2019-09-24
Sotto il vestito ecologista si nasconde la fregatura. Più tasse e favori ai potenti
Le battaglie «verdi» dominano il dibattito ma, da Greta Thunberg in giù, si focalizzano solo sui temi che giovano al sistema. E ai cittadini dei Paesi più deboli toccano gli oneri.In un mio vecchio articolo coniavo il motto «ubi puer, ibi mendacium» per denunciare come l'utilizzo immotivato di testimonial in tenera età serva spesso a veicolare messaggi politici dai moventi opachi. Non sembra fare eccezione il caso di Greta Thunberg, la giovanissima svedese «che fa tremare i potenti della terra» vaticinando catastrofi ambientali e quindi (!) raccoglie gli applausi dei potenti della terra. Le ultime notizie ce la davano a bordo di una barca da 4 milioni di euro governata da un rampollo reale per raggiungere gli Stati Uniti d'America, dove pare stia tenendo banco tra i membri del Senato dopo un incontro in gran pompa con l'ex presidente Barack Obama. Cose normali, insomma, per chi è inviso al sistema.Questa non è l'unica contraddizione, né in fondo la più grave, della risorta retorica «green» che sta investendo l'Occidente. Sotto il profilo del metodo, quella climatica non è che l'ultima di un già lungo elenco di «emergenze» quotidianamente scodellate su tutti i fronti, dal «fate presto!» dell'economia alle condizioni di chi bussa ai nostri confini, che «precipitano di ora in ora», dalle malattie infantili trasformatesi in «epidemie» da contenere emarginando i bambini, alle innovazioni digitali sul cui «treno» bisogna saltare a occhi chiusi per non perdere opportunità, ça va sans dire, irripetibili. Il risultato è uno stato di eccezione perenne che non tollera gli incerti della riflessione, del confronto e della critica, un'incombenza senza tregua dove chi dissente è un nemico da reprimere per la salvezza del branco.democrazia indebolitaSe l'orientamento generale è questo - di indebolire la prassi democratica anteponendole le più variopinte e improcrastinabili urgenze - nel merito è difficile non riconoscere che esiste un problema di sostenibilità dei nostri modelli di produzione e consumo. Non sappiamo quanto dureranno le riserve fossili di energia su cui si regge ciò che oggi chiamiamo «progresso», ma siamo certi che a) non sono infinite e b) il loro consumo comporta anche danni per l'uomo e per l'ambiente. Nel solco di queste giuste premesse si innestano le moderne crociate verdi, i cui frutti portano però lontano, lontanissimo dalla soluzione. Il pattern è classico. Per non dover mettere in discussione le distorsioni che le sono consustanziali - e quindi mettere in discussione sé stessa - la civiltà moderna se ne impossessa e le spettacolarizza con un obiettivo duplice: da un lato, per scaricare le coscienze dei suoi membri allestendo liturgie salvifiche e penitenziali (Greta agnello che sconta i peccati dell'umanità, icona a cui prostrarsi, apostolo tra le genti, figura Ioannis che fustiga gli Erode del mondo ecc.); dall'altro, per standardizzare il discorso e consegnarne la gestione agli attori sociali dominanti, affinché possano indirizzarlo a proprio vantaggio. Che così facendo non si risolveranno i problemi sottostanti - va da sé -, anzi li si perpetuerà consolidando il pretesto di misure straordinarie sempre più audaci e in deroga a tutto, nell'interesse di pochi.Chi domina il discorso imposta i temi, seleziona gli attori, ne espone una parte a discapito di altre. Tra i tanti effetti iatrogeni dei nostri stili energetici si è data una visibilità quasi esclusiva alle emissioni di anidride carbonica (Co2) e alla collegata ipotesi del riscaldamento globale antropogenico (Agw), contestata da alcuni scienziati. Il richiamo a un «consenso degli esperti» è un altro leitmotiv di queste operazioni, da cui discende l'effetto di costringere la comunità scientifica all'omologazione screditandone le voci fuori dal coro. a chi giova il «new deal»Senza entrare in questa controversia, registriamo che la Co2 è un gas innocuo per chi lo inala, naturalmente prodotto da tutti gli esseri viventi e indispensabile per la fotosintesi delle piante. E che nelle campagne di marca gretina non si ha invece quasi traccia di riferimenti a ossidi di zolfo e di azoto, benzene, piombo, particolati e altri prodotti della combustione la cui tossicità è invece certificata oltre ogni dubbio, né alle guerre e alle ingerenze per il controllo dei giacimenti sulle cui devastazioni non pende alcuna diatriba scientifica.Chi domina il discorso detta la gerarchia delle cause e delle soluzioni. Il «Green New Deal», ideato dai liberal americani e in procinto di essere replicato anche dal nostro governo, predica una riconversione industriale a impatto Co2 tendente a zero i cui dettagli restano più che vaghi, salvo insistere sulla necessità di promuovere la mobilità elettrica. Se alcuni economisti prevedono che ciò implicherebbe una strage di aziende medie e piccole a tutto vantaggio dei pochi gruppi multinazionali in grado di sostenere i costi della conversione, nel nostro piccolo abbiamo sperimentato come la penalizzazione dei motori termici abbia colpito la nostra industria automobilistica con la sciagurata ecotassa del precedente governo. Un'incentivazione a suon di soldi pubblici della locomozione elettrica renderebbe questo colpo letale spalancando i mercati ai produttori stranieri. E l'ambiente? Se ne gioverebbe nella misura in cui molti di noi si sposterebbero a piedi non potendosi permettere il lusso di un'elettromobile che per il resto, tra produzione, smaltimento e generazione termoelettrica, inquinerebbe come quelle di prima. Se va bene.americani brava genteChi domina il discorso, infine, stabilisce le responsabilità e ripartisce gli oneri. Ci si aspetterebbe, ad esempio, che gli scioperanti per il clima denunciassero le attività dell'esercito Usa, che secondo un rapporto del Watson Institute sarebbe «il più grande consumatore istituzionale di petrolio e, insieme, il primo singolo produttore di gas serra al mondo». Invece no, anzi. Mentre il gendarme del Paese che predica la conversione ecologica (degli altri) è ufficialmente esentato dal rispetto dei protocolli di Kyoto e di ogni altro accordo sul clima, scopriamo che siamo noi, anonime formichine esalatrici di Co2, il problema. Che dobbiamo viaggiare di meno, illuminarci di meno, riscaldarci di meno, mangiare meno carne e, per aiutarci a non cadere in tentazione, pagare nuove tasse su tutto ciò che si è deciso possa far alzare il termometro del mondo. Dobbiamo cioè convincerci a vivere peggio, o meglio ancora a non vivere, come suggeriscono gli attivisti anglosassoni che si rifiutano di mettere al mondo figli per non surriscaldare il pianeta. Per essere ancora più chiari, il democratico Bernie Sanders, rispondendo a una telespettatrice che gli chiedeva se per frenare il cambiamento climatico fosse utile educare la popolazione al controllo delle nascite, ha sostenuto la necessità di estendere il diritto all'aborto.Da questa pur breve antologia di contraddizioni, sproporzioni e omissioni nasce il sospetto che la battaglia per il clima abbia poco a che fare con l'energia, pochissimo con l'inquinamento e molto con il più classico dominio dell'uomo sull'uomo. Se per molti è una moda per sentirsi migliori, per chi detta il copione è uno strumento con cui accrescere il proprio vantaggio instillando panico e sensi di colpa nella popolazione. Alcuni indizi fanno però presagire anche peggio, che nel mettere sotto accusa il gas di scarico dei viventi, gli stili delle persone comuni e la loro riproduzione, qualcuno intenda puntare i cannoni non già contro le attività dell'uomo, ma contro la vita umana in sé. È vero, la nostra civiltà ha un estremo bisogno di trovare un punto di equilibrio con la natura e le sue risorse, ma se ciò deve avvenire escludendo gli esseri umani dall'equazione - con la malthusiana eccezione di pochissimi - allora ci troveremmo davanti a un attacco di cui è bene non rendersi complici.