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2023-10-28
Da noi i pacifisti vietano le bandiere d’Israele
Manifestazione pacifista del 26 ottobre a Milano (Ansa)
«Vogliamo che Israele ponga fine all’assedio di Gaza». La Fiaccolata per la pace pro Palestina (quindi a senso unico) si snoda in piazza dell’Esquilino a Roma e in molte città d’Italia, dove la sinistra sfila per mascherare sotto le bandiere arcobaleno la propria antica ideologia filopalestinese, che confina con l’appeasement nei confronti di Hamas. Con una discriminazione cupa: la richiesta degli organizzatori di Pace e disarmo - che al proprio interno ospita lampi di rosso antico come Arci, Cgil, Anpi più le Acli cattodem -, di «non sventolare bandiere israeliane ma solo quelle arcobaleno» (sulle palestinesi si glissa). Una pretesa che lascia interdetti, il consueto esercizio della doppia morale.
Sotto l’obelisco avviene qualcosa di inedito sul fronte politico, l’Imam Giuseppe Conte in keffiah si prende la sinistra. Lui c’è, circondato da pretoriani fedelissimi (ormai il M5s è una falange e nessuno disubbidisce), mentre il Pd si sfalda nei distinguo delle correnti, balbetta e abdica, si ritrova intrappolato dall’ormai consueto «liberi tutti». Alla fiaccolata il Nazareno si presenta in ordine sparso e a titolo personale: Lorenzo Guerini e Alessandro Alfieri no (Area Riformista è più vicina alle ragioni israeliane), gli adepti della segretaria Marco Furfaro e Marta Bonafoni sì, il capo delegazione a Bruxelles Brando Benifei sì, Dario Nardella e Stefano Bonaccini no (altri impegni, sarà per la prossima volta). Ed Elly Schlein? Lei fa sapere di esserci «con il cuore e con lo spirito» ma nessuno la intercetta perché sta a Venezia al summit del partito sul Piano casa, organizzato da mesi con numerosi sindaci in arrivo da tutta Italia.
La numero uno del Nazareno coglie il senso di un’assenza che si nota. Così si giustifica: «Non è uno sgarbo, il mio percorso pacifista è cominciato proprio con Pace e disarmo, prego di non strumentalizzare». L’associazione è il punto di riferimento del corteo con Amnesty international e Assisi pace giusta. Nessuna bandiera israeliana, come se la stella di David fosse bandita dalle piazze della sinistra italiana. Come se una qualsivoglia «cessazione unilaterale delle azioni militari» non fosse implicitamente un grande favore ad Hamas, che ha in mano gli ostaggi, che ha iniziato i massacri e che ha al punto uno della sua ragione di vita (vergato nell’atto costitutivo) la distruzione dello Stato di Israele.
La cosa non scalfisce l’aplomb di Conte, consapevole di essere il catalizzatore naturale di ogni pulsione finto-pacifista della sinistra, dall’Ucraina a Gaza. Lui è bulimico di popolarità e non ama filosofeggiare: cammina in piazza dell’Esquilino tra le fiaccole dell’Arci ma non dimentica di praticare il digiuno richiesto ai militanti cattolici da papa Francesco. Un leader per tutte le scarpe oggi, come lo fu per tutti i governi ieri. «Credo che quando si parla di pace bisogna avere il coraggio di andare fino in fondo», commenta Conte pensando all’alleato fantasma che gli sta lasciando praterie. Poi affonda il coltello nel burro: «Non mi permetto di mettere bocca sui travagli interni di un altro partito, ma che tra noi e il Pd ci siano distanze rispetto al tema dell’invio di armi a oltranza in Ucraina è un fatto noto». Incassa gli applausi e attende fiducioso il prossimo sondaggio.
Accanto a lui, i rossoverdi Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli marciano compatti con il loro armamentario ideologico riassumibile in un paio di pensierini da assemblea liceale: «Fermare la strage di civili a Gaza, lavorare per il rilascio degli ostaggi israeliani, permettere subito corridoi umanitari; se vogliamo definirci persone civili è questo che occorre fare. E aprire una nuova prospettiva politica su quell’area: due popoli e due Stati». Opzione che, guardacaso, ha sempre trovato Hamas contrario perché la soluzione diplomatica segnerebbe la sua fine (e la fine dei finanziamenti milionari di Iran, Qatar e intellighenzia occidentale radical per la jihad).
In molte altre città italiane va in scena lo stesso spartito doubleface: Padova, Parma, Ancona, Asti, Milano (la Capitale arcobaleno timbra il cartellino tutti i giorni), Palermo, Trapani, La Spezia, Pesaro, Trento. Qui in piazza Duomo il presidio organizzato dal Fronte della gioventù comunista (keffiah e pugni chiusi) esprime la «totale solidarietà al popolo palestinese nella lotta per i propri diritti e per la propria liberazione», come Patrick Zaki prima della cura Fabio Fazio. Oggi si replica ovunque, anche ad Aosta dove i giovani democratici di Bds (Boicottaggio, disinvestimenti, sanzioni ovviamente contro Israele) teorizza il diritto unilaterale palestinese «soffocato da 75 anni di occupazione, come ha denunciato il segretario generale dell’Onu. Una situazione che si classifica come genocidio». Antonio Guterres non si rende neppure conto di avere legittimato il delirio.
Nessuno di questi sinceri democratici, nessuno dei 5.000 manifestanti a Roma sembra preoccuparsi del destino di 28 bambini, da Akir Bibz (9 mesi) a Tal Goldstein (9 anni), da Ohad Zachary (10 anni) a Naveh Shoham (8 anni) fino a Ruth Perez (16 anni), afflitta da distrofia muscolare e costretta su una sedia a rotelle. Sono fra gli ostaggi rastrellati da Hamas nel giorno dell’orrore, il 7 ottobre, e hanno l’unica colpa di essere israeliani. Già dimenticati. Per loro nessun compatimento, nessuna bandiera. E nessun nome scandito - quando mai - accanto alla parola «freedom».
Al convegno dell’estrema sinistra i buoni sono i soldati della jihad
La chiamano International peace conference, ma nei fatti è un raduno di soggetti tra il pericoloso e lo sprovveduto. «Per una pace vera, per una pace giusta. Fermare la terza guerra mondiale», recita la locandina dell’evento, iniziato ieri e ancora oggi in corso presso l’Hotel Universo, a Roma. «Sventare la terza guerra mondiale è il primo dovere di tutti coloro che hanno a cuore il bene dell’umanità», si legge sul sito. «Occorre dunque costruire una grande alleanza internazionale per la pace e la fratellanza tra i popoli che metta in movimento le diverse anime che combattono militarismo e imperialismo».
Poi però, nella sezione media, si trovano i video-saluti di vari soggetti tra cui l’Islamic jihad movement e l’International antifascist information center, dove figura un uomo che parla con il volto completamente coperto e la bandiera della Repubblica popolare del Donetsk alle spalle. Tra gli aderenti vengono indicati anche personaggi come il generale Fabio Mini, Carlo Rovelli (che però non hanno presenziato) ed Elena Basile - quest’ultima prevista anche come relatrice venerdì, stando al programma distribuito inizialmente, non ci risulta essere stata presente. A dirigere i lavori della conferenza stampa di presentazione c’era Moreno Pasquinelli, portavoce del Campo antimperialista di Assisi, con un passato da militante in movimenti di estrema sinistra, da Potere operaio a Quarta internazionale, passando per il Gruppo bolscevico leninista e il Gruppo operaio rivoluzionario. «Mi sembra chiaro che quello che sta accadendo in Medio Oriente», ha dichiarato per l’occasione, «conferma il nostro timore che un impero in declino, quello americano, è una minaccia perché, essendo in declino e non ha più l’egemonia, vuole dominare. E per dominare, una potenza al tramonto ci porta alla guerra. E quando c’è la guerra c’è l’attacco alla democrazia, l’attacco ai diritti democratici, l’attacco alla libertà di pensiero, l’attacco ai diritti umani». Tutte cose che, effettivamente, stavano molto a cuore ai bolscevichi e, oggi, sono molto care agli jihadisti.
Al suo fianco, Jan Carnogursky, ex primo ministro slovacco, Yinanis Rachiotis, presidente della piattaforma per l’Indipendenza della Grecia, e Said Gafourov, docente universitario russo, su Wikipedia indicato come economista marxista e orientalista. «Quando qualcuno in Russia mi chiede: perché sostieni la guerra di Vladimir Putin?», ha raccontato quest’ultimo, «io rispondo: non è la guerra di Putin, è la mia guerra. Abbiamo iniziato a combattere la nostra battaglia contro il neonazismo in Ucraina nel 2014, Putin si è unito a noi nel 2022». Un ottimo modo per delegittimare le posizioni di buon senso sul conflitto in Ucraina: dar voce senza alcun filtro alla propaganda altrui.
Nel programma della conferenza distribuito giovedì, figuravano tra i relatori anche Ali Fayyad, deputato libanese del partito di Hezbollah, e Mohammad Hannoun, sospettato - come raccontato ieri sulla Verità da Giacomo Amadori - di essere un finanziatore di Hamas (entrambi non dovrebbero essere presenti). Tutta gente, insomma, che con i diritti umani ci va a nozze. La verità, purtroppo, è che eventi come questo delegittimano chi prova a portare avanti posizioni equilibrate e vanno a detrimento delle persone che fingono di voler difendere. Perché per quanto sia importante non stancarsi di evidenziare gli errori commessi anche dall’Occidente, in particolare rispetto a chi ne sa tessere solo le lodi, la santificazione degli altri fa lo stesso gioco del pensiero unico. Impedisce, appunto, di pensare.
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I cortei arcobaleno promossi da Anpi, Arci, Acli e Cgil mettono al bando la stella di Davide. E imbarazzano il Pd, che va in ordine sparso: grande assente Elly Schlein. Giuseppe Conte ne approfitta, accompagnato dai rossoverdi Bonelli e Fratoianni: «Diversi dai dem».Invitati al raduno contro il terzo conflitto mondiale i sostenitori di Hamas ed Hezbollah.Lo speciale contiene due articoli.«Vogliamo che Israele ponga fine all’assedio di Gaza». La Fiaccolata per la pace pro Palestina (quindi a senso unico) si snoda in piazza dell’Esquilino a Roma e in molte città d’Italia, dove la sinistra sfila per mascherare sotto le bandiere arcobaleno la propria antica ideologia filopalestinese, che confina con l’appeasement nei confronti di Hamas. Con una discriminazione cupa: la richiesta degli organizzatori di Pace e disarmo - che al proprio interno ospita lampi di rosso antico come Arci, Cgil, Anpi più le Acli cattodem -, di «non sventolare bandiere israeliane ma solo quelle arcobaleno» (sulle palestinesi si glissa). Una pretesa che lascia interdetti, il consueto esercizio della doppia morale. Sotto l’obelisco avviene qualcosa di inedito sul fronte politico, l’Imam Giuseppe Conte in keffiah si prende la sinistra. Lui c’è, circondato da pretoriani fedelissimi (ormai il M5s è una falange e nessuno disubbidisce), mentre il Pd si sfalda nei distinguo delle correnti, balbetta e abdica, si ritrova intrappolato dall’ormai consueto «liberi tutti». Alla fiaccolata il Nazareno si presenta in ordine sparso e a titolo personale: Lorenzo Guerini e Alessandro Alfieri no (Area Riformista è più vicina alle ragioni israeliane), gli adepti della segretaria Marco Furfaro e Marta Bonafoni sì, il capo delegazione a Bruxelles Brando Benifei sì, Dario Nardella e Stefano Bonaccini no (altri impegni, sarà per la prossima volta). Ed Elly Schlein? Lei fa sapere di esserci «con il cuore e con lo spirito» ma nessuno la intercetta perché sta a Venezia al summit del partito sul Piano casa, organizzato da mesi con numerosi sindaci in arrivo da tutta Italia.La numero uno del Nazareno coglie il senso di un’assenza che si nota. Così si giustifica: «Non è uno sgarbo, il mio percorso pacifista è cominciato proprio con Pace e disarmo, prego di non strumentalizzare». L’associazione è il punto di riferimento del corteo con Amnesty international e Assisi pace giusta. Nessuna bandiera israeliana, come se la stella di David fosse bandita dalle piazze della sinistra italiana. Come se una qualsivoglia «cessazione unilaterale delle azioni militari» non fosse implicitamente un grande favore ad Hamas, che ha in mano gli ostaggi, che ha iniziato i massacri e che ha al punto uno della sua ragione di vita (vergato nell’atto costitutivo) la distruzione dello Stato di Israele.La cosa non scalfisce l’aplomb di Conte, consapevole di essere il catalizzatore naturale di ogni pulsione finto-pacifista della sinistra, dall’Ucraina a Gaza. Lui è bulimico di popolarità e non ama filosofeggiare: cammina in piazza dell’Esquilino tra le fiaccole dell’Arci ma non dimentica di praticare il digiuno richiesto ai militanti cattolici da papa Francesco. Un leader per tutte le scarpe oggi, come lo fu per tutti i governi ieri. «Credo che quando si parla di pace bisogna avere il coraggio di andare fino in fondo», commenta Conte pensando all’alleato fantasma che gli sta lasciando praterie. Poi affonda il coltello nel burro: «Non mi permetto di mettere bocca sui travagli interni di un altro partito, ma che tra noi e il Pd ci siano distanze rispetto al tema dell’invio di armi a oltranza in Ucraina è un fatto noto». Incassa gli applausi e attende fiducioso il prossimo sondaggio. Accanto a lui, i rossoverdi Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli marciano compatti con il loro armamentario ideologico riassumibile in un paio di pensierini da assemblea liceale: «Fermare la strage di civili a Gaza, lavorare per il rilascio degli ostaggi israeliani, permettere subito corridoi umanitari; se vogliamo definirci persone civili è questo che occorre fare. E aprire una nuova prospettiva politica su quell’area: due popoli e due Stati». Opzione che, guardacaso, ha sempre trovato Hamas contrario perché la soluzione diplomatica segnerebbe la sua fine (e la fine dei finanziamenti milionari di Iran, Qatar e intellighenzia occidentale radical per la jihad).In molte altre città italiane va in scena lo stesso spartito doubleface: Padova, Parma, Ancona, Asti, Milano (la Capitale arcobaleno timbra il cartellino tutti i giorni), Palermo, Trapani, La Spezia, Pesaro, Trento. Qui in piazza Duomo il presidio organizzato dal Fronte della gioventù comunista (keffiah e pugni chiusi) esprime la «totale solidarietà al popolo palestinese nella lotta per i propri diritti e per la propria liberazione», come Patrick Zaki prima della cura Fabio Fazio. Oggi si replica ovunque, anche ad Aosta dove i giovani democratici di Bds (Boicottaggio, disinvestimenti, sanzioni ovviamente contro Israele) teorizza il diritto unilaterale palestinese «soffocato da 75 anni di occupazione, come ha denunciato il segretario generale dell’Onu. Una situazione che si classifica come genocidio». Antonio Guterres non si rende neppure conto di avere legittimato il delirio.Nessuno di questi sinceri democratici, nessuno dei 5.000 manifestanti a Roma sembra preoccuparsi del destino di 28 bambini, da Akir Bibz (9 mesi) a Tal Goldstein (9 anni), da Ohad Zachary (10 anni) a Naveh Shoham (8 anni) fino a Ruth Perez (16 anni), afflitta da distrofia muscolare e costretta su una sedia a rotelle. Sono fra gli ostaggi rastrellati da Hamas nel giorno dell’orrore, il 7 ottobre, e hanno l’unica colpa di essere israeliani. Già dimenticati. Per loro nessun compatimento, nessuna bandiera. E nessun nome scandito - quando mai - accanto alla parola «freedom».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sinistra-contro-israele-2666087349.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="al-convegno-dellestrema-sinistra-i-buoni-sono-i-soldati-della-jihad" data-post-id="2666087349" data-published-at="1698437967" data-use-pagination="False"> Al convegno dell’estrema sinistra i buoni sono i soldati della jihad La chiamano International peace conference, ma nei fatti è un raduno di soggetti tra il pericoloso e lo sprovveduto. «Per una pace vera, per una pace giusta. Fermare la terza guerra mondiale», recita la locandina dell’evento, iniziato ieri e ancora oggi in corso presso l’Hotel Universo, a Roma. «Sventare la terza guerra mondiale è il primo dovere di tutti coloro che hanno a cuore il bene dell’umanità», si legge sul sito. «Occorre dunque costruire una grande alleanza internazionale per la pace e la fratellanza tra i popoli che metta in movimento le diverse anime che combattono militarismo e imperialismo». Poi però, nella sezione media, si trovano i video-saluti di vari soggetti tra cui l’Islamic jihad movement e l’International antifascist information center, dove figura un uomo che parla con il volto completamente coperto e la bandiera della Repubblica popolare del Donetsk alle spalle. Tra gli aderenti vengono indicati anche personaggi come il generale Fabio Mini, Carlo Rovelli (che però non hanno presenziato) ed Elena Basile - quest’ultima prevista anche come relatrice venerdì, stando al programma distribuito inizialmente, non ci risulta essere stata presente. A dirigere i lavori della conferenza stampa di presentazione c’era Moreno Pasquinelli, portavoce del Campo antimperialista di Assisi, con un passato da militante in movimenti di estrema sinistra, da Potere operaio a Quarta internazionale, passando per il Gruppo bolscevico leninista e il Gruppo operaio rivoluzionario. «Mi sembra chiaro che quello che sta accadendo in Medio Oriente», ha dichiarato per l’occasione, «conferma il nostro timore che un impero in declino, quello americano, è una minaccia perché, essendo in declino e non ha più l’egemonia, vuole dominare. E per dominare, una potenza al tramonto ci porta alla guerra. E quando c’è la guerra c’è l’attacco alla democrazia, l’attacco ai diritti democratici, l’attacco alla libertà di pensiero, l’attacco ai diritti umani». Tutte cose che, effettivamente, stavano molto a cuore ai bolscevichi e, oggi, sono molto care agli jihadisti. Al suo fianco, Jan Carnogursky, ex primo ministro slovacco, Yinanis Rachiotis, presidente della piattaforma per l’Indipendenza della Grecia, e Said Gafourov, docente universitario russo, su Wikipedia indicato come economista marxista e orientalista. «Quando qualcuno in Russia mi chiede: perché sostieni la guerra di Vladimir Putin?», ha raccontato quest’ultimo, «io rispondo: non è la guerra di Putin, è la mia guerra. Abbiamo iniziato a combattere la nostra battaglia contro il neonazismo in Ucraina nel 2014, Putin si è unito a noi nel 2022». Un ottimo modo per delegittimare le posizioni di buon senso sul conflitto in Ucraina: dar voce senza alcun filtro alla propaganda altrui. Nel programma della conferenza distribuito giovedì, figuravano tra i relatori anche Ali Fayyad, deputato libanese del partito di Hezbollah, e Mohammad Hannoun, sospettato - come raccontato ieri sulla Verità da Giacomo Amadori - di essere un finanziatore di Hamas (entrambi non dovrebbero essere presenti). Tutta gente, insomma, che con i diritti umani ci va a nozze. La verità, purtroppo, è che eventi come questo delegittimano chi prova a portare avanti posizioni equilibrate e vanno a detrimento delle persone che fingono di voler difendere. Perché per quanto sia importante non stancarsi di evidenziare gli errori commessi anche dall’Occidente, in particolare rispetto a chi ne sa tessere solo le lodi, la santificazione degli altri fa lo stesso gioco del pensiero unico. Impedisce, appunto, di pensare.
Il grande direttore d'orchestra rilancia l'appello alla politica affinché trovi una via diplomatica per convincere la Francia a far tornare nella sua città natale il compositore fiorentino, che ora riposa al cimitero di Père-Lachaise. Il sogno? Dirigere il Requiem del genio toscano nella Basilica di Santa Croce, dove è già pronto il suo cenotafio.
Maurizio Landini (Ansa)
Nessun sindacalista lo ammetterà mai, ma c’è un dato che più di ogni altro fa da spartiacque tra uno sciopero riuscito e un flop. Una percentuale minima al di sotto della quale è davvero difficile cantare vittoria: l’adesione almeno degli iscritti. Insomma, se sostieni, come fa ripetutamente Maurizio Landini di essere il portavoce di un sedicente malcontento montante che sarebbe addirittura maggioranza nel Paese e ti intesti una battaglia in solitaria lasciando alle spalle Cisl e Uil e poi non ti seguono neanche i tuoi, c’è un problema.
E il problema, numeri alla mano, esiste. Ed è pure grosso. Basta vedere le percentuali dei lavoratori che hanno deciso di spalleggiare l’ennesima rivolta politica e tutta improntata ad attaccare il governo Meloni del leader della Cgil. Innanzitutto nel pubblico impiego. Tra gli statali (scuola, sanità, dipendenti di ministeri, enti locali ecc.) ci sono circa 2,7 milioni di dipendenti contrattualizzati. E tra questi il 12% ha in tasca la tessera della Cgil. Bene, a fine giornata i dati ufficiali parlavano di circa il 4,4% complessivo di adesione all’ennesimo logoro show di Landini. Messa in soldoni: ormai anche la Cgil si è stancata del suo segretario che combatte una battaglia personale e quasi sempre sulle spalle dei lavoratori.
Che in corso d’Italia monti il malcontento, La Verità lo evidenzia da un po’ di tempo, ma il dato degli impiegati dello Stato è particolarmente significativo. Perché è intorno agli statali che l’ex leader della Fiom ha combattuto e poi perso la sua battaglia più significativa. Per mesi e mesi, infatti, spalleggiato dalla Uil e dall’ex alleato Pierpaolo Bombardieri, Landini ha bloccato il rinnovo dei contratti della Pa.
Circa 20 miliardi, già stanziati dal governo, fermi. E aumenti tra i 150 e i 170 euro lordi al mese, con istituti di favore come la settimana cortissima e il ticket anche in smart working, preclusi ai lavoratori per l’opposizione a prescindere del compagno Maurizio. Certo, lui l’ha spiegata come una lotta di giustizia sociale che aveva l’obiettivo di recuperare tutta l’inflazione del periodo (2022-2024). Ma si trattava di un bluff. Perché la Cgil con governi di un colore diverso ha rinnovato contratti decisamente meno convenienti e che comunque non coprivano il carovita.
Insomma, quella sugli accordi della pubblica amministrazione è diventata l’ultima frontiera dell’opposizione a prescindere. E su quella battaglia Landini si è schiantato. Prima nel merito, perché alla fine la Uil l’ha mollato e i contratti sono stati firmati. E poi sul campo: perché se almeno la metà degli iscritti diserta sciopero (e siamo benevoli), vuol dire che i tuoi stanno bocciando una linea che porta nelle piazza, sulle barricate e sui giornali, ma lascia i lavoratori con le tasche sempre più vuote.
«Il dato», spiega alla Verità il ministro della Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo, «certifica l’ennesimo flop degli scioperi generali, un fallimento che finisce tutto sulle spalle della Cgil che nel pubblico impiego può contare su circa 300.000 iscritti. Pur ammettendo che tutti gli aderenti siano tesserati di Landini e che le proiezioni del pomeriggio vengano confermate, la bocciatura interna per la linea del segretario sarebbe evidente. E, del resto, questo disagio era palese anche sul tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto. È arrivato il momento che anche all’interno del sindacato si apra una riflessione sincera».
E se tra gli statali la sconfitta è stata cocente, non meglio è andata nel privato. Dove, però, i dati sono più frammentati. Secondo le rilevazioni degli altri sindacati, ci sono alcune situazioni clamorose e altri meno, ma sempre di batoste si tratta.
Appartengono al primo caso le adesioni ferme a quota 1% nei cantieri delle grandi opere: dal Brennero fino al Terzo valico e alla Tav. Si risale al 5% negli stabilimenti di produzione e lavorazione di cemento, legno e laterizi, ma in generale la partecipazione nell’edilizia è stata bassissima.
Come nell’agroalimentare, dove, se si fa eccezioni per la rossa Emilia-Romagna (ai reparti produttivi della Granarolo si è arrivati a sfiorare il 50%), i risultati nelle piccole e medie imprese sono quasi tutti sotto il 5%. La media tra le aziende elettriche è del 5%, nelle Poste siamo fermi al 2,5% e nelle banche si sfiora l’1%. Leggermente meglio nel terziario e nel commercio (dove viene toccato il 10%), così come si contano sulle punte delle dita i siti delle realtà industriali in doppia cifra (Ex Ilva a Novi, Marcegaglia di Dusino San Michele in Piemonte e alcuni siti di Leonardo).
Insomma, al balletto delle cifre nelle manifestazioni siamo abituati e che ci siano delle enormi differenze numeriche tra promotori dello sciopero e controparte sta nelle regole del gioco, eppure si fa davvero fatica a capire da dove il sindacato rosso abbia tirato fuori il dato del 68% delle adesioni. Se 7 lavoratori su 10 si fermano, l’Italia si blocca. Non solo i trasporti, ma tutto il sistema finisce in una sorta di pericoloso stand by collettivo. Nulla a che vedere con quello che è successo sul territorio che ieri ha subito qualche prevedibile disagio da effetto-annuncio, ma poco più. Ma, del resto, nel Paese immaginario che sta raccontando Landini può succedere questo e altro.
Landini straparla di regime e agita lo sciopero infinito
«Fanno bene ad avere qualche timore, avere qualche paura, perché non ci fermano. Non so come dirlo, non ci fermano e, siccome siamo convinti di rappresentare la maggioranza del Paese, andremo avanti fino a quando questa battaglia l’abbiamo vinta». È stato questo il grido di battaglia, ieri, del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, a Firenze dove ha partecipato al corteo nel giorno dello sciopero generale contro la legge di bilancio, salari bassi, precarietà e caro-vita.
Una protesta «per cambiare la manovra 2026, considerata del tutto inadeguata a risolvere i problemi del Paese, malgrado le modifiche appena approvate, per sostenere investimenti in sanità, istruzione, servizi pubblici e politiche industriali, per fermare l’innalzamento dell’età pensionabile, per contrastare la precarietà». Insomma, i temi sul tavolo di ogni governo degli ultimi 30 anni, basti pensare alla sanità da sempre gestita dalla sinistra da Rosy Bondi in poi, ma che, per Landini e sinistra, sembrano esplosi con l’arrivo del governo Meloni. E, ignorando totalmente i dati dell’occupazione che cresce in maniera costante, arriva a sostenere che «La precarietà non è un problema dei giovani: se vogliamo combattere e contrastare la precarietà, sono quelli che non sono precari che, innanzitutto, si devono battere e scioperare per cancellare la precarietà. Questa è la solidarietà, questo è il sindacato».
«Quando ho lavorato», ha ricordato Landini, «io la precarietà non l’ho conosciuta. E vorrei che fosse chiaro, non è merito mio, eh, io non avevo fatto niente, ero andato semplicemente a lavorare. Ma mi sono trovato dei diritti, perché quelli prima di me, che quei diritti lì non ce ne avevano, si erano battuti per ottenerli. Non per loro, ma per tutti. Tre mesi dopo che ero assunto come apprendista, ho potuto operare e partecipare a una manifestazione senza essere licenziato. Non m’hanno fatto prove del carrello», ha detto riferendosi ai tre lavoratori della catena Pam allontanati dopo un controllo a sorpresa che ha simulato un furto. «Dobbiamo far parlare il Paese reale, perché dobbiamo raccontare quel che succede: qui siamo, ormai, a un regime, ci raccontano un Paese che non c’è, ci raccontano una quantità di balle, che tutto va bene, tutto sta funzionando. Non è così».
Il leader della Cgil ha, poi, sottolineato che oggi c’è «un obiettivo esplicito della politica e del governo: mettere in discussione l’esistenza stessa del sindacato confederale come soggetto che ha diritto di negoziare alla pari col governo». Al segretario che un anno fa voleva «rivoltare il Paese come un guanto», lo sciopero politico di ieri gli è comunque costato la mancata unità sindacale con Cisl, Uil e Ugl ormai fuori sintonia. Landini ha chiarito che «il diritto di sciopero è un diritto costituzionale e non accetteremo alcun tentativo di metterlo in discussione o di limitarlo. Oggi siamo in piazza non contro altri lavoratori o altri sindacati, ma per estendere questi diritti a tutti. Quando un governo prova a delegittimare chi protesta o a ridurre gli spazi di partecipazione democratica, significa che non vuole ascoltare il disagio reale che attraversa il Paese. Lo sciopero è per cambiare politiche sbagliate. E la grande partecipazione che vediamo oggi dimostra che c’è un Paese che chiede un cambio di rotta».
«Il Paese non è più disponibile a un’altra legge di bilancio di austerità e di tagli», ha affermato il leader di Avs, Nicola Fratoianni, presente alla manifestazione con Angelo Bonelli. Sul palco in piazza del Carmine ha trovato posto anche la protesta dei giornalisti de La Stampa e Repubblica, in sciopero dopo l’annuncio di Exor della cessione del gruppo editoriale Gedi al magnate greco Theodore Kyriakou. Mai così in prima fila nella solidarietà ad altre crisi di giornali meno «amici», Landini ha spiegato il perché: «Pensiamo che quello che sta succedendo sia un tentativo esplicito di mettere in discussione la libertà di stampa e la possibilità concreta di proseguire e di fare serie politiche industriali. Mi sembra evidente quello che sta succedendo: abbiamo imprese e imprenditori che, dopo aver fatto i profitti, chiudono le imprese, se ne vogliono andare dal nostro Paese per usare i soldi e quella ricchezza che è stata prodotta da chi lavora, da altre parti. Ecco, quelli che fanno i patrioti dove sono? Stanno difendendo chi? Difendono quelli che pagano le tasse che tengono in piedi questo Paese o difendono quelli che chiudono le aziende che investono da un’altra parte?». C’è voluta la vendita di Repubblica perché Landini attaccasse Elkann visto che dalla nascita di Stellantis, nel gennaio 2021, l’azienda ha licenziato solo in Italia attraverso esodi incentivati 7.500 lavoratori. Del restom lo ha detto chiaramente Carlo Calenda di Azione: «Da quando la Repubblica è stata comprata da Elkann, Fiom e Cgil hanno smesso di dare battaglia che prima facevano con Sergio Marchionne quando la produzione aumentava, adesso che è crollata non li senti più dire nulla».
Intanto ieri Landini non ha nascosto la sua soddisfazione per la risposta allo sciopero, «le piazze si sono riempite e le fabbriche svuotate», rinfocolando la polemica a distanza con il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, che aveva definito «irresponsabile» bloccare il Paese. «Noi stiamo facendo il nostro mestiere, quello che non fa Salvini», la replica del segretario della Cgil. Il vicepremier leghista ieri ha visitato la centrale operativa delle Ferrovie dello Stato per verificare le ricadute dello sciopero, ed ha definito «incoraggianti» i dati sull’adesione, «con disagi limitati» dovuti soprattutto all’effetto «annuncio».
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John Elkann (Getty Images)
Eppure, mentre assiste impassibile alla disfatta dell’industria automobilistica italiana, la sinistra si agita per la vendita di Gedi, ovvero di ciò che resta del gruppo editoriale che un tempo faceva capo alla famiglia De Benedetti. Nel corso degli anni, dopo aver comprato dai figli dell’Ingegnere decine di testate, tra cui Repubblica, l’Espresso e un pacchetto di giornali locali, Elkann ha provveduto a smembrare e cedere quasi tutto. Venduto lo storico settimanale che all’inizio dava il nome al gruppo e il cui titolo era quotato in Borsa. Via il Secolo XIX, quotidiano con forti radici in tutta la Liguria. Passati di mano il Tirreno a Livorno, la Nuova Sardegna a Sassari, il Piccolo a Udine, il Messaggero Veneto a Pordenone. Mollati a imprenditori locali la Gazzetta di Mantova e pure quella di Reggio Emilia e Modena, la Nuova Ferrara, la Provincia Pavese, il Mattino di Padova, la Tribuna di Treviso, la Nuova di Venezia e perfino la Sentinella del Canavese, tra Ivrea e Val d’Aosta. Insomma, un impero di carta fatto a pezzi minuti, che alla fine è rimasto con sole due testate, ovvero Repubblica (con propaggini come Huffington Post, Limes e National Geographic) e La Stampa, oltre a tre radio, la più importante delle quali è Radio Deejay. I giornali ancora nelle mani del nipote dell’Avvocato sono un buco nero, anzi rosso, di perdite. Dopo svalutazioni da centinaia di milioni, continuano a perdere soldi, oltre che copie. Le sole soddisfazioni arrivano dalle emittenti: per il resto solo dolori e niente gioie.
Si sapeva che Elkann volesse disfarsi di tutto, anche perché vorrebbe disfarsi pure degli stabilimenti e trasferirsi felice a Parigi o in America, dove peraltro studiano i figli. Si sapeva anche che il suo interesse nei confronti dei giornali fosse pari a zero. La Stampa se l’era ritrovata sulle spalle insieme con una montagna di miliardi, ma l’amore per la testata non era proprio fortissimo. Repubblica e il resto se li era comprati all’improvviso dai De Benedetti per fare quello che De Benedetti, Carlo, aveva fatto per anni benissimo, ossia accreditarsi con la politica. I giornali della sinistra dovevano coprire la ritirata dall’Italia, l’addio all’industria automobilistica. E forse sono serviti a limitare le polemiche, visto che Landini a lungo ha concesso interviste a Repubblica e Stampa senza mai lamentarsi troppo di quello che stava accadendo nelle fabbriche del gruppo.
Certo, fa un po’ impressione vedere la Bibbia di generazioni di compagni, che dopo aver soppiantato perfino l’Unità viene venduta come se fosse una Magneti Marelli qualsiasi. Una cessione nel cinquantesimo esatto della fondazione, per di più a un imprenditore straniero che pare essere in affari con quel «principe rinascimentale» (copyright Renzi) di Bin Salman, uno che i giornalisti di solito li fa a pezzi. Ma soprattutto, una vendita contro cui sindacato e sinistra chiedono l’intervento di quella Giorgia Meloni che fino a ieri era considerata una minaccia per la libertà di stampa. Tuttavia, impressiona di più la levata di scudi della sinistra per una Casta di colleghi che a lungo ha guardato con sufficienza il mondo, ritenendosi intoccabile. Poi qualcuno si chiede perché gli operai non votino più né il Pd né i cespugli che gli ruotano attorno, mentre alla Cgil siano rimasti solo i pensionati.
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