«Tu sei buono e ti tirano le pietre. Sei cattivo e ti tirano le pietre. Qualunque cosa fai, dovunque te ne vai, sempre pietre in faccia prenderai!» cantava Antoine nel 1967. Qualcosa del genere accade oggi, mentre una serie ormai infinita di inanellate «emergenze» chiedono ogni volta soluzioni in deroga ai principi etici e giuridici che varrebbero in tempi «ordinari». I più attenti hanno già osservato che si è così normalizzato lo «stato di eccezione» teorizzato dai filosofi del diritto, cioè la sospensione a tempo indeterminato delle garanzie e dei vincoli che intrecciano la trama dello Stato di diritto e la conseguente espansione dei poteri governativi ben oltre le previsioni dell’architettura costituzionale (la quale, per inciso, non prevede alcuno stato di eccezione). I più attenti ancora hanno notato che, per quanto diversi siano per intensità e natura i trigger dell’eccezione, i rimedi invocati sono sempre gli stessi e sempre peggiorativi del benessere materiale e sociale dei cittadini.
Consideriamo la sospensione delle importazioni di fonti energetiche dalla Russia, che oggi coprono un quarto del nostro fabbisogno e soddisfano quasi la metà dei nostri consumi domestici e industriali di gas naturale, e quindi un quarto di quelli elettrici. Che in altre parole, tracciano la linea tra noi e un Paese in via di sviluppo. Ora l’idea sembra essere che rinunciando a questa energia e ripiombando nel dopoguerra costringeremmo il governo russo a desistere dalle operazioni militari. Un’idea che in una persona di intelligenza media susciterebbe qualche domanda. Ad esempio: perché allora si continua a importare un decimo del nostro petrolio dall’Arabia Saudita, le cui bombe stanno causando nel confinante Yemen quella che l’Onu ha definito «la peggior crisi umanitaria del mondo» con 380.000 vittime e «un bambino sotto i cinque anni morto ogni dieci minuti»? Perché si consuma la benzina delle compagnie petrolifere che si sono impossessate dei giacimenti sottratti agli iracheni con una guerra di aggressione in cui quasi mezzo milione di persone hanno perso la vita? E perché non si rinuncia ai prodotti meno essenziali di chi sfrutta i bambini lavoratori, opprime le minoranze o pratica lo schiavismo, in un’epoca - ricordano le principali organizzazioni internazionali del lavoro - in cui «ci sono più schiavi che in qualsiasi altro periodo della storia umana»?
Se queste domande sembrano ingenue (lo sono), allora serve un’ingenuità dolosa per accettare l’illogicità degli ultimi provvedimenti che sono oltretutto inutili. Mentre infatti l’apporto energetico perduto dagli italiani non sarà recuperato se non quando sarà troppo tardi, i russi stanno già intensificando le esportazioni di gas verso la confinante Cina, prossimamente raggiunta da un secondo gasdotto transmongolico. La più grande potenza industriale del mondo assorbe da sola quasi il doppio dell’energia primaria consumata da tutti i Paesi europei messi insieme ma sinora si è affidata principalmente al carbone (60% del mix energetico fossile) e al petrolio (20%), con i problemi ambientali e di continuità che conseguono. Il mercato cinese del gas naturale è invece quasi vergine e può compensare le perdite a Ovest. Non abbiamo lanciato un boomerang: ci stiamo proprio sparando addosso.
La diade soluzione-problema così rappresentata è troppo assurda per non chiedersi se per caso non ne adombri un’altra, se non ci sia del metodo in questa follia. Qualche sera fa il presidente di Nomisma Energia ha ammesso in televisione la necessità di razionare i consumi energetici per far fronte al nuovo scenario: «Qua occorre una distruzione di domanda… una descrescita poco felice», ha scandito, aggiungendo poi che «i mercati ce lo chiedono da almeno sei mesi». I mercati? Sei mesi? Quindi da prima che partissero le operazioni russe (Citigroup, per esempio, lo fece nell’ottobre scorso). Il problema è nuovo, ma la soluzione vecchia: l’austerity, che dopo le varianti fiscale e sanitaria annuncia ora la sua terza metamorfosi, quella energetica. Con la ripresa delle politiche monetarie espansive dopo l’ultima crisi ritorna in auge l’arnese preferito dagli investitori per frenare l’incubo dell’inflazione. Se per chi consuma non c’è gran differenza tra un aumento dei prezzi e una diminuzione del reddito, a chi gioca col denaro conviene di più la seconda perché preserva il valore dei crediti e mette in saldo i patrimoni pubblici e privati. Morale: se si alza lo spread ti tirano le pietre, se scoppia una pandemia ti tirano le pietre. E se la Russia va in guerra? Idem, ti tirano le pietre. Le stesse pietre. E mentre si annunciano tagli di miliardi di metri cubi di gas, come non pensare agli appelli della ragazzina con le trecce e dei suoi accoliti del venerdì mattina? Come non fare due più due con le crociate istituzionali per la «decarbonizzazione», la «transizione ecologica», la riduzione dei «gas serra» e gli stili di vita più «sostenibili» (cioè più poveri) che martellavano già da anni? Felici coincidenze, davvero. Se c’è troppa anidride carbonica, ti tirano le pietre. Se l’Ucraina è sotto attacco, ti tirano le pietre.
Visto che gli epiloghi sembrano già scritti, ci si può anche esercitare a indovinarli, più che a inseguirne i pretesti. Se non ci sarà gas per tutti e se, come ha suggerito il presidente dell’Agenzia federale tedesca delle reti in un’intervista riassunta su queste colonne da Maurizio Belpietro, le conseguenze dell’embargo russo costringeranno molte famiglie ad avvalersi di aiuti statali per riscaldarsi, non è bizzarro immaginare che lo stesso meccanismo telematico di premialità - cioè di punizioni - introdotto con il green pass possa estendersi anche al godimento di questo servizio. La combinazione dei nuovi contatori elettronici dotati per la prima volta di una valvola azionabile da remoto e della piattaforma Idpay che permetterà ai cittadini di accedere alle misure di sostegno che i governi metteranno a punto in futuro, renderebbe agevoli le annunciate modulazioni delle forniture energetiche secondo i requisiti «virtuosi» di volta in volta fissati dal legislatore. Il che darebbe anche finalmente un senso al colore green attribuito al lasciapassare sanitario su sfondo bianco. Con il Covid ti tirano le pietre. Con le bombe, pure.
Lo stesso gioco può applicarsi agli altri non sequitur della vulgata. Ci si aspetterebbe, chessò, che chi dice di voler fermare un «dittatore» nemico del «mondo libero» dia un esempio di pluralità e di libertà per essere più credibile. Ma se al contrario lo fa stilando liste di proscrizione, licenziando e infangando chi canta fuori dal coro, censurando i giornali, taroccando le immagini sui mass media, promuovendo l’odio a senso unico, pretendendo pubbliche abiure in stile maoista e aizzando un maccartismo tragicomico che non risparmia neanche i morti di due secoli fa, qualcosa non torna. Ma se di nuovo accantonassimo il motivo, ritroveremmo volti già noti. La guerra alle «fake news» con licenza di censurare e perseguire le opinioni non ufficiali nasce infatti assai prima di quella d’Ucraina. L’avventura pandemica aveva già tracciato il solco e versato il letame del selfie vaccinale e del QR come auto-da-fé, della rimozione dei contenuti telematici «negazionisti» (cioè critici), dell’emarginazione dei renitenti e della radiazione dei dissidenti dagli albi professionali. Oggi accade ai russi perché sono «cattivi». E domani, chi sarà il cattivo? Chi non accoglie i profughi, chi non si vaccina, chi accende il condizionatore, chi scrive cose «sbagliate» su Facebook? Se tutto giustifica tutto, allora tutto è possibile.
Poco decifrabile è anche la scelta di integrare nella nostra sanità migliaia di operatori sanitari provenienti dal teatro del conflitto senza abilitarli. Sorvoliamo su quanto ciò sia profondamente ingiusto verso i tanti stranieri, molti dei quali proprio in fuga dalla violenza, che hanno dovuto invece sudarsi i titoli italiani, e concentriamoci almeno sul fatto che fino a ieri eravamo noi a mandare i medici nei Paesi in guerra. Con quale logica si passa ora dal sostenere Emergency e Medici senza frontiere all’agevolare l’esodo dei camici bianchi da una nazione bombardata che ne ha bisogno più del pane? E a mandare in cambio bastimenti di armi? Se tenessimo tutte le premesse per buone, nessuna. Se invece considerassimo la faccenda in sé, vi riconosceremmo ancora una volta le fattezze più solite dell’immigrazione economica come una classica «allocazione ottimale dei fattori produttivi» al ribasso. Sarà perciò un’altra coincidenza felice che questo provvedimento inedito cada a distanza di un anno da quell’altro inedito provvedimento con cui si sono allontanati dal servizio i sanitari che non hanno accettato di farsi iniettare per tre volte un farmaco di nuova invenzione.
Non conosco né sarei in grado di comprendere a fondo i retroscena dell’operazione russa in Ucraina, ma immagino fin troppo bene quali pietre ci pioveranno in faccia, comunque vadano le cose. Perché i ragionamenti (chiamiamoli così) dell’emergenza infinita sembrano tante fiabe diverse che finiscono però tutte con la strega nel forno: anche quando non ci sono streghe, né forni. Ritengo che questa educazione al diversivo e all’illogico integri una vera e propria pedagogia di governo che mira a dissolvere la percezione della contraddizione per trasformare ogni evento nel carburante plausibile di un programma già in corso. Il solvente di questa dissoluzione è appunto l’emergenza in cui si attiva un’ansia di «fare» tipica dell’orizzonte moderno. Giacché quell’improcrastinabile «fare» non può che svolgersi nell’ambito del fattibile, chi fissa il perimetro degli agibilia decide anche gli agenda, cioè le uniche «soluzioni» possibili: le solite.
Volendo stilare un commento su ciò che sta accadendo, non si saprebbe davvero da che parte incominciare. Forse dalla più urgente, da quella torpida sensazione di normalità che fa da sfondo agli eventi, da quell’ipnosi molle in cui la tragedia sfugge e sprofonda. Getto uno sguardo sulle macerie e raccolgo detriti a caso.
La scuola. Ragazzini bullizzati dalle maestre (!) perché non si sono lasciati iniettare una fiala, o per lo stesso motivo esclusi dall’aula. Altri messi ai domiciliari su segnalazione anonima, cioè privati della libertà personale senza processo come non si poteva più fare da circa 800 anni. Perché c’era l’habeas corpus - c’era.
I docenti. Una decina di giorni fa ha parlato in televisione un professore di medicina. Non so che abbia detto, ma il giorno dopo l’università per cui lavora ha fatto sapere al metamondo di Twitter che le parole del docente «non rappresentano il pensiero dell’istituzione» e ha annunciato «ulteriori azioni». Gli internauti gaudenti rilanciavano con frizzi e lazzi sul cognome del malcapitato, che richiama un ortaggio. In questo alato scambio sarebbe dispiaciuto incunearsi per chiedere che cosa mai fosse il «pensiero dell’istituzione». Da quando esiste, dove è codificato? Non credo nell’articolo 33 della Costituzione (anzi) ma neanche nella lunga storia degli atenei, dove fino a ieri pensavano le persone fisiche, non quelle giuridiche. Se durante la peste del Trecento i dottori delle università (non le università) dibattevano liberamente sui rimedi, oggi invece è la scienza che parla per gli scienziati. Sarà, ma allora chi parla per la scienza? Mistero.
Il lavoro. Sempre a scuola, una professoressa ha scritto al suo preside che anche ai colleghi molestatori o violenti è riconosciuta una parte dello stipendio nel periodo di sospensione. Un ex ministro della Giustizia ha ricordato che anche agli ergastolani è consentito lavorare e guadagnarsi il pane. I giudici amministrativi lombardi si sono giustamente chiesti perché sospendere una psicologa che lavora coi pazienti soltanto in remoto. Già, perché? E perché chi ha già certi anticorpi deve prendere una medicina per sviluppare quegli anticorpi? E perché il «consenso scientifico globale» che vige a Como non vale più a Chiasso? E perché una puntura conta più di un esame di Stato? Perché sì, perché «va fatto e basta». Perché sarà vero, l’acqua non scorre a monte e sei mesi fa non eri ancora nato. Ma ti divoro lo stesso. Ecco lo stato del «dibattito».
La democrazia. Pare che il presidente del Consiglio abbia intimato ai parlamentari di «garantire i voti» necessari per approvare le decisioni del governo. Solita genitura invertita: l’esecutivo, cioè l’organo «che è atto a eseguire» (così il dizionario Gabrielli), dà ordini al legislativo che gli dovrebbe dettar legge, su mandato degli elettori. Ma siccome un mandante deve per forza esserci, allora chi detta i compiti all’esecutore? Altro mistero.
Ora, ragionando a freddo, non è plausibile che un tale sfascio si sia consumato in così pochi mesi, né che un malanno e qualche decreto abbiano tirato giù da soli un edificio messo in piedi nei secoli. No, i muri dovevano già essere crepati da tempo, da molto tempo e forse fin dall’inizio, sicché il crollo era atteso da tutti, temuto da pochi, salutato da molti. E poi il sole continua a sorgere, il latte arriva sugli scaffali e la televisione trasmette dibattiti e giochi a premi. Il vecchio Orwell ci credeva davvero, che in Germania, in Russia e altrove non regnassero che apatia, arretratezza e terrore e che lì nessuno osasse screziare il grigio della dittatura con una canzone o un sorriso. E noi con lui. Perciò no, non può esserci un regime. Se c’è un filo di luce - almeno per me, almeno finché dura - i tempi non possono essere bui.
Ovviamente non si ignorano sofferenze e violenze, si ascoltano certe storie in famiglia e le si legge sui giornali, e certi metodi mai visti prima se non nei libri di storia. Ma per questo c’è l’ipnotico più gagliardo di sempre, quello che normalizza ogni abominio dacché l’uomo calca la terra: la giustizia. Va bene perché è giusto così. E lo si può dire ovunque, con l’esaltata soddisfazione di un Savonarola laico o con gli occhi bassi di chi si sforza di ingoiare una lezione dura, ma necessaria. Storditi dalle stupidaggini del progresso crediamo davvero che gli aggeggi materiali ci assegnino una palma anche morale sugli avi, sicché non ci vergogniamo di chiedere una lacrima ai ragazzini che oggi non possono salire sull’autobus perché 70 anni fa, in un altro Paese, qualcuno ci poteva salire purché occupasse i sedili sul retro.
Sarebbe facile dimostrare more mathematico che se l’ingiustizia produce i delitti, la giustizia aizza le stragi. Perché la prima è punibile, la seconda impunita. La prima opera nei limiti dell’obiettivo, la seconda non ha limiti né obiettivi se non sé stessa, né remore, né censori. «Non avete pietà», dice Aglaja al principe Myškin, «ma solo giustizia: perciò siete ingiusto», riassume fulmineo Dostoevskij. E Nostro Signore, che di un tribunale fu la vittima più innocente («nos legem habemus»), non ha mai speso una parola di lode per gli zelanti à la Javert, mentre al contrario chiamava «beati i perseguitati a causa della giustizia» e prometteva loro il regno dei cieli. Di persecuzione e giustizia parla anche la storia di san Paolo. Prima dell’incontro con Dio era appunto un persecutore «irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge», ma da convertito visse non più «con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che si ha mediante la fede in Cristo: la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede» (Fil 3,6.9).
La giustizia può perseguire ma se perseguita è altro, è la maschera di un’ingiustizia. Tra i tesori spazzati via dalla barbarie moderna c’è anche lo sforzo millenario di agganciare l’etica, e quindi le leggi, a una norma che trascenda i suoi autori e la preservi dall’assurdo di ancorarsi a sé stessa. Se oggi si urla «o-ne-stà!» nelle piazze, sette secoli fa metteva all’ultimo gradino della gerarchia delle leggi lo jus civile codificato dai sovrani. Sopra stavano lo jus gentium comune a ogni popolo e la lex naturalis, l’innata disposizione morale dell’anima (sinderesi) che intuisce la lex aeterna con cui Dio ha ordinato il mondo. L’insubordinazione dei gradi inferiori produce arbitrio e violenza.
L’appiattimento di questa necessaria complessità nella dimensione puntiforme dell’ultimo codicillo vergato dall’ultimo burocrate dà la misura di un deserto odierno che è, nell’ordine, spirituale, culturale e morale. Se la giustizia eterna collassa su quella degli uomini, le prescrizioni di quest’ultima mimano i decreti divini: non devono addurre ragioni se non quelle pasticciate e sibilline di un mistero a cui bisogna chinarsi e promettono una salvezza che nel dominio terreno può essere solo quella della sopravvivenza, del comodo e della vanagloria a spese del prossimo. È dall’istituzione di questa pochezza che si è arrivati dove siamo arrivati. Ad accettare l’ingiusto perché non c’è altra giustizia; a parlar d’altro persino dai pulpiti perché non c’è alcunché a cui rispondere, né sopra né dopo; a convivere con l’assurdo e l’abnorme perché non c’è norma, e quindi neanche il normale.
Apprendo che in Alto Adige, dove già la primavera scorsa si sperimentava un «Corona pass» in anteprima nazionale, si imporranno regole molto più severe alle famiglie che scelgono di formare i propri figli secondo i principi dell'istruzione «parentale». Cittadino anch'io dell'era che giura di non muover dito senza i conforti delle «evidenze», ho cercato nella ragguardevole letteratura scientifica sul tema a quali gravi tare culturali, affettive e sociali andrebbero incontro i piccoli homeschooler. Ma non ho trovato nulla del genere, anzi. In compenso ho letto negli stessi giorni una raffica di titoli-fotocopia sulle scuole «clandestine» in cui troverebbero rifugio «soprattutto famiglie no mask» e che starebbero proliferando in tutto il Paese, con in testa l'ex provincia asburgica.
Quanti sono i giovani «clandestini» in questione? A occhio e croce, meno degli articoli in cui se ne parla. Nella provincia autonoma dove il fenomeno è più diffuso si tratterebbe di 544 (cinquecentoquarantaquattro) bambini: lo 0,7% della popolazione scolastica. Eppure per la deputata bolzanina e totiana Michaela Biancofiore si tratta invece di un «boom» a cui «stiamo assistendo inermi», un proliferare di azioni «che minano la cultura, la coesione sociale, l'ordine pubblico (sic) e la salute». Su che basi lancia queste accuse, quali le fonti, le testimonianze? Non lo dice. L'«involuzione culturale» degli scolari «sottratti alla socializzazione» è «evidente» a lei, e tanto ci basti.
In un'altra era geologica del nostro sentire avremmo apprezzato l'ironia di multare chi definisce «clandestine» le persone che si introducono illegalmente nel nostro Paese e di accettare che lo si dica invece di chi esercita un'attività prevista dalla legge, nel rispetto della legge. Ma oggi sembra normale. Sarebbe legale anche occupare le piazze per manifestare il proprio dissenso, ma da quando lo fanno anche i «no green pass» sono diventate «sempre più tossiche per la nostra democrazia», ha spiegato un senatore «orgogliosamente antifascista».
Sviluppi come questi preoccupano, ma non sorprendono. Li avevano già previsti i «complottisti» che, come ha osservato non troppo scherzosamente qualcuno, ultimamente sembrano azzeccarle tutte. Dopo quasi 80 anni di relativa democrazia è difficile digerire oggi l'ipotesi di un governo così accanito verso i propri cittadini, eppure non è raro che accada, è stato ad esempio il caso di molte dominazioni straniere. Il mondo di oggi, i cui tanti governi eseguono a una voce i dettati di pochi padroni sovranazionali, potrebbe integrare il caso particolare di un colonialismo globale senza colonizzatore locale.
O più che particolare, potrebbe anche trattarsi dell'ultima epifania di una norma che serpeggia fin dagli albori della modernità, la cui prima matrice politica non è la Convention nationale, il teatrino rivoluzionario dove destra e sinistra si bisticciavano sui seggi mentre marciavano uniti contro i martiri della Vandea. Quell'antesignano delle nostre democrazie non fu invece che la dialettizzazione cosmetica di un progenitore più schietto, del dispotismo illuminato dei philosophes che al popolo può tutt'al più concedere l'inchino del paternalismo volterriano: «Tout pour le peuple, rien par le peuple». In tempi di crisi questa contraddizione genetica riemerge come una malattia mai sopita, perché incurabile. Anni fa denunciavo le avvisaglie di una sua ricaduta nel diffondersi del concetto di «populismo» che, liquidata ogni parafrasi, storpiava la sovranità scritta nella nostra Carta in un dispregiativo da cui distanziarsi. La retorica delle «riforme» ha dato corpo a questa accezione intendendo l'intervento politico come una frustrazione necessaria del mandato, un farsi vanto delle «scelte impopolari» e del cavare «lacrime e sangue» dalla gente, di costringerla, rieducarla e punirla. Di questa genitura, ciò a cui stiamo assistendo è l'indiscutibile trionfo.
Eppure, per essere un trionfo è ben triste. Dove sono le fanfare e i tripudi di ogni degno regime? Dove suonano le trombe della propaganda, chi magnifica le sorti progressive, proprio ora che bussano all'uscio? Mentre l'armata globale avanza schiacciando ogni ostacolo, si fa più fitto il buio di un crepuscolo paralizzante. Si vive ogni giorno sotto il tallone di qualche nuova minaccia e le uniche vittorie che riusciamo a cantare è che... poteva andar peggio. I territori conquistati non li si guarda nemmeno, contano solo i fazzoletti di terra non ancora aggiogati. Il bicchiere è sempre mezzo vuoto, mancasse solo una goccia, sicché non è mai tempo di festa: più si vince e più si teme il nemico, più lo si schiaccia e più se ne esalta con rabbia il pericolo.
Qualcuno ha evocato i toni lugubri della distopia orwelliana, il cui onnipotente Partito investiva ogni energia per terrorizzare, sorvegliare e confondere la popolazione, ne reprimeva anche i pensieri e la addestrava ogni giorno a odiare un nemico. Se quel modello di dominazione in malo, che punta cioè tutto sulla paura dei peggiori e del peggio e che, non volendo offrire alcunché, può perciò solo togliere o minacciare di togliere, se quel modello vive oggi nello stile e nelle intenzioni, occorre però chiedersi quanto sia esso sostenibile nella realtà non letteraria e dove possa parare, se a un punto di riposo o rottura. Leggendo gli eventi, appare infatti chiaro che al crescere della violenza crescano di continuo le resistenze, e che queste chiamino di continuo violenza, sicché è difficile credere nell'assestamento più o meno pacifico di un nuovo sistema.
I primi dubbi sulla solidità dell'«ipotesi 1984» risalgono alla pubblicazione del libro. In una famosa lettera indirizzata al collega più giovane, Aldous Huxley riconosceva sì nel «sadismo» dei reggenti di Oceania la «logica conclusione» di una rivoluzione che partendo da Robespierre e Babeuf «mira alla sovversione totale della psicologia e della fisiologia dell'individuo», ma si diceva scettico sul fatto che «la politica dello stivale-che-calpesta-il-volto possa andare avanti all'infinito». Per Huxley, non si poteva aggirare il problema del «consent of the ruled», il consenso dei dominati che, spiegava in un'intervista televisiva del 1958, sarà piuttosto assicurato dalle nuove tecniche di propaganda suggerite dalla pubblicità commerciale con cui «bypassare il lato razionale dell'uomo e appellarsi direttamente alle sue forze inconsce» in modo non direttamente violento. Per rendere i sudditi «felici sotto il nuovo regime [o almeno] in situazioni in cui non dovrebbero esserlo» sarà fondamentale, prevedeva, l'apporto dei nuovi ritrovati tecnici: da un lato degli «apparecchi tecnologici che tutti desiderano utilizzare [e che] possono accelerare questo processo di sottrazione della libertà e di imposizione del controllo», dall'altro della «rivoluzione farmacologica in corso... potenti sostanze in grado di alterare la mente quasi senza effetti fisiologici collaterali».
In effetti, alcune di queste strategie sono diventate pietre angolari della gestione odierna del consenso, dallo stile tanto martellante e suggestivo quanto povero di ragionamento delle campagne di «sensibilizzazione» alle onnipresenti tecnologie digitali che agiscono sia come anestetico della socialità sia come strumento panottico di sorveglianza globale. Per quanto ci è dato sapere, mancano invece gli indizi di un condizionamento psicochimico in larga scala, benché la medicalizzazione reiterata e universale su cui si insiste oggi con così tanta ossessione renderebbe per la prima volta praticabile un siffatto intervento, almeno in potenza. È significativo che nel romanzo distopico di Huxley, Brave new world, la scure della repressione si abbatta sui dissidenti solo dopo aver tentato di impedire la distribuzione del «soma», la droga di Stato con cui il governo mondiale manteneva soggiogati e «felici» i cittadini.
Secondo alcuni commentatori la prospettiva huxleriana non sostituisce quella del collega, ma la integra, il bastone della repressione avrebbe cioè il ruolo di spingere sempre più persone verso la carota del condizionamento. Sennonché oggi accade l'inverso: la carota perde appeal e il bastone picchia sempre più duro. Gli scenari possibili sembrano dunque tendere alla crisi più che alla normalizzazione. Ma fino a che punto? Una persecuzione aperta, una recessione, un collasso, una rivoluzione «colorata», una guerra propedeutica alla legge marziale? E quanto l'esasperazione delle piazze è un intoppo, quanto piuttosto un coltivato pretesto? Non lo sappiamo. Ma l'idea che all'«ultima rivoluzione» potrebbero non bastare gli strumenti sin qui affinati, e che debba perciò reclamare un reset anche fisico, non era certo estranea ad Huxley, la cui lettera si concludeva con l'ammissione che «nel frattempo, naturalmente, potrebbe scoppiare una guerra biologica e nucleare di vaste dimensioni, nel qual caso avremo incubi di altro genere e difficili da immaginare».
Una conclusione piuttosto sconcertante che sconfessa l'ineluttabilità del processo e suggerisce al contrario che i grandi architetti, i costruttori di un progresso lontano dagli uomini e da Dio riescano solo a seminare il deserto, che il loro edificare sia precisamente e soltanto un distruggere. Alla fine - ma solo alla fine - è una buona notizia.





