2022-12-04
Una società di complici non avrà mai tregua
I divieti e le punizioni imposte durante la pandemia non hanno solo diviso le persone, le hanno cambiate. Per il filosofo Giorgio Agamben occorre ripensare al diritto e alla medicina. Di certo bisogna indagare su tutto ciò che è accaduto, eliminando le storture rimaste.Negli ultimi mesi in tanti si sono interrogati sulla fine delle ostilità. Qualcuno - in parte anche noi - ha sperato che le ferite inflitte al corpo della nazione potessero essere ricucite, che potesse avvenire una sorta di riconciliazione nazionale fra la parte di popolazione che è stata vessata, discriminata, ingiustamente insultata e danneggiata economicamente e coloro che hanno volentieri oppresso, discriminato e danneggiato. Forse sarebbe stato possibile, col tempo, ricomporre e sanare, superare le divisioni imposte e tornare a sentirsi fratelli. Ma il sospetto - più che legittimato - è che a queste condizioni non sia possibile alcuna ricucitura, alcuna riconciliazione. La decisione tutta politica della Corte costituzionale che nei fatti ha legittimato il regime sanitario è soltanto il sigillo su un intero volume ricco di angherie, le quali certo non si sono arrestate nelle ultime settimane. Come si può ricostruire se vengono recapitate assurde multe a casa degli ultracinquantenni che non si sono vaccinati? Non basta che alcuni di loro siano stati privati dei mezzi per sostentarsi, siano stati esclusi dai locali e dai negozi, siano stati trattati da untori e assassini. No, bisogna anche infliggere l’umiliazione finale, ultimo regalo della gestione Draghi-Speranza. L’unico gesto concreto verso una possibile riconciliazione è stata la riammissione al lavoro con due mesi di anticipo dei medici e sanitari sospesi. Ma anche lì abbiamo assistito a nuove e più intollerabili discriminazioni, a misure di contenimento («stiano lontano dai fragili!») fondate soltanto sulla crudeltà ideologica. Per altro, chi ha compiuto il bel gesto della riammissione (cioè il ministro) certo non l’ha presentato come un atto sacrosanto e necessario, bensì come una misura utile a colmare un vuoto. Nel frattempo, altre restrizioni sono rimaste attive, tra cui la necessità di mostrare l’inutile green pass per accedere ad alcuni luoghi di cura, o le allucinanti reclusioni per chi risulta positivo, ed è quasi comico che solo ora ci si interroghi sulla possibilità di eliminarle. Tutt’attorno la retorica è rimasta la stessa di due anni fa, e la soddisfazione con cui i ciambellani della stampa italiana hanno festeggiato la decisione della Consulta sull’obbligo vaccinale svela quanto odio ancora essi covino, quanta rabbia per essere stati sconfitti alle urne, quanto disprezzo per chi non condivide il loro progetto di dominio. Sembrava quasi che si stessero vendicando.Ecco il quadro: da una parte c’è chi - per pigrizia mentale, per vigliaccheria o per convenienza - perpetua l’oppressione; dall’altra chi resta indifferente, pensando che la cosa non lo riguardi (anche se, presto o tardi, lo riguarderà eccome). A queste condizioni non può non risultare vero cioè che ha scritto Giorgio Agamben nel suo più recente intervento sul sito dell’editore Quodlibet («Il complice e il sovrano»). «Non può esservi riappacificazione con chi ha detto e fatto quello che è stato detto e fatto in questi due anni», sostiene il filosofo. «Non abbiamo davanti a noi semplicemente degli uomini che si sono ingannati o hanno professato per qualche ragione delle opinioni erronee, che noi possiamo cercare di correggere. Chi pensa questo s’illude. Abbiamo di fronte a noi qualcosa di diverso, una nuova figura dell’uomo e del cittadino, per usare due termini familiari alla nostra tradizione politica. In ogni caso, si tratta di qualcosa che ha preso il posto di quella endiadi e che vi propongo di chiamare provvisoriamente con un termine tecnico del diritto penale: il complice - a patto di precisare che si tratta di una figura speciale di complicità, una complicità per così dire assoluta».Il complice, spiega Agamben, «nella terminologia del diritto penale è colui che ha posto in essere una condotta che di per sé non costituisce reato, ma che contribuisce all’azione delittuosa di un altro soggetto, il reo. Noi ci siamo trovati e ci troviamo di fronte a individui - anzi a un’intera società - che si è fatta complice di un delitto il cui il reo è assente o comunque per essa innominabile. Una situazione, cioè, paradossale, in cui vi sono solo complici, ma il reo manca, una situazione in cui tutti - che si tratti del presidente della Repubblica o del semplice cittadino, del ministro della Salute o di un semplice medico - agiscono sempre come complici e mai come rei».Altro che pacificazione, questo genere di società non può che basarsi sul conflitto permanente, un conflitto feroce di cui restano vittima soprattutto i più deboli. Lo Stato che si finge mamma e si rivela madre crudele è in realtà una Medea che infierisce sui bambini inermi. «Una società di complici è più oppressiva e soffocante di qualsiasi dittatura, perché chi non partecipa della complicità - il non complice - è puramente e semplicemente escluso dal patto sociale, non ha più luogo nella città». Da tale genere di oppressione, è convinto il filosofo, non si può uscire se non rimettendo radicalmente in discussione l’intero impianto: «Io non posso più, di fronte a un medico o a chiunque denunci il modo perverso in cui è stata usata in questi due anni la medicina, non mettere innanzitutto in questione la stessa medicina», scrive Agamben. «Se non si ripensa da capo che cosa è progressivamente diventata la medicina e forse l’intera scienza di cui essa ritiene di far parte, non si potrà in alcun modo sperare di arrestarne la corsa letale. Io non posso più, di fronte a un giurista o a chiunque denunci il modo in cui il diritto e la Costituzione sono stati manipolati e traditi, non revocare innanzitutto in questione il diritto e la Costituzione». È difficile dargli torto, ma forse resta ancora una strada da percorrere per tentare almeno di salvare il salvabile. Forse, prima di rimettere tutto radicalmente in discussione o di menomare per sempre il nostro corpo sociale, si può tentare di affrontare il presente e il passato con un filo in più di coraggio. Tradotto in pratica, significherebbe istituire una commissione - aperta e trasparente nel senso buono del termine - che faccia davvero chiarezza sull’impatto dei sieri. Significherebbe far funzionare rapidamente la commissione di inchiesta sulla gestione dei primi mesi d’emergenza. E, poi, cancellare le multe, rimuovere i divieti che ancora restano, denunciare pubblicamente gli errori e le storture. Non sono colpe dell’attuale ministro, chiaro: ma non stigmatizzare significa essere complici. Questa è l’unica strada che resta se si vuole provare a sanare le ferite. Purtroppo, la Corte costituzionale e l’intero sistema politico mediatico sembrano muoversi in senso del tutto opposto. Stanno legittimando e confermando ciò che è stato. E quando la prossima oppressione toccherà chi ora resta indifferente, sarà troppo tardi per rimediare.