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2019-01-30
Dagli avvocati ai professori. Le lobby che influenzano il Parlamento
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La pattuglia di docenti e professori passati alla politica consta di 32 unità. Una piccola compagnia, ma che trova ampio spazio sui giornali e nei dibattiti tivù.
Alcuni scelgono di mettersi in aspettativa, una possibilità prevista dalla legge, come Ugo Grassi, senatore dei 5 stelle e professore ordinario di diritto civile all'università Parthenope di Napoli, Marco Bella, deputato sempre dei 5 stelle e associato di chimica organica alla sapienza di Roma, e Anna Maria Bernini di Forza Italia, che potrebbe insegnare diritto pubblico a Bologna. Stessa scelta anche per il senatore del Pd Francesco Verducci, docente del dipartimento di scienze politiche all'università della Basilicata.
Ma in molti non rinunciano alla cattedra e non risultano in aspettativa. Fra loro anche nomi noti come Paola Binetti, che insegna storia della medicina ed etica al Campus biomedico di Roma, Gaetano Quagliariello, docente della Luiss, Andrea Romano, deputato dem e professore di storia delle istituzioni politiche a Messina. Si è messo invece in aspettativa Alberto Bagnai, leghista presidente della commissione permanente finanze del Senato e associato di politica economica all'università degli studi Gabriele d'Annunzio di Chieti e Pescara. Spulciando la lista, si scopre che fra le file dei 5 stelle la maggior parte dei parlamentari insegna in università del Sud: su tutte spicca la Federico II di Napoli. Il deputato grillino Lorenzo Fioramonti, romano di Tor Bella Monaca, invece lavora all'università di Pretoria, in Sudafrica, dove dirige il Centre for the study of governance innovation.
Fra i forzisti sono in maggioranza i giuristi, come nel Pd, dove si contano anche diversi economisti. Fra gli atenei, i preferiti sono quelli della Capitale: La Sapienza, la Luiss e Tor Vergata.
Un caso a sé lo merita la Bocconi. Università per eccellenza sponsor del liberismo e delle regole di mercato, vede in questo momento più di un ufficio vuoto. In primis quello di Tommaso Nannicini che, dopo essere stato consigliere economico dell'esecutivo Renzi, ha anche ricoperto un ruolo di governo per poi essere eletto tra le fila del Pd. Classe 1973, la sua carriera accademica è stata congelata. Nannicini è ordinario e nonostante questo è in aspettativa. Un po' come dire: se l'esperienza politica un giorno dovesse finire, posso sempre tornare a Milano e rioccupare la stanza chiusa chiave. Così fanno tutti, ma la scuola bocconiana che da anni preme per la meritocrazia e per le spinte del mercato ha in realtà prodotto più politici che tecnici in grado di fare spending review. Cattedre vuote, poi, non consentono ai più giovani di crescere di occupare gli spazi meritati.
D'altronde il più grande rappresentante della Bocconi ha portato questo concetto al livello estremo. Mario Monti per prendere l'incarico di premier tecnico ha accettato molto volentieri l'incarico di senatore a vita. Al di là dei danni prodotti all'economia reale (basti pensare che la Tobin tax è sua e pure le assurde imposte sulle auto di lusso e sui natanti), non contento dello schianto prodotto dal suo partito, ha ritenuto evidentemente che il seggio non è sufficiente. Il suo ufficio di presidente della Bocconi è parzialmente vuoto. Il senatore lo utilizza saltuariamente, ma sembra non aver alcuna intenzione di mollarlo. Lo stesso discorso vale per Tito Boeri. Terminata la sua esperienza ai vertici dell'Inps che farà? Potrebbero aprirsi due strade. La politica o perché no il ritorno in Bocconi.
é proprio opportuno tenere aperte due carriere? Cosa ne penserà Francesco Giavazzi, che del liberismo senza rete è uno dei maggiori cantori in Italia? Perché il tema di fondo è proprio questo. Gli economisti riusciranno sempre a restare indipendenti se le porte girevoli restano aperte. Passare dall'università alla politica è un dovere civico. Tornare dalla politica all'università può invece essere un rischio. Ultimo dettaglio: l'ex ministro Pier Carlo Padoan e ora deputato eletto al collegio di Siena (quello del salvataggio di Mps) è anche professore alla Sapienza dove è - inutile dirlo - in aspettativa.
Sono 135 gli avvocati seduti in Parlamento. Del doppio incarico non si parla dal 2013
Quando si affronta il tema del possibile conflitto di interesse di un avvocato che diventa parlamentare la memoria porta subito a Enrico De Nicola, primo presidente della Repubblica. Il principe del foro napoletano, nato nel 1877, non appena intraprese la carriera politica decise di chiudere il suo studio legale. È passato più di un secolo da allora ma il tema ricorre a ogni legislatura, perché la carica di avvocati che entrano a Montecitorio o a Palazzo Madama è sempre la più numerosa, sparpagliata nei più svariati partiti. C'è stata una riforma della professione nel 2013, ma i nodi da sciogliere sono ancora tutti sul tappeto. E il dibattito è quasi del tutto azzerato anche perché lo stesso presidente del Consiglio Giuseppe Conte è un avvocato.
Del resto la pattuglia forense è la più numerosa di questa legislatura: 88 membri alla Camera e 47 al Senato. È in media con quella delle ultime tre, considerando che tra il 2008 e il 2013 erano 134. In quella precedente a questa erano 71 a Montecitorio e 35 a palazzo Madama. Al momento il gruppo parlamentare che vanta più avvocati è quello del Movimento 5 stelle, con 29 deputati. Da Giovanni Luca Aresta a Stefania Ascari, poi Fabio Berardini, Vittoria Baldino, Giuseppe D'Ippolito, Andrea Colletti fino a Devis Dori, senza dimenticare i senatori Gelsomina Vono e Gianluca Perilli. Gli altri gruppi come Lega, Partito democratico e Forza Italia si attestano intorno ai 15 ciascuno. La questione è una ferita aperta all'interno della professione, perché, come già ribadito più volte, c'è il rischio di una violazione del mercato, dal momento che gli avvocati parlamentari hanno più visibilità. Ma soprattutto si incentra sull'esigenza «di garantire l'autonomia e l'indipendenza dell'avvocato nello svolgimento del suo incarico professionale».
Lo stesso Vittorio Grevi, ormai scomparso avvocato di Pavia, giurista di fama, in uno dei suoi ultimi interventi, spiegava come «la maggior parte degli avvocati eletti al Parlamento continua a svolgere, alcuni anche molto assiduamente, la propria attività professionale. Con il risultato di dare luogo a situazioni talora imbarazzanti (per non dire altro), come quando accade che un avvocato, dopo aver sostenuto determinate tesi difensive nelle sedi giudiziarie, magari senza troppo successo, si adoperi in veste di parlamentare per giungere al varo di una legge che fornisca un supporto, altrimenti assente, a quelle stesse tesi».
Se per i magistrati la situazione è ormai cambiata (al momento ce ne sono quattro tra Camera e Senato, Pietro Grasso; Giacomo Caliendo, Cosimo Ferri e Giusi Bartolozzi), per la professione di legale non è cambiato nulla. Del resto la legge parla chiaro. La sospensione scatta per gli incarichi governativi ricoperti ai sensi della legge sull'ordinamento forense 247/2012, che stabilisce una serie di incompatibilità tra l'esercizio della professione di avvocato e lo svolgimento di alcune delle massime cariche dello Stato. Nello specifico la norma precisa che sono sospesi dall'esercizio professionale durante il periodo della carica l'avvocato eletto presidente della Repubblica, presidente del Senato e presidente della Camera dei deputati. Conte è stato sospeso così come Alfonso Bonafede, ma per i parlamentari non c'è stato alcun cambiamento. Così Maria Elena Boschi, ex ministro per le Riforme, è rientrata nei ranghi, mentre il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi è sempre stato titolare di uno studio legale che negli ultimi anni si è espanso arrivando ad aprire una filiale anche a Milano.
Il dibattito si accese durante l'ultimo anno del governo Berlusconi. Celebre fu l'intervento di Franzo Grande Steven che rifletteva sul parallelo tra magistrati e avvocati. Perché, «mentre l'attività del magistrato è sospesa per legge per tutto il tempo in cui egli sia membro di un Parlamento, non v'è analoga disposizione per gli avvocati. È ragionevole questa differenza? Eppure agli occhi della gente e dei suoi colleghi l'avvocato può apparire non indipendente quando può promuovere - o concorrere alla formazione - di leggi che favoriscano un suo cliente, magari in un processo che lo stesso parlamentare sta seguendo come avvocato. La stessa cosa vale nei confronti dei colleghi parlamentari quando egli promuove o sostiene un intervento legislativo o giurisdizionale che coincida con gli interessi di un suo cliente». E in particolare, «giova una situazione del genere alla dignità di un avvocato che è - e deve essere - al di sopra di ogni sospetto». Parole rimaste inascoltate.
Il 33% degli eletti in Parlamento è rappresentato da alti dirigenti pubblici
Non c’è dubbio. Riuscire a diventare parlamentare in Italia significa vincere alla lotteria: stipendio da sogno, fama e accesso alla “stanza dei bottoni” del Paese. Senza considerare che dopo quattro anni si ha diritto a una pensione che molti comuni mortali mettono insieme in quarant’anni di lavoro.
In Italia, da quando si è insediato il governo Conte, si registrano 628 deputati e 318 senatori. 946 persone che, o hanno sempre lavorato nella politica oppure hanno messo in pausa la propria carriera per servire il Paese.
Gli avvocati sono la truppa più numerosa con 135 rappresentanti tra Camera (88) e Senato (47), leggermente di più rispetto alla penultima legislatura (71 a Palazzo Chigi e 46 a Palazzo Madama). Solo 4 i magistrati (Pietro Grasso, Cosimo Ferri, Giusi Bartolozzi e Giacomo Caliendo) contro i 18 di sei anni fa. Sono invece 45 le persone che hanno svolto la professione di docente universitario (22 al Senato e 23 alla Camera) prima di entrare in Parlamento. Un numero in diminuzione rispetto ai 29 deputati e ai 28 senatori che solcavano le cattedre prima di far parte della precedente legislatura.
Secondo uno studio di FB & Associati, società di consulenza specializzata in lobbying, circa il 33% degli eletti in Parlamento è rappresentato da alti dirigenti pubblici (tra cui figurano anche i magistrati) e privati, avvocati, accademici e medici.
Più in dettaglio gli accademici, secondo F&B Associati, rappresentano il 4% dei Parlamentari mentre gli avvocati sono l’11,6%. I magistrati (che si contano sulle dita di una mano) rappresentano lo 0,4% dei parlamentari.
Giunto al governo nel marzo 2018, oggi il Movimento 5 Stelle, secondo lo studio di FB Associati, può contare su una forza lavoro in Parlamento costituita per il 12,7% da avvocati e per il 5,7% da accademici. Un po’ meno gli avvocati che oggi operano come parlamentari per il Partito Democratico: il 9,8% del totale. Il Pd è anche il partito con il maggior numero di accademici: il 7,3% di tutti i parlamentari del partito presieduto da Matteo Orfini.
Sempre il 9,8% (la stessa del Pd) è la percentuale di avvocati che ora sono parlamentari in quota Lega. Decisamente meno, però, gli accademici che hanno seguito Matteo Salvini a Palazzo Chigi e Madama: solo l’1,1% del totale.
I legali spopolano anche in Forza Italia: ben il 12,4% dei parlamentari. Non si può affermare lo stesso per i professori universitari: sono solo l’1,9% del totale di chi siede in Parlamento. Forza Italia è però il partito con il maggior numero di imprenditori.
È avvocato anche il 10% del totale dei parlamentari di Fratelli d’Italia, mentre gli accademici in forza alla presidente Giorgia Meloni sono il 4%. Altissimo, in percentuale, il numero di legali che c’è in Liberi e Uguali: il 16,7%. Il 5,6% dei parlamentari del partito di Pietro Grasso ha invece una cattedra in università. Infine c’è il gruppo misto: in questo partito il 16,7% di chi siede in Parlamento è avvocato. Il 6,7%, invece, insegna all’interno di un ateneo.
Non mancano, dunque, quelli che hanno scelto di entrare a Palazzo Madama o a Palazzo Chigi chiedendo un’aspettativa e congelando di fatto la loro posizione professionale. Bloccando, in pratica, un ruolo (spesso apicale) che in questo modo altri, magari più giovani, non possono occupare e soprattutto continuando a maturare contributi figurativi (quelli accreditati gratuitamente mentre si registra una riduzione o l’interruzione di una attività lavorativa) e dunque pesando sul sistema pensionistico nazionale.
C’è però da fare una precisazione: non tutti i professionisti che sono oggi in Parlamento hanno dovuto chiedere di recente un’aspettativa: sono molti infatti coloro che da tempo si fregiano di un ruolo che non ricoprono più a causa di un’attività politica prolungata. Persone che hanno chiesto inizialmente un periodo di aspettativa, ma che poi hanno preferito fermarsi in Parlamento. Si tratta di professionisti che affermano di essere avvocati, magistrati o docenti universitari (ma anche dirigenti o giornalisti) che in realtà da tempo non svolgono un’occupazione che non sia quella istituzionale.
C’è però una differenza sostanziale tra docenti universitari, giudici e principi del Foro. Questi ultimi, infatti (non è un caso infatti che gli avvocati siano i più numerosi), come lavoratori autonomi, possono dividersi tra corridoi e aule di Tribunale.
In pratica, lo stesso vale anche per commercialisti, medici o imprenditori, si tratta di lavoratori che possono tranquillamente continuare a percepire un doppio reddito, magari circondandosi di fidati collaboratori che fanno gran parte del lavoro.
Ci sono alcuni nomi illustri che hanno, seguendo le disposizioni di legge sia ben chiaro, avuto una doppia vita per tutta la loro carriera. È il caso, ad esempio, del senatore Nicolò Ghedini (famoso per un alto tasso di assenze durante le votazioni e a lungo legale di Silvio Berlusconi) o per Giulia Bongiorno (ora ministro per la pubblica amministrazione). Entrambi sono noti avvocati che hanno continuato a portare avanti i rispettivi studi legali. Lo si può intuire dando uno sguardo alle rispettive dichiarazione dei redditi, più che milionarie, che di certo non possono arrivare solo dall’attività parlamentare.
Tutto in regola, certo. Ma non sempre la giurisprudenza giustifica un’etica quantomeno dubbia.
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In Aula 135 avvocati e la legge che vieta il doppio incarico non passerà mai. I magistrati sono quattro e a differenza degli altri togati hanno l'obbligo di sospensione. Restrizioni solo per chi sta al governo.Ben 32 docenti tra senatori e deputati, gran parte in aspettativa. Deserto ai piani alti della Bocconi tra Tommaso Nannicini, Mario Monti (ex docente e ora presidente) e Tito Boeri (all'Inps). Ecco l'elenco completo di magistrati, avvocati, professori e medici in Parlamento. Lo speciale contiene tre articoli. !function(e,t,s,i){var n="InfogramEmbeds",o=e.getElementsByTagName("script")[0],d=/^http:/.test(e.location)?"http:":"https:";if(/^\/{2}/.test(i)&&(i=d+i),window[n]&&window[n].initialized)window[n].process&&window[n].process();else if(!e.getElementById(s)){var r=e.createElement("script");r.async=1,r.id=s,r.src=i,o.parentNode.insertBefore(r,o)}}(document,0,"infogram-async","https://e.infogram.com/js/dist/embed-loader-min.js");La pattuglia di docenti e professori passati alla politica consta di 32 unità. Una piccola compagnia, ma che trova ampio spazio sui giornali e nei dibattiti tivù.Alcuni scelgono di mettersi in aspettativa, una possibilità prevista dalla legge, come Ugo Grassi, senatore dei 5 stelle e professore ordinario di diritto civile all'università Parthenope di Napoli, Marco Bella, deputato sempre dei 5 stelle e associato di chimica organica alla sapienza di Roma, e Anna Maria Bernini di Forza Italia, che potrebbe insegnare diritto pubblico a Bologna. Stessa scelta anche per il senatore del Pd Francesco Verducci, docente del dipartimento di scienze politiche all'università della Basilicata.Ma in molti non rinunciano alla cattedra e non risultano in aspettativa. Fra loro anche nomi noti come Paola Binetti, che insegna storia della medicina ed etica al Campus biomedico di Roma, Gaetano Quagliariello, docente della Luiss, Andrea Romano, deputato dem e professore di storia delle istituzioni politiche a Messina. Si è messo invece in aspettativa Alberto Bagnai, leghista presidente della commissione permanente finanze del Senato e associato di politica economica all'università degli studi Gabriele d'Annunzio di Chieti e Pescara. Spulciando la lista, si scopre che fra le file dei 5 stelle la maggior parte dei parlamentari insegna in università del Sud: su tutte spicca la Federico II di Napoli. Il deputato grillino Lorenzo Fioramonti, romano di Tor Bella Monaca, invece lavora all'università di Pretoria, in Sudafrica, dove dirige il Centre for the study of governance innovation.Fra i forzisti sono in maggioranza i giuristi, come nel Pd, dove si contano anche diversi economisti. Fra gli atenei, i preferiti sono quelli della Capitale: La Sapienza, la Luiss e Tor Vergata.Un caso a sé lo merita la Bocconi. Università per eccellenza sponsor del liberismo e delle regole di mercato, vede in questo momento più di un ufficio vuoto. In primis quello di Tommaso Nannicini che, dopo essere stato consigliere economico dell'esecutivo Renzi, ha anche ricoperto un ruolo di governo per poi essere eletto tra le fila del Pd. Classe 1973, la sua carriera accademica è stata congelata. Nannicini è ordinario e nonostante questo è in aspettativa. Un po' come dire: se l'esperienza politica un giorno dovesse finire, posso sempre tornare a Milano e rioccupare la stanza chiusa chiave. Così fanno tutti, ma la scuola bocconiana che da anni preme per la meritocrazia e per le spinte del mercato ha in realtà prodotto più politici che tecnici in grado di fare spending review. Cattedre vuote, poi, non consentono ai più giovani di crescere di occupare gli spazi meritati.D'altronde il più grande rappresentante della Bocconi ha portato questo concetto al livello estremo. Mario Monti per prendere l'incarico di premier tecnico ha accettato molto volentieri l'incarico di senatore a vita. Al di là dei danni prodotti all'economia reale (basti pensare che la Tobin tax è sua e pure le assurde imposte sulle auto di lusso e sui natanti), non contento dello schianto prodotto dal suo partito, ha ritenuto evidentemente che il seggio non è sufficiente. Il suo ufficio di presidente della Bocconi è parzialmente vuoto. Il senatore lo utilizza saltuariamente, ma sembra non aver alcuna intenzione di mollarlo. Lo stesso discorso vale per Tito Boeri. Terminata la sua esperienza ai vertici dell'Inps che farà? Potrebbero aprirsi due strade. La politica o perché no il ritorno in Bocconi.é proprio opportuno tenere aperte due carriere? Cosa ne penserà Francesco Giavazzi, che del liberismo senza rete è uno dei maggiori cantori in Italia? Perché il tema di fondo è proprio questo. Gli economisti riusciranno sempre a restare indipendenti se le porte girevoli restano aperte. Passare dall'università alla politica è un dovere civico. Tornare dalla politica all'università può invece essere un rischio. Ultimo dettaglio: l'ex ministro Pier Carlo Padoan e ora deputato eletto al collegio di Siena (quello del salvataggio di Mps) è anche professore alla Sapienza dove è - inutile dirlo - in aspettativa. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sono-145-gli-avvocati-seduti-in-parlamento-del-doppio-incarico-non-si-parla-dal-2013-2627428103.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="sono-135-gli-avvocati-seduti-in-parlamento-del-doppio-incarico-non-si-parla-dal-2013" data-post-id="2627428103" data-published-at="1766494152" data-use-pagination="False"> Sono 135 gli avvocati seduti in Parlamento. Del doppio incarico non si parla dal 2013 Quando si affronta il tema del possibile conflitto di interesse di un avvocato che diventa parlamentare la memoria porta subito a Enrico De Nicola, primo presidente della Repubblica. Il principe del foro napoletano, nato nel 1877, non appena intraprese la carriera politica decise di chiudere il suo studio legale. È passato più di un secolo da allora ma il tema ricorre a ogni legislatura, perché la carica di avvocati che entrano a Montecitorio o a Palazzo Madama è sempre la più numerosa, sparpagliata nei più svariati partiti. C'è stata una riforma della professione nel 2013, ma i nodi da sciogliere sono ancora tutti sul tappeto. E il dibattito è quasi del tutto azzerato anche perché lo stesso presidente del Consiglio Giuseppe Conte è un avvocato. Del resto la pattuglia forense è la più numerosa di questa legislatura: 88 membri alla Camera e 47 al Senato. È in media con quella delle ultime tre, considerando che tra il 2008 e il 2013 erano 134. In quella precedente a questa erano 71 a Montecitorio e 35 a palazzo Madama. Al momento il gruppo parlamentare che vanta più avvocati è quello del Movimento 5 stelle, con 29 deputati. Da Giovanni Luca Aresta a Stefania Ascari, poi Fabio Berardini, Vittoria Baldino, Giuseppe D'Ippolito, Andrea Colletti fino a Devis Dori, senza dimenticare i senatori Gelsomina Vono e Gianluca Perilli. Gli altri gruppi come Lega, Partito democratico e Forza Italia si attestano intorno ai 15 ciascuno. La questione è una ferita aperta all'interno della professione, perché, come già ribadito più volte, c'è il rischio di una violazione del mercato, dal momento che gli avvocati parlamentari hanno più visibilità. Ma soprattutto si incentra sull'esigenza «di garantire l'autonomia e l'indipendenza dell'avvocato nello svolgimento del suo incarico professionale». Lo stesso Vittorio Grevi, ormai scomparso avvocato di Pavia, giurista di fama, in uno dei suoi ultimi interventi, spiegava come «la maggior parte degli avvocati eletti al Parlamento continua a svolgere, alcuni anche molto assiduamente, la propria attività professionale. Con il risultato di dare luogo a situazioni talora imbarazzanti (per non dire altro), come quando accade che un avvocato, dopo aver sostenuto determinate tesi difensive nelle sedi giudiziarie, magari senza troppo successo, si adoperi in veste di parlamentare per giungere al varo di una legge che fornisca un supporto, altrimenti assente, a quelle stesse tesi». Se per i magistrati la situazione è ormai cambiata (al momento ce ne sono quattro tra Camera e Senato, Pietro Grasso; Giacomo Caliendo, Cosimo Ferri e Giusi Bartolozzi), per la professione di legale non è cambiato nulla. Del resto la legge parla chiaro. La sospensione scatta per gli incarichi governativi ricoperti ai sensi della legge sull'ordinamento forense 247/2012, che stabilisce una serie di incompatibilità tra l'esercizio della professione di avvocato e lo svolgimento di alcune delle massime cariche dello Stato. Nello specifico la norma precisa che sono sospesi dall'esercizio professionale durante il periodo della carica l'avvocato eletto presidente della Repubblica, presidente del Senato e presidente della Camera dei deputati. Conte è stato sospeso così come Alfonso Bonafede, ma per i parlamentari non c'è stato alcun cambiamento. Così Maria Elena Boschi, ex ministro per le Riforme, è rientrata nei ranghi, mentre il tesoriere del Pd Francesco Bonifazi è sempre stato titolare di uno studio legale che negli ultimi anni si è espanso arrivando ad aprire una filiale anche a Milano. Il dibattito si accese durante l'ultimo anno del governo Berlusconi. Celebre fu l'intervento di Franzo Grande Steven che rifletteva sul parallelo tra magistrati e avvocati. Perché, «mentre l'attività del magistrato è sospesa per legge per tutto il tempo in cui egli sia membro di un Parlamento, non v'è analoga disposizione per gli avvocati. È ragionevole questa differenza? 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In Italia, da quando si è insediato il governo Conte, si registrano 628 deputati e 318 senatori. 946 persone che, o hanno sempre lavorato nella politica oppure hanno messo in pausa la propria carriera per servire il Paese. Gli avvocati sono la truppa più numerosa con 135 rappresentanti tra Camera (88) e Senato (47), leggermente di più rispetto alla penultima legislatura (71 a Palazzo Chigi e 46 a Palazzo Madama). Solo 4 i magistrati (Pietro Grasso, Cosimo Ferri, Giusi Bartolozzi e Giacomo Caliendo) contro i 18 di sei anni fa. Sono invece 45 le persone che hanno svolto la professione di docente universitario (22 al Senato e 23 alla Camera) prima di entrare in Parlamento. Un numero in diminuzione rispetto ai 29 deputati e ai 28 senatori che solcavano le cattedre prima di far parte della precedente legislatura. 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Sempre il 9,8% (la stessa del Pd) è la percentuale di avvocati che ora sono parlamentari in quota Lega. Decisamente meno, però, gli accademici che hanno seguito Matteo Salvini a Palazzo Chigi e Madama: solo l’1,1% del totale.I legali spopolano anche in Forza Italia: ben il 12,4% dei parlamentari. Non si può affermare lo stesso per i professori universitari: sono solo l’1,9% del totale di chi siede in Parlamento. Forza Italia è però il partito con il maggior numero di imprenditori. È avvocato anche il 10% del totale dei parlamentari di Fratelli d’Italia, mentre gli accademici in forza alla presidente Giorgia Meloni sono il 4%. Altissimo, in percentuale, il numero di legali che c’è in Liberi e Uguali: il 16,7%. Il 5,6% dei parlamentari del partito di Pietro Grasso ha invece una cattedra in università. Infine c’è il gruppo misto: in questo partito il 16,7% di chi siede in Parlamento è avvocato. Il 6,7%, invece, insegna all’interno di un ateneo. Non mancano, dunque, quelli che hanno scelto di entrare a Palazzo Madama o a Palazzo Chigi chiedendo un’aspettativa e congelando di fatto la loro posizione professionale. Bloccando, in pratica, un ruolo (spesso apicale) che in questo modo altri, magari più giovani, non possono occupare e soprattutto continuando a maturare contributi figurativi (quelli accreditati gratuitamente mentre si registra una riduzione o l’interruzione di una attività lavorativa) e dunque pesando sul sistema pensionistico nazionale. C’è però da fare una precisazione: non tutti i professionisti che sono oggi in Parlamento hanno dovuto chiedere di recente un’aspettativa: sono molti infatti coloro che da tempo si fregiano di un ruolo che non ricoprono più a causa di un’attività politica prolungata. Persone che hanno chiesto inizialmente un periodo di aspettativa, ma che poi hanno preferito fermarsi in Parlamento. Si tratta di professionisti che affermano di essere avvocati, magistrati o docenti universitari (ma anche dirigenti o giornalisti) che in realtà da tempo non svolgono un’occupazione che non sia quella istituzionale. C’è però una differenza sostanziale tra docenti universitari, giudici e principi del Foro. Questi ultimi, infatti (non è un caso infatti che gli avvocati siano i più numerosi), come lavoratori autonomi, possono dividersi tra corridoi e aule di Tribunale. In pratica, lo stesso vale anche per commercialisti, medici o imprenditori, si tratta di lavoratori che possono tranquillamente continuare a percepire un doppio reddito, magari circondandosi di fidati collaboratori che fanno gran parte del lavoro.Ci sono alcuni nomi illustri che hanno, seguendo le disposizioni di legge sia ben chiaro, avuto una doppia vita per tutta la loro carriera. È il caso, ad esempio, del senatore Nicolò Ghedini (famoso per un alto tasso di assenze durante le votazioni e a lungo legale di Silvio Berlusconi) o per Giulia Bongiorno (ora ministro per la pubblica amministrazione). Entrambi sono noti avvocati che hanno continuato a portare avanti i rispettivi studi legali. Lo si può intuire dando uno sguardo alle rispettive dichiarazione dei redditi, più che milionarie, che di certo non possono arrivare solo dall’attività parlamentare.Tutto in regola, certo. Ma non sempre la giurisprudenza giustifica un’etica quantomeno dubbia.
Eugenia Roccella, ministro per la Famiglia, la Natalità e le Pari Opportunità (Ansa)
A testimoniare tale consapevolezza sarebbero «il percorso psicoterapico seguito con costanza, le terapie ormonali praticate con successo e la matura gestione del disagio sociale conseguente al processo di cambiamento». A prima vista tutto appare molto chiaro, molto trasparente, molto informato e molto scientifico. Il fatto, però, è che in Italia riguardo al cambiamento di sesso dei minori la situazione è tutto tranne che chiara e trasparente.
Nel 2024 è stato istituito il Tavolo tecnico interministeriale sui minori con disforia di genere, una struttura di fatto consultiva che ha proprio l’obiettivo di mettere un po’ d’ordine nell’attuale caos. Tanto per capirsi: a oggi non si sa nemmeno quanti minori abbiano intrapreso percorsi di cambiamento di sesso, a quanti e per quanto tempo vengano somministrati i farmaci cosiddetti bloccanti della pubertà, quanti e con che conseguenze si sottopongano a trattamenti ormonali. Non sono chiare nemmeno le linee guida seguite dalle varie strutture ospedaliere, dato che non esistono indicazioni ministeriali. Questo tavolo si riunirà ancora a gennaio e dovrebbe produrre una relazione che aiuti ad avere qualche informazione in più, ma non sfornerà nulla di risolutivo.
Maggiori passi avanti dovrebbero arrivare grazie al disegno di legge presentato dai ministri Eugenia Roccella e Orazio Schillaci che introduce disposizioni per la appropriatezza prescrittiva e il corretto utilizzo dei farmaci per la disforia di genere, cioè bloccanti della pubertà come la triptorelina e poi ormoni. Si tratterebbe di un giro di vite fondamentale, perché il ddl - benché non possa bloccare la somministrazione dei farmaci come avvenuto in altre nazioni - può stabilire dei paletti chiari. Tanto per cominciare istituirebbe un registro delle somministrazioni: finalmente si saprebbe chi prescrive un farmaco, per quanto tempo e a fronte di quali evidenze. Poi - elemento ancora più rilevante - dovrebbe essere un comitato etico a validare ogni nuova somministrazione.
Attualmente il ddl è in discussione nella commissione affari sociali della Camera, dove si sono svolte negli ultimi mesi varie audizioni, alcune delle quali estremamente rilevanti. Per la prima volta, ad esempio, hanno preso la parola alcune madri di minori con disforia di genere, alcuni dei quali hanno scelto di non proseguire nel percorso di cambiamento di sesso o hanno cambiato idea dopo averlo iniziato.
In particolare sono state audite le rappresentanti di Generazione D, una «associazione culturale apartitica, aconfessionale e priva di scopi di lucro, il cui obiettivo è informare in merito alle problematiche della disforia/incongruenza di genere in bambini, adolescenti e giovani adulti».
La presidente dell’associazione in commissione ha fornito alcuni dettagli sull’associazione. «Oggi tra i nostri figli troviamo bambini dagli 11 anni, adolescenti e giovani adulti con percorsi molto diversi: alcuni sono seguiti da psicologi senza interventi medici, altri hanno iniziato terapie ormonali e altri ancora hanno già subito interventi chirurgici. Registriamo inoltre numerosi casi di desistenza e detransizione, che ci permettono di avere una visione diretta di tutti gli stadi del percorso. Per la quasi totalità, la disforia è insorta improvvisamente in adolescenza, spesso durante o subito dopo il lockdown, periodo nel quale numerosi studi rilevano un aumento generale del disagio giovanile. In tale contesto, la disforia sembra talvolta assumere forme di contagio sociale, alimentate dalla sovraesposizione a social network e influencer. Osserviamo inoltre un aumento di maschi con neurodivergenze o disturbi psichiatrici che manifestano un’identificazione transgender solo in adolescenza, senza segnali precedenti».
Sono elementi, questi, decisamente importanti, che contribuiscono a smontare l’immagine della disforia o incongruenza di genere quale questione monolitica da affrontare in un modo preciso. «I genitori che si rivolgono a noi - circa due a settimana - sono spaventati, disorientati e spesso delusi dalle risposte ricevute nei centri specializzati, dove la disforia viene presentata come una condizione innata e immutabile da assecondare subito per evitare rischi suicidari. In molti casi viene persino rivolto loro, anche davanti ai figli, il quesito: «Preferisce un figlio morto o una figlia trans?» o viceversa, generando una pressione emotiva che ostacola una valutazione serena e realmente informata», dicono ancora gli esponenti dell’associazione. Secondo Generazione D è dunque necessaria «una maggiore cautela nella medicalizzazione dei minori, ricordando che tutti i Paesi pionieri dell’approccio affermativo stanno rivedendo le proprie linee guida. Senza un’adeguata esplorazione psicologica, la disforia di genere rischia di diventare un ombrello diagnostico sotto il quale comorbidità importanti restano invisibili e non trattate». La commissione parlamentare ha ovviamente udito anche voci differenti, tra cui quelle degli attivisti trans. Nota a margine: proprio da profili social legati all’attivismo trans sono arrivati attacchi e insulti online alle madri di Generazione D che hanno scelto di esporsi.
Il dato importante, comunque, è che per la prima volta in Aula siano state raccontate storie vere e diverse dalla consueta narrazione che pone la transizione di genere come unica via per affrontare ogni problema legato all’identità sessuale. Purtroppo, bisogna anche constatare che tale narrazione è ancora molto (troppo diffusa) persino fra le società scientifiche che si occupano del tema. Pochi giorni fa, otto realtà italiane tra cui la Società italiana di endocrinologia (Sie), la Società italiana di endocrinologia e diabetologia pediatrica (Siedp) e l’Osservatorio nazionale identità di genere (Onig) hanno firmato un appello contro il ddl attualmente in discussione, sostenendo che la legge «rischia di limitare fortemente l’accesso alle cure sanitarie per le persone minorenni transgender». Come spesso accade, a questo appello è stata data grande rilevanza, ma giustamente Generazione D fa notare che «appare doveroso ricondurre il documento alla sua reale portata rappresentativa. In Italia operano centinaia di associazioni e società scientifiche delle professioni sanitarie: secondo gli elenchi pubblicati dal ministero della Salute, il numero supera ampiamente le quattrocento. A fronte di tale pluralità, il comunicato in oggetto è firmato da sole sei società scientifiche, di cui appena due di area pediatrica, affiancate da una federazione e da una associazione culturale che, per definizione, non hanno funzione di produzione di linee guida cliniche». Inoltre, dice ancora Generazione D, «le società firmatarie rivendicano l’esistenza di evidenze scientifiche, ma non producono dati italiani, né su accessi, né su trattamenti, né su esiti clinici. Eppure criticano un decreto che istituisce un registro nazionale dei farmaci, che rappresenterebbe lo strumento minimo indispensabile per iniziare a raccogliere tali informazioni».
Il punto è tutto qui. In Italia sono concesse decisioni allucinanti come quella di La Spezia in totale assenza di dati chiari, di linee guida certe e di consenso scientifico sul tema e alcune realtà che si definiscono tecniche fanno politica e battagliano contro il governo che cerca di mettere ordine.
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Il Napoli festeggia la Supercoppa italiana dopo aver battuto il Bologna 2-0 a Riyadh (Ansa)
A Riyadh il Napoli conquista la seconda Supercoppa italiana della sua storia battendo 2-0 il Bologna. La finale si decide tra la fine del primo tempo e l’inizio della ripresa con la doppietta del brasiliano. Conte: «I ragazzi trasudavano voglia di vincere questo trofeo. Voglia di mettere in bacheca e di continuare a scrivere la storia». Italiano: «Non ho nulla da recriminare ai ragazzi. Questa esperienza ci farà crescere».
Il Napoli è supercampione d’Italia. A Riyadh gli azzurri battono 2-0 il Bologna e conquistano la seconda Supercoppa italiana della loro storia, chiudendo la finale già all’inizio della ripresa con la doppietta di Neres. In una finale mai realmente sfuggita al controllo degli azzurri è stata la squadra di Antonio Conte a confermarsi supercampione d’Italia. Il Bologna è rimasto in gara soltanto nel primo tempo fino al momento in cui il lampo di Neres ha abbagliato prima Ravaglia e poi tutti i 17.869 spettatori del Al-Awwal park, compresi i cosiddetti figuranti che durante la partita non hanno comunque fatto mancare la propria partecipazione da una parte e dall’altra urlando «Napuli, Napuli, Napuli» o «Bulugna, Bulugna, Bulugna»; ma che arrivato il triplice fischio di Colombo hanno pensato bene di abbandonare in fretta e furia lo stadio senza godersi nemmeno lo spettacolo della premiazione.
Fermo restando che il bilancio degli spettatori presenti alla finalissima ha comunque superato di circa un migliaio quello della semifinale di venerdì tra Bologna e Inter, va al tempo stesso sottolineato per dovere di cronaca che per evitare un colpo d’occhio non da finale le due curve del secondo anello sono state coperte con teloni raffiguranti il logo della Supercoppa e quelli dei club. Ma lo spettacolo è stato soprattutto quello confezionato dalla Lega Serie A prima del calcio d’inizio, con la passerella sul prato per alcune leggende del calcio italiano, da Roberto Baggio e Alessandro Del Piero a Fabio Capello, Christian Vieri e Marco Materazzi, Leonardo Bonucci, Ciro Ferrara, Vincent Candela e Christian Panucci. A completare lo show prepartita un mix di giochi di luci laser, getti di fuoco a bordo campo e fuochi d’artificio a illuminare il cielo di Riyadh. Finito lo spettacolo, finalmente il campo.
Conte non ha toccato nulla rispetto alla semifinale vinta contro il Milan e ha confermato l’undici titolare con Neres e McTominay ad agire alle spalle di Hojlund. Vincenzo Italiano, privo di Bernardeschi, ha inserito Cambiaghi e rilanciato Ferguson in mediana al posto di Moro. Per gran parte del primo tempo il Bologna ha provato a reggere l’urto generato dalle fiammate napoletane con attenzione difensiva, con la coppia dei centrali Heggem-Lucumi praticamente perfetta e un Ravaglia ancora una volta protagonista assoluto come contro l’Inter. La prima vera occasione è arrivata al 10’, quando Elmas è entrato in area da sinistra e ha calciato fuori a tu per tu con Ravaglia. È il segnale di un dominio territoriale che si è consolidato col passare dei minuti. Il Bologna ha tenuto, ma ha faticato a ripartire e si è affidato soprattutto alle iniziative di Orsolini. Al 31’ McTominay è andato vicino al vantaggio, poi al 37’ Spinazzola ha provato lo scavetto, trovando ancora la risposta del portiere rossoblù. Il muro, però, è crollato al 39’: Neres ha ricevuto su una rimessa laterale apparentemente innocua, si è spostato il pallone sul mancino e ha disegnato una traiettoria imparabile sotto l’incrocio. È l’1-0 che ha indirizzato la finale in maniera decisiva.
Nella ripresa il Napoli è infatti ripartito forte. Ravaglia ha salvato su Hojlund e Rrahmani, ma il Bologna può recriminare per non aver sfruttato la più grande occasione per rimettersi in carreggiata: al 55’ Orsolini ha sfondato a destra e servito Ferguson, che di testa non è riuscito però ad angolare, facilitando la presa di Milinkovic-Savic. È l’episodio che avrebbe potuto riaprire la gara. Un minuto dopo, invece, è arrivato il colpo del ko. Il raddoppio è un mix di pressione e errore: Heggem ha appoggiato corto, Ravaglia ha giocato male su Lucumi e Neres si è avventato sul pallone, anticipando tutti e superando il portiere con un tocco sotto per la doppietta personale. La finale è finita lì. Conte ha gestito, Italiano ha provato a cambiare uomini ma non l’inerzia. Il Napoli ha sfiorato anche il 3-0 nel finale, mentre il Bologna si è spento progressivamente, con qualche tentativo velleitario di Rowe.
Al fischio finale è festa azzurra sotto le luci dell’Al-Awwal Park, con il trofeo sollevato al cielo di Riyadh da Di Lorenzo sulle note di ’O surdato ’nnammurato. Secondo trofeo per Conte alla guida del Napoli, conferma di una squadra che ha saputo trasformare la Supercoppa in una naturale estensione della stagione precedente.
Nelle parole dei protagonisti c’è la fotografia della serata. Conte ha celebrato la voglia di vincere dei suoi e ha reso onore al Bologna: «Siam venuti qui per difendere lo Scudetto sulla maglia e difendere il motivo perchè abbiamo lo Scudetto sulla maglia. Abbiamo fatto un’ottima semifinale contro il Milan che è una grandissima squadra. Oggi abbiamo battuto il Bologna, non parlerei di rivincita ma faccio i complimenti ai ragazzi perché trasudavano voglia di vincere questo trofeo. Voglia di mettere in bacheca e di continuare a scrivere la storia. Complimenti a loro quindi. Però nella vittoria vorrei sottolineare ciò che sta facendo il Bologna: complimenti a loro, sono cresciuti tantissimo, una certezza è diventata, come l’Atalanta. Ha eliminato l’Inter, in campionato ci ha battuto e grande merito a Vincenzo Italiano e onore non solo ai vincitori ma anche a chi non ha vinto. Non mi piace dire sconfitti. Vanno i miei più grandi complimenti». Italiano, invece, ha fatto i complimenti ai suoi ragazzi e rivendicato il percorso: «Non ho nulla da recriminare ai ragazzi. Merito al Napoli. Noi ci dobbiamo portare dentro questa bellissima esperienza e secondo me cresceremo ancora perché dobbiamo affrontare altre tre competizioni importanti e questa esperienza ci insegnerà tanto. Mi dispiace per la nostra gente, ma noi abbiamo dato il massimo, ma ripeto merito al nostro avversario che è una squadra fortissima che oggi secondo me ha over performato e ha fatto una partita straordinaria. Noi abbiamo dato e di questo nessuno può dire nulla. Cercheremo di fare meglio in futuro».
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I servizi di emergenza polacchi sul luogo dell'incidente di un drone nel villaggio di Wohyn, nella Polonia orientale, lo scorso 10 settembre (Ansa)
Qualche volta le paure finiscono addirittura nel ridicolo, come nel caso di un’incursione aerea nei cieli di Varese. Nella primavera scorsa il sistema di sicurezza del centro di ricerca della commissione europea di Ispra aveva segnalato l’incursione di un drone sopra la sede della divisione elicotteri di Leonardo, a Vergiate. Subito era scattato l’allarme e si era ipotizzato che il velivolo fosse stato fatto sorvolare dai russi, allo scopo di carpire i segreti della principale azienda italiana impegnata nel settore della Difesa. A distanza di mesi, l’inchiesta ha invece accertato che non si trattava di un’attività spionistica di agenti al servizio di Putin, ma semplicemente di un’interferenza generata da un software difettoso, perché usato senza rispettare le indicazioni del produttore, e di un amplificatore di segnale Gsm, comprato su Amazon da un ignaro italiano che voleva aumentare la ricezione del suo cellulare tra le mura della sua casa. Sì, il pericolo non arrivava da Mosca né dalle mire espansionistiche del Cremlino, ma da una villetta di Ispra il cui segnale disturbava i rilevatori dell’istituto di ricerca della Commissione europea. Insomma, tanta paura per nulla.Ma se si riavvolge il nastro degli ultimi mesi, non si tratta della prima volta in cui i fischi vengono scambiati per fiaschi. Il ministro della Difesa danese Troels Lund Poulsen di recente ha dovuto ammettere che le incursioni di velivoli senza pilota su vari aeroporti del Paese al momento non sono riconducibili alla Russia. Nelle settimane scorse era infatti scattato l’allarme per il timore di un attacco ibrido, ma poi si è scoperto che i droni non erano arrivati da lontano, ma erano decollati localmente. Dunque, a meno di ipotizzare la presenza di spie al soldo di Putin a pochi chilometri da Copenaghen, quella che pareva una minaccia in realtà era più probabilmente l’azione di qualche privato, un po’ come nel caso della villetta di Ispra. Del resto, quelle che negli ultimi mesi sono state presentate come operazioni russe di disturbo, quasi sempre dopo qualche settimana sono state ridimensionate a incidenti o errori. Prendete il drone sulla Polonia caduto a fine settembre. Subito si era parlato di un velivolo russo, ma poi si è scoperto che a sfondare il tetto di un’abitazione a Wyryki-Wola, nella regione di Lublino, non era un aereo senza pilota lanciato dai russi, ma un missile polacco difettoso, sparato da un F-16 per abbattere alcuni droni entrati nello spazio aereo di Varsavia, probabilmente perché la loro traiettoria era stata deviata dai sistemi elettronici di Kiev. Sì, insomma, non un attacco ma un incidente provocato dalla difesa ucraina e polacca. A inizio settembre c’era poi stato «l’attacco» al volo su cui viaggiava il presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen. Anche allora le principali testate parlarono di una manovra di sabotaggio del sistema aereo da parte della Russia, notizia rivelatasi poi priva di fondamento e smentita da Bruxelles. La sindrome dell’aggressione gioca dunque brutti scherzi, o forse qualcuno sta provando a forzare la mano perché a forza di lanciare allarmi capiti un incidente, magari con una risposta preventiva a un presunto attacco. Del resto, non è quello che ha detto l’ammiraglio Cavo Dragone, immaginando non una reazione di difesa, ma una di offesa per dare un segnale ai russi. Che cosa voglia dire un intervento preventivo ve lo potete immaginare. Di solito è così che cominciano le guerre. In fondo non c’è un motto secondo cui chi colpisce per primo colpisce due volte? A quanto pare è la strategia militare a cui si ispirano alcuni comandanti che non vedono l’ora di fare la guerra invece che la pace.
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In un battibaleno, si è sgretolata l’inquietante spy story dalla Russia con amore: i tentativi di spionaggio erano, in realtà, un pasticciaccio elettronico. I pm hanno chiesto l’archiviazione. E il quotidiano di via Solferino ha relegato la notizia in un trafiletto. Al contrario, quando un apparecchio acquistato sul Web e un programma sino-lituano hanno generato una sfilza di falsi allarmi, i media, a titolo unificato, denunciavano l’ennesima incursione dei velivoli di Vladimir Putin.
Come lo scorso settembre a Copenaghen e Oslo, quando gli scali delle due capitali erano stati chiusi dopo l’avvistamento di «droni di grandi dimensioni». Passato qualche giorno, il ministro della Difesa danese è stato costretto a rettificare: nessuna prova che Mosca fosse coinvolta; gli apparecchi non erano arrivati «da una lunga distanza», anzi, erano stati lanciati «localmente». Il capo della diplomazia norvegese, intanto, escludeva «collegamenti» tra gli episodi capitati nei due Paesi scandinavi.
Non c’era la «mano russa» (per citare l’Ansa) nemmeno nell’incidente di tre mesi fa in Polonia, nella regione di Lublino. A sfondare il tetto di un’abitazione nel villaggio di Wyryki-Wola, per fortuna senza provocare vittime, era stato un aria-aria difettoso, scagliato da un F-16 decollato per abbattere i droni russi penetrati nello spazio aereo di Varsavia. Con ogni probabilità, erano stati dirottati dai meccanismi di difesa ucraini. «Tutto indica che si sia trattato di un missile partito da un nostro caccia», aveva dichiarato il coordinatore degli 007 polacchi, Tomasz Siemoniak. Il razzo farlocco costava 850.000 euro. Leggere i resoconti della stampa non ha prezzo. Il Sole24Ore, ad esempio, enfatizzava il monito di Sergio Mattarella: «Ci si muove su un crinale dal quale si può scivolare in un baratro di violenza incontrollato». Il capo dello Stato, evocando lo «scoppio della prima guerra mondiale, nel luglio 1914», parlava di un episodio «gravissimo». Ma sarebbe stato difficile invocare l’articolo 5 della Nato, sulla mutua assistenza bellica in caso di attacco, visto che l’attacco era un auto-attacco.
La Polonia era già stata teatro di un tragico equivoco. A novembre 2022, un ordigno, lì per lì identificato come russo, era caduto nel paesino di Przewodow, uccidendo due persone. «Mosca sotto accusa», segnalava Repubblica. Anche quella volta, però, la firma non era dello zar: «L’indagine condotta dalla Procura polacca», comunicò mesi dopo il ministro della Giustizia, «ha portato all’emissione di un parere che indica categoricamente che quel missile era ucraino». Ma «di produzione sovietica o russa», eh.
Per collegare il Cremlino all’esplosione del Nord Stream, a settembre 2022, era stata sufficiente la presenza, riportata ad esempio dal Messaggero, di «navi russe» nella zona dei gasdotti. I tedeschi, poi, avrebbero scoperto che in verità la «mano» era ucraina. Secondo lo Spiegel, uno dei presunti sabotatori, Serhij Kuznietzov, arrestato mentre si trovava a Rimini, al momento dell’attentato era in servizio in un’unità speciale dell’esercito di Kiev. Quasi quasi, toccava invocarlo davvero, l’articolo 5.
Pericolose interferenze, oltre che mettere in agitazione i siti di Leonardo in Lombardia, a inizio settembre hanno trasformato in un incubo un volo di Ursula von der Leyen, atterrato a Sofia con un’ora di ritardo. «Hacker manomettono il Gps dell’aereo», raccontava il Sole. I pirati informatici, naturalmente, battevano bandiera moscovita: «I russi mandano in tilt il Gps del volo di Von der Leyen», annunciava l’Ansa. Pure il Corriere riferiva, senza tema di smentita, di «interferenze dei russi». Peccato che le autorità bulgare avessero smentito: il jet, confermava in Parlamento il premier, non aveva subito «né interferenze né disturbi prolungati». Alla fine, la Commissione Ue stessa ha dovuto precisare di non aver «mai detto» che si fosse trattato di «un attacco rivolto «espressamente» contro la presidente. Autocrate che vai, trasporti che trovi: col Duce, i treni arrivavano in orario; con Putin, i voli atterrano in ritardo. O sconfinano in Estonia per 12 minuti, finendo intercettati dagli F-35 italiani; o si «avvicinano» alla Lettonia e vengono agganciati dai caccia ungheresi.
Adesso che la polizia tedesca ha censito oltre 1.000 incursioni di droni nel 2025, alla lista mancava solo un blitz della fanteria. Finalmente, la settimana scorsa, tre soldati russi in uniforme hanno attraversato il confine estone e sono rimasti in territorio Nato «per mezz’ora». L’invasione è cominciata. All’armi!
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