intelligence, ex guardia di Jonathan: avrebbe usato lo pseudonimo Victor Nwafor per parlare con Vincenzo Armanna, ex responsabile africa subsahariana per il Cane a sei zampe. A portare del dibattimento il nome di Victor/Eke è stato proprio Armanna, imputato nel processo, anche lui testimone chiave dell'accusa che però in questi anni ha cambiato più volte avvocato, modificando spesso la sua posizione e perdendo così credibilità agli occhi della corte, delle difese e persino dell'accusa.
Eke avrebbe dovuto già presentarsi alle ultime udienze alla fine di dicembre, ma poi non lo ha fatto. «Devo dolermi con me stesso, ho avuto troppa fiducia nelle intenzioni del teste di testimoniare, dovevamo subito chiedere una rogatoria internazionale», aveva spiegato il titolare dell'accusa Fabio De Pasquale nell'ultima udienza. Aveva aggiunto di aver deciso di evitare di procedere per rogatoria formale nell'intento di stringere i tempi. In ogni caso il presidente della corte Marco Tremolada ha concesso al titolare di spostare la testimonianza al 29, ma il teste dovrà presentarsi di persona. Non potrà farla in video conferenza, anche per evitare nuovi disguidi come in passato. Ma nel frattempo, mentre continuano le indagini sul Congo e sul presunto depistato dell'avvocato Piero Amara, è arrivata una sentenza di secondo grado che potrebbe pesare sul caso Opl. E' quella sul caso Saipem-Algeria, dove sempre De Pasquale aveva fatto ricorso con l'assoluzione di primo grado dell'ex numero uno di Eni Paolo Scaroni, quest'ultimo indagato anche sul caso Nigeria.
Ebbene la seconda Corte d'Appello di Milano ha assolto l'ex amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni, attuale presidente del Milan, e la compagnia petrolifera italiana nel processo sulla presunta maxitangente da 197 milioni di dollari. Non solo. Sono stati assolti anche tutti gli altri imputati nel procedimento di secondo grado, inclusi i manager di Saipem e la stessa partecipata. La sentenza ha ribaltato il verdetto stabilendo che «il fatto non sussiste». Di sicuro non un assist per De Pasquale sul caso Opl 245.
Gli ex agenti dei servizi britannici che trattarono Opl-245 lasciano Shell
A distanza di dieci anni dalla vittoria delle licenze per utilizzare il blocco Opl-245 in Nigeria, il giacimento è tutt'ora deserto e non operativo. Diversi dirigenti di Eni che si occuparono dell'accordo sono finiti sotto processo, mentre quelli di Shell son riusciti a rifarsi una vita professionale in altre aziende. Per di più, stando a quanto riportato da African Intelligence, gli uomini dell'azienda britannica olandese che si erano occupati dell'affare ormai sono usciti anche dall'azienda. D'altra parte i procedimenti giudiziari aperti a Milano nel 2017 sono stati un freno sopra gli interessi economici dei due colossi petroliferi, sia quello olandese sia quello italiano, ovvero Eni. Molti dei dirigenti Shell hanno lasciato tutti il gruppo britannico-olandese. Nel 2010 Dan Etete, proprietario di Malabu Oil & Gas e ministro del petrolio sotto il presidente Sani Abacha (1993-1998), aveva venduto indirettamente i suoi diritti su OPL 245 a Shell ed Eni per 1,3 miliardi dollarii. Il presidente Goodluck Jonathan, amico intimo di Etete, accettò di lasciare che il governo nigeriano fosse intermediario dell'accordo. John Copleston, consigliere politico della Shell ed ex agente della Mi6, che ha incontrato Etete in diverse occasioni per discutere dell'accordo Opl 245 nel 2010, ha lasciato l'azienda. Un altro ex agente dell'Mi6, Guy Colegate, che aveva consigliato Shell durante i colloqui con il governo nigeriano, è partito per lavorare per Heritage Oil nel 2013 (AEI 709).
Peter Robinson, il vice presidente Africa per Shell ai tempi dell'acquisizione, non lavora più da tempo. Una serie di alti dirigenti impiegati presso Shell al momento dell'accordo nigeriano sono già usciti tra il 2011 e il 2012. Tra questi c'è il capo dell'upstream del l tempo Malcolm Brinded, l'ex consigliere generale Keith Ruddock e il consulente legale per l'Africa Guus Klusener. Ruddock ora lavora per il colosso Weir Group. Klusener è diventato consulente legale di Addax Petroleum, acquistato da Sinopec nel 2009.
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Il 29 gennaio ci sarà l'ultima udienza del processo sul giacimento nigeriano Opl-245 dove sarebbe circolata una tangente da un miliardo di dollari. L' amministratore delegato Claudio Descalzi è indagato per corruzione internazionale. C'è attesa per sapere se il testimone chiave Isaac Chinonyerem Eke questa volta si presenterà. Ma intanto in un altro filone di indagini, quello algerino con una presunta mazzetta da 197 milioni di dollari, la corte di appello ha assolto tutti spiegando che «il fatto non sussiste».A Lagos e dintorni è tutto fermo. Mentre i dirigenti italiani che trattarono l'operazione sono finiti sotto processo, quelli di Shell sono usciti dall'azienda e si sono rifatti una vita professionale. Lo speciale contiene due articoliC'è una data sul calendario del 2020 che i vertici di Eni, il nostro colosso petrolifero, hanno cerchiato con il rosso. E' quella del 29 gennaio, quando nel tribunale di Milano ci sarà un'udienza chiave per i destini del processo sulla presunta corruzione intorno al giacimento nigeriano Opl-245. L'amministratore delegato Claudio Descalzi è imputato per corruzione internazionale insieme con i vertici di Shell, in una sempre più intricata vicenda che è stata ribattezzata dai media internazionali come il processo del secolo. Si parla di una presunta tangente da 1,092 miliardi di dollari pagata dalle due aziende agli uomini dell'allora presidente della Nigeria, Goodluck Jonathan, per aggiudicarsi la licenza esplorativa di uno dei giacimenti di petrolio più importanti nello Stato africano. Anche in Olanda, sede di Shell, c'è un'indagine in corso, ma i giudici olandesi sono appesi al processo milanese che nelle ultime settimane ha avuto diverse battute di arresto e imprevisti che stanno mettendo in seria difficoltà l'accusa. L'istruttoria doveva chiudersi prima della fine dell'anno, ma tra ritardi e testimoni nigeriani scomparsi, è slittata fino alla fine di gennaio. A San Donato ci si aspetta la sentenza prima di marzo, prima delle decisioni del governo (in particolare il ministero dell'Economia) sul rinnovo dei vertici. Eni è tra le società partecipate che dovrà rinnovare il consiglio di amministrazione. Descalzi ha ottenuto buoni risultati economici in questi anni (il titolo in borsa è stabile e in crescita) e continua a raccogliere commesse in Africa e medio oriente, sempre più fondamentali data l'instabilità della Libia, uno dei nostri hub petroliferi più importanti. Il 29 gennaio a Milano dovrebbe presentarsi quello che è considerato il vero Victor Nwafor, ovvero il capo della sicurezza personale dell'ex presidente Jonathan, forse l'unico che potrebbe aver visto materialmente le valigette piene di soldi a casa dell'ex manager Eni Roberto Casula. La questione però è controversa. Perché un Victor fu già ascoltato all'inizio del gennaio 2019, ma poi non si è rivelato quello vero. In realtà, quello che dovrebbe essere il giusto testimone, si chiama Isaac Chinonyerem Eke, un superpoliziotto vicino all'intelligence, ex guardia di Jonathan: avrebbe usato lo pseudonimo Victor Nwafor per parlare con Vincenzo Armanna, ex responsabile africa subsahariana per il Cane a sei zampe. A portare del dibattimento il nome di Victor/Eke è stato proprio Armanna, imputato nel processo, anche lui testimone chiave dell'accusa che però in questi anni ha cambiato più volte avvocato, modificando spesso la sua posizione e perdendo così credibilità agli occhi della corte, delle difese e persino dell'accusa. Eke avrebbe dovuto già presentarsi alle ultime udienze alla fine di dicembre, ma poi non lo ha fatto. «Devo dolermi con me stesso, ho avuto troppa fiducia nelle intenzioni del teste di testimoniare, dovevamo subito chiedere una rogatoria internazionale», aveva spiegato il titolare dell'accusa Fabio De Pasquale nell'ultima udienza. Aveva aggiunto di aver deciso di evitare di procedere per rogatoria formale nell'intento di stringere i tempi. In ogni caso il presidente della corte Marco Tremolada ha concesso al titolare di spostare la testimonianza al 29, ma il teste dovrà presentarsi di persona. Non potrà farla in video conferenza, anche per evitare nuovi disguidi come in passato. Ma nel frattempo, mentre continuano le indagini sul Congo e sul presunto depistato dell'avvocato Piero Amara, è arrivata una sentenza di secondo grado che potrebbe pesare sul caso Opl. E' quella sul caso Saipem-Algeria, dove sempre De Pasquale aveva fatto ricorso con l'assoluzione di primo grado dell'ex numero uno di Eni Paolo Scaroni, quest'ultimo indagato anche sul caso Nigeria. Ebbene la seconda Corte d'Appello di Milano ha assolto l'ex amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni, attuale presidente del Milan, e la compagnia petrolifera italiana nel processo sulla presunta maxitangente da 197 milioni di dollari. Non solo. Sono stati assolti anche tutti gli altri imputati nel procedimento di secondo grado, inclusi i manager di Saipem e la stessa partecipata. La sentenza ha ribaltato il verdetto stabilendo che «il fatto non sussiste». 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Per di più, stando a quanto riportato da African Intelligence, gli uomini dell'azienda britannica olandese che si erano occupati dell'affare ormai sono usciti anche dall'azienda. D'altra parte i procedimenti giudiziari aperti a Milano nel 2017 sono stati un freno sopra gli interessi economici dei due colossi petroliferi, sia quello olandese sia quello italiano, ovvero Eni. Molti dei dirigenti Shell hanno lasciato tutti il gruppo britannico-olandese. Nel 2010 Dan Etete, proprietario di Malabu Oil & Gas e ministro del petrolio sotto il presidente Sani Abacha (1993-1998), aveva venduto indirettamente i suoi diritti su OPL 245 a Shell ed Eni per 1,3 miliardi dollarii. Il presidente Goodluck Jonathan, amico intimo di Etete, accettò di lasciare che il governo nigeriano fosse intermediario dell'accordo. John Copleston, consigliere politico della Shell ed ex agente della Mi6, che ha incontrato Etete in diverse occasioni per discutere dell'accordo Opl 245 nel 2010, ha lasciato l'azienda. Un altro ex agente dell'Mi6, Guy Colegate, che aveva consigliato Shell durante i colloqui con il governo nigeriano, è partito per lavorare per Heritage Oil nel 2013 (AEI 709).Peter Robinson, il vice presidente Africa per Shell ai tempi dell'acquisizione, non lavora più da tempo. Una serie di alti dirigenti impiegati presso Shell al momento dell'accordo nigeriano sono già usciti tra il 2011 e il 2012. Tra questi c'è il capo dell'upstream del l tempo Malcolm Brinded, l'ex consigliere generale Keith Ruddock e il consulente legale per l'Africa Guus Klusener. Ruddock ora lavora per il colosso Weir Group. Klusener è diventato consulente legale di Addax Petroleum, acquistato da Sinopec nel 2009.
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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