2019-08-20
Si è costituito il killer della barista di Reggio
Il marocchino Hicham Boukssid, già espulso due volte, era sporco (forse del sangue della vittima) quando è entrato in una caserma della città emiliana. Ha indicato ai militari l'esatto nascondiglio dell'arma del delitto. L'epilogo dopo dieci giorni di caccia all'uomo.Non si era mai mosso da Reggio Emilia Hicham Boukssid, 34 anni, l'assassino di Hui «Stefania» Zhou, 25 anni, uccisa a coltellate nel bar in cui lavorava nella periferia della città, sotto gli occhi dei clienti nel pomeriggio di giovedì 8 agosto. Si è presentato spontaneamente ai carabinieri, entrando in piena notte in una caserma della città, scalzo, con gli indumenti sporchi, presumibilmente macchiati di sangue. Si è consegnato, forse perché intorno a lui il cerchio si stava stringendo e ha confessato il delitto. Prima di uccidere l'immigrato irregolare, con due decreti di espulsione alle spalle e senza fissa dimora, aveva più volte mostrato atteggiamenti aggressivi verso la delicata ragazza orientale, senza però che tra i due vi fosse mai stata alcuna relazione. I parenti della giovane ora temono che l'assassino voglia usare l'ipotesi dell'ossessione d'amore e del delitto passionale per puntare ad una riduzione della pena. Proprio a questo Boukssid, che era cliente del bar Moulin Rouge dove la giovane lavorava con la madre, avrebbe accennato durante l'interrogatorio davanti agli inquirenti, mentre la cognata di Stefania racconta un'altra verità. Comunque sia, quel pomeriggio Stefania era sola. La madre, che divideva con lei il lavoro nel locale acquistato dalla famiglia dieci anni fa, era uscita per alcune commissioni. Quando è rientrata, due ore dopo, ha trovato la figlia in un lago di sangue, esanime, e la polizia già a caccia del suo assassino. Che cosa sia successo lo hanno raccontato i clienti, presenti nel bar a quell'ora e involontari testimoni dell'efferato delitto: l'uomo è entrato urlando parole incomprensbili, probabilmente in arabo, era già armato di un coltellaccio da cucina lungo almeno 30 centimetri che brandiva con forza. Si è diretto senza esitazione dietro il bancone dove si trovava Stefania e l'ha accoltellata al ventre e al torace più volte. Lei ha gridato per la paura e per l'orrore, poi si è accasciata a terra priva di sensi ed è morta in pochi minuti. Così come era arrivato dal nulla, l'assassino dopo aver colpito a morte la ragazza si è dileguato per le strade di Reggio, riuscendo a far perdere le proprie tracce. Da dieci giorni era ricercato da tutte le forze dell'ordine con una caccia all'uomo senza esclusione di colpi, avviata con l'aiuto dei cani molecolari, dei droni e con un ordine di cattura diramato insieme alla foto segnaletica dell'indiziato in tutta Italia, con segnalazioni alle frontiere di confine. Gli inquirenti, fin da subito, sono rimasti convinti che l'uomo non si fosse allontanato da Reggio Emilia. Diversi giacigli utilizzati proprio da Boukssid erano stati individuati nella zona della ferrovia dai cani molecolari e gli agenti avevano ritrovato abiti e scarpe del ricercato che, come poi si è confermato, si stava spostando senza nulla e forse addirittura scalzo. Negli ultimi giorni, per stringere il cerchio intorno all'uomo la polizia si era concentrata sui potenziali amici e sugli aiuti che Boukssid avrebbe potuto sfruttare. Gli uomini della squadra mobile avevano sentito «decine di persone» collegate al mondo dello spaccio, dove il marocchino avrebbe legami consolidati e le segnalazioni non erano mancate. Da lunedì scorso 27 agenti in più erano entrati in azione per braccarlo anche perché l'arma del delitto non era ancora stata ritrovata e si temeva per nuove azioni violente. Invece l'assassino di Stefania si è consegnato da solo, alle 2 di notte tra domenica e lunedì e dopo alcune ore di permanenza nella sede del comando dell'Arma è stato condotto in carcere. Su sua indicazione i carabinieri hanno trovato il coltello che si ritiene sia stato usato per compiere l'omicidio in un giaciglio utilizzato dall'uomo come nascondiglio, alla periferia della città. A quanto risulta, l'uomo avrebbe accennato ad una sorta di ossessione verso la ragazza, una specie di amore malato, ma i parenti di Stefania rifiutano categoricamente questa versione che potrebbe dare, come purtroppo raccontano tanti processi del passato, un movente passionale (dunque quasi «comprensibile») ad un efferato delitto. Dalle analisi del cellulare della giovane non ci sarebbe alcuna evidenza di contatti tra lei e il suo assassino. «Prendeva il caffè e la brioche, consumava lì al bar poi se ne andava. Niente di particolare», ha spiegato in una intervista Gioia Zhou, cognata di Hui. Più volte in precedenza l'uomo si sarebbe mostrato violento. Bastava il ritardo nel servire il caffè o nel rispondere ad altre richieste per scatenare l'ira di quel cliente abituale. Ma «niente a che vedere con l'amore», hanno garantito i parenti di Stefania. «Stanno giocando su questa carta per una possibile diminuzione della pena, non sappiamo», hanno ribadito temendo che l'idea di spacciarlo per un delitto d'amore sia stata suggerita dalla famiglia di Boukssid. «Adesso ci concentriamo sui funerali, al resto penseremo mercoledì quando torneremo in questura», hanno garantito nelle interviste rilasciate alle tv locali.
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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