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2023-10-28
Da noi i pacifisti vietano le bandiere d’Israele
Manifestazione pacifista del 26 ottobre a Milano (Ansa)
«Vogliamo che Israele ponga fine all’assedio di Gaza». La Fiaccolata per la pace pro Palestina (quindi a senso unico) si snoda in piazza dell’Esquilino a Roma e in molte città d’Italia, dove la sinistra sfila per mascherare sotto le bandiere arcobaleno la propria antica ideologia filopalestinese, che confina con l’appeasement nei confronti di Hamas. Con una discriminazione cupa: la richiesta degli organizzatori di Pace e disarmo - che al proprio interno ospita lampi di rosso antico come Arci, Cgil, Anpi più le Acli cattodem -, di «non sventolare bandiere israeliane ma solo quelle arcobaleno» (sulle palestinesi si glissa). Una pretesa che lascia interdetti, il consueto esercizio della doppia morale.
Sotto l’obelisco avviene qualcosa di inedito sul fronte politico, l’Imam Giuseppe Conte in keffiah si prende la sinistra. Lui c’è, circondato da pretoriani fedelissimi (ormai il M5s è una falange e nessuno disubbidisce), mentre il Pd si sfalda nei distinguo delle correnti, balbetta e abdica, si ritrova intrappolato dall’ormai consueto «liberi tutti». Alla fiaccolata il Nazareno si presenta in ordine sparso e a titolo personale: Lorenzo Guerini e Alessandro Alfieri no (Area Riformista è più vicina alle ragioni israeliane), gli adepti della segretaria Marco Furfaro e Marta Bonafoni sì, il capo delegazione a Bruxelles Brando Benifei sì, Dario Nardella e Stefano Bonaccini no (altri impegni, sarà per la prossima volta). Ed Elly Schlein? Lei fa sapere di esserci «con il cuore e con lo spirito» ma nessuno la intercetta perché sta a Venezia al summit del partito sul Piano casa, organizzato da mesi con numerosi sindaci in arrivo da tutta Italia.
La numero uno del Nazareno coglie il senso di un’assenza che si nota. Così si giustifica: «Non è uno sgarbo, il mio percorso pacifista è cominciato proprio con Pace e disarmo, prego di non strumentalizzare». L’associazione è il punto di riferimento del corteo con Amnesty international e Assisi pace giusta. Nessuna bandiera israeliana, come se la stella di David fosse bandita dalle piazze della sinistra italiana. Come se una qualsivoglia «cessazione unilaterale delle azioni militari» non fosse implicitamente un grande favore ad Hamas, che ha in mano gli ostaggi, che ha iniziato i massacri e che ha al punto uno della sua ragione di vita (vergato nell’atto costitutivo) la distruzione dello Stato di Israele.
La cosa non scalfisce l’aplomb di Conte, consapevole di essere il catalizzatore naturale di ogni pulsione finto-pacifista della sinistra, dall’Ucraina a Gaza. Lui è bulimico di popolarità e non ama filosofeggiare: cammina in piazza dell’Esquilino tra le fiaccole dell’Arci ma non dimentica di praticare il digiuno richiesto ai militanti cattolici da papa Francesco. Un leader per tutte le scarpe oggi, come lo fu per tutti i governi ieri. «Credo che quando si parla di pace bisogna avere il coraggio di andare fino in fondo», commenta Conte pensando all’alleato fantasma che gli sta lasciando praterie. Poi affonda il coltello nel burro: «Non mi permetto di mettere bocca sui travagli interni di un altro partito, ma che tra noi e il Pd ci siano distanze rispetto al tema dell’invio di armi a oltranza in Ucraina è un fatto noto». Incassa gli applausi e attende fiducioso il prossimo sondaggio.
Accanto a lui, i rossoverdi Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli marciano compatti con il loro armamentario ideologico riassumibile in un paio di pensierini da assemblea liceale: «Fermare la strage di civili a Gaza, lavorare per il rilascio degli ostaggi israeliani, permettere subito corridoi umanitari; se vogliamo definirci persone civili è questo che occorre fare. E aprire una nuova prospettiva politica su quell’area: due popoli e due Stati». Opzione che, guardacaso, ha sempre trovato Hamas contrario perché la soluzione diplomatica segnerebbe la sua fine (e la fine dei finanziamenti milionari di Iran, Qatar e intellighenzia occidentale radical per la jihad).
In molte altre città italiane va in scena lo stesso spartito doubleface: Padova, Parma, Ancona, Asti, Milano (la Capitale arcobaleno timbra il cartellino tutti i giorni), Palermo, Trapani, La Spezia, Pesaro, Trento. Qui in piazza Duomo il presidio organizzato dal Fronte della gioventù comunista (keffiah e pugni chiusi) esprime la «totale solidarietà al popolo palestinese nella lotta per i propri diritti e per la propria liberazione», come Patrick Zaki prima della cura Fabio Fazio. Oggi si replica ovunque, anche ad Aosta dove i giovani democratici di Bds (Boicottaggio, disinvestimenti, sanzioni ovviamente contro Israele) teorizza il diritto unilaterale palestinese «soffocato da 75 anni di occupazione, come ha denunciato il segretario generale dell’Onu. Una situazione che si classifica come genocidio». Antonio Guterres non si rende neppure conto di avere legittimato il delirio.
Nessuno di questi sinceri democratici, nessuno dei 5.000 manifestanti a Roma sembra preoccuparsi del destino di 28 bambini, da Akir Bibz (9 mesi) a Tal Goldstein (9 anni), da Ohad Zachary (10 anni) a Naveh Shoham (8 anni) fino a Ruth Perez (16 anni), afflitta da distrofia muscolare e costretta su una sedia a rotelle. Sono fra gli ostaggi rastrellati da Hamas nel giorno dell’orrore, il 7 ottobre, e hanno l’unica colpa di essere israeliani. Già dimenticati. Per loro nessun compatimento, nessuna bandiera. E nessun nome scandito - quando mai - accanto alla parola «freedom».
Al convegno dell’estrema sinistra i buoni sono i soldati della jihad
La chiamano International peace conference, ma nei fatti è un raduno di soggetti tra il pericoloso e lo sprovveduto. «Per una pace vera, per una pace giusta. Fermare la terza guerra mondiale», recita la locandina dell’evento, iniziato ieri e ancora oggi in corso presso l’Hotel Universo, a Roma. «Sventare la terza guerra mondiale è il primo dovere di tutti coloro che hanno a cuore il bene dell’umanità», si legge sul sito. «Occorre dunque costruire una grande alleanza internazionale per la pace e la fratellanza tra i popoli che metta in movimento le diverse anime che combattono militarismo e imperialismo».
Poi però, nella sezione media, si trovano i video-saluti di vari soggetti tra cui l’Islamic jihad movement e l’International antifascist information center, dove figura un uomo che parla con il volto completamente coperto e la bandiera della Repubblica popolare del Donetsk alle spalle. Tra gli aderenti vengono indicati anche personaggi come il generale Fabio Mini, Carlo Rovelli (che però non hanno presenziato) ed Elena Basile - quest’ultima prevista anche come relatrice venerdì, stando al programma distribuito inizialmente, non ci risulta essere stata presente. A dirigere i lavori della conferenza stampa di presentazione c’era Moreno Pasquinelli, portavoce del Campo antimperialista di Assisi, con un passato da militante in movimenti di estrema sinistra, da Potere operaio a Quarta internazionale, passando per il Gruppo bolscevico leninista e il Gruppo operaio rivoluzionario. «Mi sembra chiaro che quello che sta accadendo in Medio Oriente», ha dichiarato per l’occasione, «conferma il nostro timore che un impero in declino, quello americano, è una minaccia perché, essendo in declino e non ha più l’egemonia, vuole dominare. E per dominare, una potenza al tramonto ci porta alla guerra. E quando c’è la guerra c’è l’attacco alla democrazia, l’attacco ai diritti democratici, l’attacco alla libertà di pensiero, l’attacco ai diritti umani». Tutte cose che, effettivamente, stavano molto a cuore ai bolscevichi e, oggi, sono molto care agli jihadisti.
Al suo fianco, Jan Carnogursky, ex primo ministro slovacco, Yinanis Rachiotis, presidente della piattaforma per l’Indipendenza della Grecia, e Said Gafourov, docente universitario russo, su Wikipedia indicato come economista marxista e orientalista. «Quando qualcuno in Russia mi chiede: perché sostieni la guerra di Vladimir Putin?», ha raccontato quest’ultimo, «io rispondo: non è la guerra di Putin, è la mia guerra. Abbiamo iniziato a combattere la nostra battaglia contro il neonazismo in Ucraina nel 2014, Putin si è unito a noi nel 2022». Un ottimo modo per delegittimare le posizioni di buon senso sul conflitto in Ucraina: dar voce senza alcun filtro alla propaganda altrui.
Nel programma della conferenza distribuito giovedì, figuravano tra i relatori anche Ali Fayyad, deputato libanese del partito di Hezbollah, e Mohammad Hannoun, sospettato - come raccontato ieri sulla Verità da Giacomo Amadori - di essere un finanziatore di Hamas (entrambi non dovrebbero essere presenti). Tutta gente, insomma, che con i diritti umani ci va a nozze. La verità, purtroppo, è che eventi come questo delegittimano chi prova a portare avanti posizioni equilibrate e vanno a detrimento delle persone che fingono di voler difendere. Perché per quanto sia importante non stancarsi di evidenziare gli errori commessi anche dall’Occidente, in particolare rispetto a chi ne sa tessere solo le lodi, la santificazione degli altri fa lo stesso gioco del pensiero unico. Impedisce, appunto, di pensare.
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I cortei arcobaleno promossi da Anpi, Arci, Acli e Cgil mettono al bando la stella di Davide. E imbarazzano il Pd, che va in ordine sparso: grande assente Elly Schlein. Giuseppe Conte ne approfitta, accompagnato dai rossoverdi Bonelli e Fratoianni: «Diversi dai dem».Invitati al raduno contro il terzo conflitto mondiale i sostenitori di Hamas ed Hezbollah.Lo speciale contiene due articoli.«Vogliamo che Israele ponga fine all’assedio di Gaza». La Fiaccolata per la pace pro Palestina (quindi a senso unico) si snoda in piazza dell’Esquilino a Roma e in molte città d’Italia, dove la sinistra sfila per mascherare sotto le bandiere arcobaleno la propria antica ideologia filopalestinese, che confina con l’appeasement nei confronti di Hamas. Con una discriminazione cupa: la richiesta degli organizzatori di Pace e disarmo - che al proprio interno ospita lampi di rosso antico come Arci, Cgil, Anpi più le Acli cattodem -, di «non sventolare bandiere israeliane ma solo quelle arcobaleno» (sulle palestinesi si glissa). Una pretesa che lascia interdetti, il consueto esercizio della doppia morale. Sotto l’obelisco avviene qualcosa di inedito sul fronte politico, l’Imam Giuseppe Conte in keffiah si prende la sinistra. Lui c’è, circondato da pretoriani fedelissimi (ormai il M5s è una falange e nessuno disubbidisce), mentre il Pd si sfalda nei distinguo delle correnti, balbetta e abdica, si ritrova intrappolato dall’ormai consueto «liberi tutti». Alla fiaccolata il Nazareno si presenta in ordine sparso e a titolo personale: Lorenzo Guerini e Alessandro Alfieri no (Area Riformista è più vicina alle ragioni israeliane), gli adepti della segretaria Marco Furfaro e Marta Bonafoni sì, il capo delegazione a Bruxelles Brando Benifei sì, Dario Nardella e Stefano Bonaccini no (altri impegni, sarà per la prossima volta). Ed Elly Schlein? Lei fa sapere di esserci «con il cuore e con lo spirito» ma nessuno la intercetta perché sta a Venezia al summit del partito sul Piano casa, organizzato da mesi con numerosi sindaci in arrivo da tutta Italia.La numero uno del Nazareno coglie il senso di un’assenza che si nota. Così si giustifica: «Non è uno sgarbo, il mio percorso pacifista è cominciato proprio con Pace e disarmo, prego di non strumentalizzare». L’associazione è il punto di riferimento del corteo con Amnesty international e Assisi pace giusta. Nessuna bandiera israeliana, come se la stella di David fosse bandita dalle piazze della sinistra italiana. Come se una qualsivoglia «cessazione unilaterale delle azioni militari» non fosse implicitamente un grande favore ad Hamas, che ha in mano gli ostaggi, che ha iniziato i massacri e che ha al punto uno della sua ragione di vita (vergato nell’atto costitutivo) la distruzione dello Stato di Israele.La cosa non scalfisce l’aplomb di Conte, consapevole di essere il catalizzatore naturale di ogni pulsione finto-pacifista della sinistra, dall’Ucraina a Gaza. Lui è bulimico di popolarità e non ama filosofeggiare: cammina in piazza dell’Esquilino tra le fiaccole dell’Arci ma non dimentica di praticare il digiuno richiesto ai militanti cattolici da papa Francesco. Un leader per tutte le scarpe oggi, come lo fu per tutti i governi ieri. «Credo che quando si parla di pace bisogna avere il coraggio di andare fino in fondo», commenta Conte pensando all’alleato fantasma che gli sta lasciando praterie. Poi affonda il coltello nel burro: «Non mi permetto di mettere bocca sui travagli interni di un altro partito, ma che tra noi e il Pd ci siano distanze rispetto al tema dell’invio di armi a oltranza in Ucraina è un fatto noto». Incassa gli applausi e attende fiducioso il prossimo sondaggio. Accanto a lui, i rossoverdi Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli marciano compatti con il loro armamentario ideologico riassumibile in un paio di pensierini da assemblea liceale: «Fermare la strage di civili a Gaza, lavorare per il rilascio degli ostaggi israeliani, permettere subito corridoi umanitari; se vogliamo definirci persone civili è questo che occorre fare. E aprire una nuova prospettiva politica su quell’area: due popoli e due Stati». Opzione che, guardacaso, ha sempre trovato Hamas contrario perché la soluzione diplomatica segnerebbe la sua fine (e la fine dei finanziamenti milionari di Iran, Qatar e intellighenzia occidentale radical per la jihad).In molte altre città italiane va in scena lo stesso spartito doubleface: Padova, Parma, Ancona, Asti, Milano (la Capitale arcobaleno timbra il cartellino tutti i giorni), Palermo, Trapani, La Spezia, Pesaro, Trento. Qui in piazza Duomo il presidio organizzato dal Fronte della gioventù comunista (keffiah e pugni chiusi) esprime la «totale solidarietà al popolo palestinese nella lotta per i propri diritti e per la propria liberazione», come Patrick Zaki prima della cura Fabio Fazio. Oggi si replica ovunque, anche ad Aosta dove i giovani democratici di Bds (Boicottaggio, disinvestimenti, sanzioni ovviamente contro Israele) teorizza il diritto unilaterale palestinese «soffocato da 75 anni di occupazione, come ha denunciato il segretario generale dell’Onu. Una situazione che si classifica come genocidio». Antonio Guterres non si rende neppure conto di avere legittimato il delirio.Nessuno di questi sinceri democratici, nessuno dei 5.000 manifestanti a Roma sembra preoccuparsi del destino di 28 bambini, da Akir Bibz (9 mesi) a Tal Goldstein (9 anni), da Ohad Zachary (10 anni) a Naveh Shoham (8 anni) fino a Ruth Perez (16 anni), afflitta da distrofia muscolare e costretta su una sedia a rotelle. Sono fra gli ostaggi rastrellati da Hamas nel giorno dell’orrore, il 7 ottobre, e hanno l’unica colpa di essere israeliani. Già dimenticati. Per loro nessun compatimento, nessuna bandiera. 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Fermare la terza guerra mondiale», recita la locandina dell’evento, iniziato ieri e ancora oggi in corso presso l’Hotel Universo, a Roma. «Sventare la terza guerra mondiale è il primo dovere di tutti coloro che hanno a cuore il bene dell’umanità», si legge sul sito. «Occorre dunque costruire una grande alleanza internazionale per la pace e la fratellanza tra i popoli che metta in movimento le diverse anime che combattono militarismo e imperialismo». Poi però, nella sezione media, si trovano i video-saluti di vari soggetti tra cui l’Islamic jihad movement e l’International antifascist information center, dove figura un uomo che parla con il volto completamente coperto e la bandiera della Repubblica popolare del Donetsk alle spalle. Tra gli aderenti vengono indicati anche personaggi come il generale Fabio Mini, Carlo Rovelli (che però non hanno presenziato) ed Elena Basile - quest’ultima prevista anche come relatrice venerdì, stando al programma distribuito inizialmente, non ci risulta essere stata presente. A dirigere i lavori della conferenza stampa di presentazione c’era Moreno Pasquinelli, portavoce del Campo antimperialista di Assisi, con un passato da militante in movimenti di estrema sinistra, da Potere operaio a Quarta internazionale, passando per il Gruppo bolscevico leninista e il Gruppo operaio rivoluzionario. «Mi sembra chiaro che quello che sta accadendo in Medio Oriente», ha dichiarato per l’occasione, «conferma il nostro timore che un impero in declino, quello americano, è una minaccia perché, essendo in declino e non ha più l’egemonia, vuole dominare. E per dominare, una potenza al tramonto ci porta alla guerra. E quando c’è la guerra c’è l’attacco alla democrazia, l’attacco ai diritti democratici, l’attacco alla libertà di pensiero, l’attacco ai diritti umani». Tutte cose che, effettivamente, stavano molto a cuore ai bolscevichi e, oggi, sono molto care agli jihadisti. Al suo fianco, Jan Carnogursky, ex primo ministro slovacco, Yinanis Rachiotis, presidente della piattaforma per l’Indipendenza della Grecia, e Said Gafourov, docente universitario russo, su Wikipedia indicato come economista marxista e orientalista. «Quando qualcuno in Russia mi chiede: perché sostieni la guerra di Vladimir Putin?», ha raccontato quest’ultimo, «io rispondo: non è la guerra di Putin, è la mia guerra. Abbiamo iniziato a combattere la nostra battaglia contro il neonazismo in Ucraina nel 2014, Putin si è unito a noi nel 2022». Un ottimo modo per delegittimare le posizioni di buon senso sul conflitto in Ucraina: dar voce senza alcun filtro alla propaganda altrui. Nel programma della conferenza distribuito giovedì, figuravano tra i relatori anche Ali Fayyad, deputato libanese del partito di Hezbollah, e Mohammad Hannoun, sospettato - come raccontato ieri sulla Verità da Giacomo Amadori - di essere un finanziatore di Hamas (entrambi non dovrebbero essere presenti). Tutta gente, insomma, che con i diritti umani ci va a nozze. La verità, purtroppo, è che eventi come questo delegittimano chi prova a portare avanti posizioni equilibrate e vanno a detrimento delle persone che fingono di voler difendere. Perché per quanto sia importante non stancarsi di evidenziare gli errori commessi anche dall’Occidente, in particolare rispetto a chi ne sa tessere solo le lodi, la santificazione degli altri fa lo stesso gioco del pensiero unico. Impedisce, appunto, di pensare.
Ansa
«La polizia aveva l’incarico di essere presente durante il festival», ha spiegato Minns a Sky News Australia. «Da quanto mi risulta, c’erano due agenti nel parco all’inizio della sparatoria. Altri erano nelle vicinanze e un’auto è arrivata poco dopo». Parole che hanno alimentato ulteriormente le polemiche: come si può ritenere adeguata una simile presenza in un contesto di allerta elevata e con un pubblico così numeroso?
Con il passare delle ore, intanto, emergono nuovi elementi sul profilo degli attentatori, Sajid Akram, 50 anni, e suo figlio Naveed, 24. I due hanno aperto il fuoco durante la celebrazione di Hanukkah, colpendo indiscriminatamente i presenti prima di essere neutralizzati: Sajid è morto durante l’azione, mentre Naveed è rimasto gravemente ferito, è sopravvissuto e ieri si è svegliato dal coma. Lontani dall’immagine stereotipata del terrorista clandestino, i due conducevano una vita apparentemente ordinaria. Sajid Akram gestiva un piccolo esercizio di frutta e verdura, mentre Naveed lavorava come operaio fino a pochi mesi fa e, già nel 2019, era finito sotto osservazione delle forze dell’ordine per frequentazioni con ambienti radicalizzati legati a una moschea estremista di Sydney, gravitanti attorno alla figura di Isaak El Matari, jihadista australiano noto agli apparati di sicurezza. Una svolta delle indagini è arrivata ieri quando fonti dell’antiterrorismo hanno riferito all’Abc che Naveed Akram è un seguace di Wisam Haddad, predicatore salafita ferocemente antisemita di Sydney apertamente schierato su posizioni pro Isis, del quale vi abbiamo parlato ieri. Haddad, attraverso i suoi legali, ha immediatamente respinto ogni accusa di coinvolgimento diretto nell’attacco.
Sul fronte internazionale, Nuova Delhi ha fatto sapere che Sajid Akram era nato a Hyderabad ed era arrivato in Australia nel 1998 con un visto per motivi di studio. Pur avendo fatto ritorno in India solo poche volte, aveva mantenuto la cittadinanza indiana. Naveed, invece, nato a Sydney nel 2001, è cittadino australiano. Secondo le autorità indiane, Sajid non avrebbe più intrattenuto rapporti con il Paese d’origine. Un altro tassello chiave riguarda il recente viaggio dei due uomini nelle Filippine. Le autorità australiane hanno confermato che padre e figlio hanno trascorso l’intero mese di novembre a Mindanao, indicando come meta finale la città di Davao. Sono rientrati il 28 novembre via Manila, prima di fare ritorno a Sydney. Mindanao è da decenni teatro di insurrezioni armate e ospita gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda e, in misura minore, allo Stato Islamico. «Le ragioni del viaggio e le attività svolte restano oggetto di indagine», ha precisato il commissario di polizia del New South Wales, Mal Lanyon.
La mattina dell’attacco, i due avrebbero detto ai familiari di voler andare a pescare. In realtà si sono diretti in un appartamento preso in affitto, dove avevano accumulato armi acquistate legalmente e ordigni artigianali, poi disinnescati dagli artificieri.
Il premier australiano, Antony Albanese, ha attribuito il movente all’ideologia dello Stato Islamico, citando il ritrovamento di bandiere dell’Isis. Eppure, a differenza di altri attentati, l’organizzazione jihadista non ha rivendicato l’azione. Contrariamente a quanto si tende a credere lo Stato islamico non è una sigla simbolica aperta a chiunque decida di agire in suo nome. È - e continua a essere, nonostante la perdita del controllo territoriale in Siria e Iraq - un’organizzazione strutturata, dotata di una rigida catena di comando, di regole operative precise e di una dottrina definita sulla legittimità delle azioni armate. Proprio per questo motivo l’Isis non rivendica mai attentati compiuti da singoli individui non inseriti in una rete riconosciuta.
Sempre ieri è stato diffuso un video registrato da una dashcam, trasmesso da 7News, che mostra una violenta colluttazione tra Sajid Akram e un uomo in maglietta viola nei pressi di un ponte pedonale, poco prima dell’inizio della sparatoria. L’uomo e la donna presenti nella scena sono stati identificati come Boris e Sofia Gurman, coppia ebreo-russa residente a Bondi. Boris, 69 anni, e Sofia, 61, sono stati i primi a perdere la vita. Il loro tentativo disperato di fermare gli attentatori avrebbe però rallentato l’azione, contribuendo a salvare altre vite. Un dettaglio che restituisce tutta la drammaticità di una tragedia segnata dalle incredibili falle nella sicurezza.
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Mohamed Shahin (Ansa)
Lo scorso 24 novembre, il Viminale aveva disposto l’espulsione dell’imam, denunciandone il «ruolo di rilievo in ambienti dell’islam radicale, incompatibile con i principi democratici e con i valori etici che ispirano l’ordinamento italiano» e definendolo «messaggero di un’ideologia fondamentalista e antisemita», oltre che «responsabile di comportamenti che costituiscono una minaccia concreta attuale e grave per la sicurezza dello Stato». Il ministero dell’Interno si era mosso dopo che Shahin, alla manifestazione pro Pal del 9 ottobre, si era dichiarato «d’accordo» con le stragi del 7 ottobre 2023, da lui definite una «reazione all’occupazione israeliana dei territori palestinesi». Parole che, a giudizio della Procura torinese, rappresentano l’«espressione di un pensiero che non integra gli estremi di reato».
Lunedì, il verdetto che lo ha liberato dal Cpr siciliano - l’uomo è stato trasferito in una località segreta del Nord - è stato accompagnato da una polemica sul suo dossier, reso top secret dal dicastero. Ciò non ha impedito ai giudici di «prendere atto» di «elementi nuovi», rispetto a quelli disponibili alla convalida del trattenimento. Tra essi, l’immediata archiviazione del procedimento per le frasi sugli attacchi di Hamas. Inoltre, per le toghe, pur avendo partecipato a un blocco stradale, il 17 maggio scorso, nel comportamento dell’imam non si ravvisava alcun «fattore peculiare indicativo di una sua concreta e attuale pericolosità». E i suoi «contatti con soggetti indagati e condannati per apologia di terrorismo», recitava la nota della Corte, «sono isolati e decisamente datati», «ampiamente spiegati e giustificati». Un cittadino modello.
In realtà, scavando, si appura che i controversi legami di Shahin, ancorché «datati» e «giustificati», sono comunque inquietanti. Secondo quanto risulta alla Verità, nel 2012, quest’individuo bene «integrato» sarebbe stato fermato dalla polizia di Imperia assieme a Giuliano Ibrahim Delnevo. Chi era costui? Uno studente genovese di 23 anni, convertito all’islam e ucciso nel 2013 in Siria, dove stava combattendo con i ribelli di Al Nusra, affiliata ad Al Qaida. Sempre nel 2012, l’imam fu immortalato nella foto che pubblichiamo qui accanto, al fianco di Robert «Musa» Cerantonio, il «jihadista più famoso d’Australia» - in Australia si è appena consumata la mattanza di ebrei - condannato nel 2019. Cerantonio fu ripreso anche davanti a San Pietro con la bandiera nera dell’Isis. Minacciò: «Distruggeremo il Vaticano». Cinque anni più tardi, nell’ambito delle indagini su un musulmano radicalizzato a Torino, Halili Elmahdi, sarebbe stata registrata una conversazione nella quale il sospettato consigliava a un’altra persona di rivolgersi a Shahin. Intendiamoci: Halili Elmahdi era considerato il «filosofo dell’Isis» ed evocava il «martirio» e la «guerra santa» come unica via per «i buoni musulmani». Se i contatti di Shahin sono datati, forse c’è una ragione che non ha per forza a che fare con la svolta moderata dell’imam di Torino: Delnevo è morto 12 anni fa; Elmahdi è rimasto in carcere fino al 2023.
Ieri, a 4 di sera su Rete 4, il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, caustico verso certe sentenze «fantasiose», frutto di un «condizionamento ideologico», ha confermato i «segnali di vicinanza di Shahin a soggetti pericolosi», andati «a combattere in scenari di guerra come quello della Siria». Era il caso di Delnevo, appunto. Alla domanda se l’imam fosse pericoloso, Piantedosi ha risposto che «lo era per gli analisti, per gli operatori, per le cose che avevamo agli atti». Non per i giudici. La cui decisione «ci amareggia, perché vanifica il lavoro che c’è dietro, degli operatori di polizia che finora hanno tenuto immune il nostro Paese dagli attentati terroristici».
È questo il nocciolo della questione. Giorgia Meloni, lunedì, ha usato toni durissimi: «Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani», ha tuonato, «se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». Nell’esecutivo serpeggia autentica preoccupazione. La Verità ha appreso che, da quando a Palazzo Chigi si è insediata la Meloni, sono stati espulsi dall’Italia ben 215 islamici radicalizzati. In pratica, uno ogni cinque giorni. È questa vigilanza, associata al lavoro di intelligence, che finora ha preservato il nostro Paese. La magistratura applica le norme, bilanciando gli interessi legittimi. Ed è indipendente. Ma sarebbe bene collaborasse a tutelare l’incolumità della gente comune. Ad andare troppo per il sottile, si rischia di finire come il Regno Unito, dove i tribunali islamici amministrano una giustizia parallela, basata sul Corano. Per adesso, lo spirito è un altro: l’Anm del Piemonte si è preoccupata solo delle «esternazioni di alcuni membri del governo» e dell’«attività di dossieraggio riscontrata anche nell’ambito di plurimi social network» sui giudici che hanno liberato il predicatore, ai quali l’associazione ha manifestato «piena e incondizionata solidarietà».
Ieri sera, l’imam di Torino ha auspicato di poter «portare avanti quel progetto di integrazione e inclusione, di condivisione di valori positivi e di vita pacifica, di fede e di dialogo, intrapreso tanti anni fa». Ma per lui, la partita giudiziaria non è chiusa. Il Viminale ha annunciato ricorso contro la liberazione dal Cpr. Lunedì ci sarà un’udienza al Tar del Lazio sull’annullamento del decreto di espulsione di Piantedosi. Gli avvocati di Shahin hanno impugnato anche la revoca del permesso di soggiorno di lungo periodo davanti al Tar del Piemonte; se ne riparlerà a gennaio. Infine, c’è la richiesta di protezione internazionale avanzata dall’imam. La Commissione territoriale di Siracusa l’aveva respinta, ma il tribunale di Caltanissetta ha sospeso il pronunciamento alla luce dalla «complessità della vicenda in esame». Un bel paradosso: dovremmo dare asilo a uno che officia i matrimoni plurimi? Altro che pro Pal: in piazza ci vorrebbero le femministe.
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Getty Images
Lasciando perdere il periodo della pandemia, credo che sia sufficiente prendere i dati economici conseguiti dal nostro Paese. Secondo le previsioni, l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, cioè di una populista in camicia nera, avrebbe contribuito a scassare i conti pubblici e a farci perdere quel briciolo di rispetto che era stato conquistato con Mario Draghi alla guida del governo. Invece niente di tutto questo è accaduto. In tre anni sono stati smantellati il reddito di cittadinanza e il Superbonus, dando garanzia ai mercati sul contenimento del deficit sotto il 3 per cento. I poveri non sono aumentati, come invece sosteneva l’opposizione e prima ancora qualche professore. Né sono crollate le imprese edili. I salari sono saliti e, anche se non hanno recuperato il gap degli anni precedenti, quanto meno sono stati al passo con l’inflazione dell’ultimo triennio. Quanto all’occupazione il saldo è positivo, come da tempo non si vedeva. Per non parlare poi dei dazi, di cui la sinistra unita ai suoi trombettieri quotidiani attribuiva la responsabilità indiretta all’attuale maggioranza, giudicata troppo trumpiana. Nonostante l’aumento delle tariffe, l’export delle nostre imprese verso gli Stati Uniti è andato addirittura meglio che in passato.
I centri per il trattenimento e il rimpatrio in Albania, tanto criticati dai compagni e dalla stampa e osteggiati in ogni modo dalla magistratura, dopo oltre un anno di pregiudizi ora sono ritenuti una soluzione possibile se non auspicabile addirittura dal Consiglio d’Europa.
Ma il meglio la classe politica e quella giornalistica l’hanno dato con la guerra in Ucraina. Per anni ci sono state raccontate un cumulo di fesserie, sia sull’efficacia delle sanzioni messe in campo contro la Russia (ricordate la famosa atomica finanziaria, ossia l’esclusione della banche russe dal circuito delle transazioni internazionali, che avrebbe dovuto mettere Putin con le spalle al muro in un amen?) sia sugli armamenti decisivi del conflitto che America ed Europa avrebbero potuto mettere a disposizione di Kiev. Per non dire poi delle iniziative Ue, con i volenterosi a spacciare patacche per soluzioni. Anche in questo caso l’Italia era descritta come una Cenerentola, tenuta ai margini delle iniziative concordate da quei due fulmini di guerra di Keir Starmer e Emmanuel Macron: fosse per loro, e per i giornalisti che gli hanno dato credito, la tregua forse si raggiungerebbe nel secolo prossimo venturo. Tralascio quelli che spingevano per il riconoscimento della Palestina, invitando a seguire l’esempio di Francia e Spagna: come si è visto, le varie dichiarazioni non sono servite a nulla e l’unica speranza per Gaza era e resta il piano di Trump.
Che dire? Se i giornaloni volessero riconoscere di aver scritto una montagna di sciocchezze andremmo avanti per settimane. Ma state tranquilli, nemmeno questa volta ammetteranno gli errori. Sono giornalisti con l’eskimo, mica cretini.
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Roberto Gualtieri (Ansa)
Già da circa un anno il deflusso dei visitatori è contingentato, con un tetto massimo di 400 persone che possono sostare nell’area. Ma dal nuovo anno la novità sembrerebbe essere tutta nelle code: due corsie separate, una per i romani e l’altra per i turisti che dovranno pagare il ticket.
La scelta, voluta dall’assessore al Turismo e grandi eventi Alessandro Onorato e condivisa dall’amministrazione comunale guidata dal sindaco Roberto Gualtieri, va nella direzione di salvaguardare la fontana più grande di Roma, capolavoro tardo-barocco di Nicola Salvi. I numeri, del resto, parlano chiaro: soltanto nei primi sei mesi di quest’anno la Fontana di Trevi ha registrato oltre 5,3 milioni di visitatori, più di quanti ne ha totalizzati il Pantheon nell’intero 2024 (4.086.947 ingressi).
Ma la decisione sembrerebbe non essere ancora ufficiale. «Si tratta solo di una ipotesi di lavoro», precisa il Campidoglio in una nota, «su cui l’amministrazione capitolina, come è noto, sta ragionando da tempo. Tuttavia, ad oggi, non sono state decise date, né sono state prese decisioni in merito».
Nonostante questo, già insorgono voci contro il ticket per i turisti. «Siamo da sempre contrari alla monetizzazione di monumenti, piazze, fontane e siti di interesse storico e culturale, e crediamo che istituire biglietti di ingresso a pagamento sia un danno per i turisti», tuona il Codacons, «i soldi raccolti non vengono utilizzati per migliorare i servizi all’utenza ma solo per coprire i buchi di bilancio». L’associazione dei consumatori, pur opponendosi al ticket, sostiene gli ingressi contingentati.
Ancora più duro il vicepresidente del Senato e responsabile Turismo della Lega, Gian Marco Centinaio: «Il Comune di Roma non può impedire la libera circolazione dei turisti su uno spazio pubblico. È come fare uscire Fontana di Trevi dall’Unione europea». Secondo Centinaio, «Gualtieri e Onorato vogliono solo fare cassa a scapito di chi viene a visitare la Capitale».
Che ci sia bisogno di una regolamentazione dei flussi turistici per evitare sovraffollamenti è fuori discussione. Ma la sensazione è che l’amministrazione capitolina, dopo aver incassato per anni le monetine che i turisti lanciano nella fontana (tradizione che vale circa 1,5 milioni di euro annui devoluti alla Caritas), ora voglia tassare anche l’ingresso.
Se l’ipotesi diventasse realtà, il turista del futuro pagherebbe 2 euro per entrare, poi lancerebbe la sua monetina per tornare a Roma, spendendo di fatto 3 euro per un solo desiderio. Una sorta di tassa anticipata sul gesto più iconico della Capitale. Del resto, perché aspettare che i visitatori lancino spontaneamente le monete quando si potrebbe riscuotere subito alla porta? L’amministrazione Gualtieri avrebbe semplicemente tagliato i tempi: il Comune incasserebbe prima, la Caritas dopo. Il turista, nel frattempo, girerebbe le spalle alla fontana e lancerebbe la sua moneta, ignaro di averla già praticamente pagata al botteghino. Magari con carta di credito e scontrino fiscale. La leggenda dice che chi lancia una moneta nella Fontana di Trevi tornerà a Roma. E probabilmente è vero: per vedere cos’altro sia diventato a pagamento nel frattempo.
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