2022-09-26
Sfogliatella. Il simbolo di Napoli: riccia o frolla è sempre una tentazione
La formula tradizionale elaborata nel Seicento nel convento di Santa Rosa. Si prepara con una farina forte, il che la rende una pasta a indice glicemico particolarmente alto.Il maestro pasticcere di San Giorgio a Cremano Sabatino Sirica: «La mia ricetta ha meno semola e zucchero e più ricotta Ci vuole equilibrio anche innovando una specialità tradizionale, perché nessun gusto prevalga sugli altri».Lo speciale contiene due articoli «Napule tre cose tene belle: o mare, o Vesuvio e ’e sfogliatelle» («Napoli ha tre cose belle: il mare, il Vesuvio e le sfogliatelle») dice Bruno Di Ciaccio in La cucina al tempo dei Borboni (Cuzzolin editore). In realtà le cose belle sono molto più di tre. Ma la sfogliatella è un unicum, un dolcetto unico nel suo genere che però svela anche altro, cioè la differenza tra farina forte e farina debole. Questo piccolo gioiello è canonizzato in tre versioni tradizionali. Il sito dell’assessorato all’Agricoltura della Regione Campania ne spiega la storia, che comincia con la sfogliatella Santa Rosa anche detta semplicemente Santa Rosa o santarosa: «La Santa Rosa fu inventata nel Seicento nell’omonimo convento di Conca dei Marini, in provincia di Salerno e, mentre a Napoli si è trasformata nella ricetta della sfogliatella riccia, a Salerno e nelle zone della Costiera amalfitana si è perfezionata sulla base della ricetta tradizionale. La base del ripieno era inizialmente costituita da semola, latte, zucchero e frutta secca rigenerata nel rosolio; la crema ottenuta veniva adagiata su una “pettola”, cioè una sfoglia ricavata spianando una piccola quantità di impasto per la preparazione del pane al quale erano stati aggiunti sugna, zucchero e un po’ di vino, fino a ricavarne una friabile pasta frolla, una seconda “pettola” delle stesse dimensioni della prima serviva a ricoprire la crema di semola. Al dolce fu data la caratteristica forma del cappuccio monacale per essere, poi, adagiato nel forno caldo. Il dolce fu chiamato Santa Rosa in onore della santa alla quale era intitolato il monastero. Ne furono prodotte altre per le famiglie di Conca e quelle benefattrici degli altri centri costieri. Questa usanza fu ripetuta ogni anno il 30 agosto, giorno di Santa Rosa. [...] Oggi il ripieno è formato da semolino, ricotta, canditi, uova, aroma di cannella e zucchero; la sfoglia esterna, composta di farina, sale e acqua lavorati a lungo per ottenere la giusta consistenza, si presenta riccia e guarnita con crema pasticciera e amarene sciroppate». Attualmente il monastero di Santa Rosa non ospita più le monache benedettine come un tempo, ma è un albergo di altissimo livello. Se però incappate in una sfogliatella ripiena crema pasticciera e amarene sciroppate, sappiate che si chiama santarosa. Poi ci sono la sfogliatella riccia o sfogliatella frolla. Ma come avviene questa «mutazione»? Secondo Wikipedia, «la sfogliatella nasce nel XVIII secolo nel conservatorio di Santa Rosa da Lima, a Conca dei Marini (Salerno), quasi per caso: era avanzata nella cucina del convento un po’ di pasta di semola; invece di buttarla, fu aggiunta frutta secca, zucchero e limoncello, ottenendo un ripieno. Fu utilizzato allora un cappuccio di pasta sfoglia per ricoprire il ripieno e venne tutto riposto nel forno ben caldo. Il dolce riscosse molto successo tra gli abitanti delle zone vicine al convento, prendendo il nome di santarosa in onore della santa a cui era dedicato il convento. Nel 1818, il pasticcere napoletano Pasquale Pintauro entrò in possesso della ricetta segreta della santarosa, portando il dolce a Napoli, modificando (leggermente) la ricetta e introducendo la variante riccia-sfoglia». La differenza fondamentale tra riccia e frolla sta non solo nella forma, essendo la prima una conchiglia ottenuta da una fettina di rotolo di sfoglia poi estesa verso un lato a creare una sacca triangolare da riempire e poi chiudere (un procedimento meticoloso e barocco), e la seconda una crostata monoporzione con guscio, ma nell’impasto. L’impasto della prima è una sfoglia realizzata con farina forte, perché resista all’estensione veramente eccezionale necessaria per il rotolo di sfoglia. Stessa caratteristica ha la sfogliatella santarosa, che poi altro non è che una riccia con un ripieno diverso (ma si può trovare anche in forma di frolla, caso in cui somiglia al pasticciotto pugliese, oppure fatta con sfoglia ma non arrotolata o di frolla sì, ma a forma di conchiglia). La differenza fondamentale tra farina forte e farina debole risiede nella forza, un valore indicato con il simbolo W, di solito assente nei pacchetti di farina da un chilo del normale supermercato. Si inizia a trovare nei pacchi di farina di alta gamma e si trova nei grandi sacchi di farina per professionisti che ovviamente usano le farine con consapevolezza e competenza riguardo ai loro aspetti tecnici. La forza della farina determina la capacità di assorbire liquidi durante l’impasto, di trattenere l’anidride carbonica se impiegata in impasti lievitati, di garantire una struttura resistente e tenace anche in cottura e dopo. Il valore della forza della farina dipende dal contenuto di proteine come gliadina e glutenina che compongono il glutine. Una farina forte è quindi ricca di glutine e struttura una maglia glutinica solida, una debole la strutturerà molto meno solida e sarà facilmente smagliabile, assorbirà meno acqua e tratterrà meno gas se impiegata nei lievitati. Dal punto di vista squisitamente nutrizionale e dietetico, una farina forte ha un quantitativo maggiore di proteine e perciò è una farina con un indice glicemico maggiore. Oltre alla sfogliatella santarosa, riccia e frolla, c’è la coda d’aragosta, una sfogliatella riccia più grande e più lunga ripiena con panna montata, crema al cioccolato oppure crema chantilly (in Italia per chantilly intendiamo crema pasticcera e panna, in Francia solo panna montata zuccherata). Se quindi volete una sfogliatella che, come si dice della pizza con un neologismo onomatopeico italoinglese, «crunchi», cioè faccia «crunch!» quando viene morsa, ovvero una sfoglia croccante sotto i denti, optate per una santarosa, per una riccia o per una coda d’aragosta. Se la volete che «crunchi», ma in modo più morbido, compratela (o fatela) oggi e mangiatela domani, per dare il tempo alla sfoglia di diventare un pelo più molle con il tempo. Se volete una sfogliatella dalla pasta più morbida appena è sfornata, optate per la frolla. In conclusione, una piccola curiosità. Esiste anche la sfogliatella abruzzese, tipica in particolare di Lama dei Peligni, dove è chiamata sfogliatella lamese ed è anche protagonista di una sagra locale. Si prepara soprattutto a Natale. Rassomiglia a una conchiglia come le sfogliatelle napoletane santarosa, riccia e coda d’aragosta, ma è fatta di una sfoglia più sottile e quindi resta più morbida, inoltre il ripieno non ha niente a che vedere con quello napoletano: marmellata d’uva, polvere di cacao, mandorle, zucchero e cannella i suoi strati di sfoglia.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/sfogliatella-il-simbolo-di-napoli-riccia-o-frolla-e-sempre-una-tentazione-2658335612.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="oggi-i-dolci-devono-essere-leggeri-per-cogliere-i-sapori-senza-saziare" data-post-id="2658335612" data-published-at="1664149454" data-use-pagination="False"> «Oggi i dolci devono essere leggeri per cogliere i sapori senza saziare» Sabatino Sirica, classe 1941, di Sarno (Salerno), nel 1976 apre la sua pasticceria a San Giorgio a Cremano. Maestro di maestri, cavaliere all’ordine del merito della Repubblica, ha tenuto corsi di pasticceria napoletana anche a New York ed è un habitué della Guida pasticceri e pasticcerie del Gambero Rosso. Ci racconta la sua storia? «Comincio questa bella avventura della pasticceria a 12 anni, 68 anni fa, in un piccolo laboratorio di periferia dove non c’erano macchinari. Tutto quello che si preparava si lavorava a mano, una bella esperienza che mi porto dietro. Poi entro a far parte di una pasticceria che ha fatto la storia della pasticceria napoletana, dove sono stato con grandissimi maestri pasticcieri. Stiamo parlando degli anni Cinquanta. I maestri ci sono anche adesso, ma io ho avuto la fortuna di conoscere quelli, davvero grandi. Non mi sento né professore, né maestro, ma un artigiano della nobile arte della pasticceria». La pasticceria forse più della cucina normale dà l’impressione di realizzare piccole magie... «Ha l’effetto di una magia, perciò definisco la pasticceria una nobile arte, ma non facciamo magie, non abbiamo segreti. È scienza. Fondamentale è usare prodotti di qualità, naturali, come quelli che ci regala la bella terra che è la Campania, poi tanto amore». Lei riesce a trasmettere l’idea che si possa mangiare con con consapevolezza e portando avanti una tradizione. «Fino agli anni Cinquanta si mangiava la sfogliatella all’inizio della giornata e si stava a posto tutto il giorno, perché saziava, talmente era robusta. Io ho personalizzato alcune cose. L’ho alleggerita mettendo meno semola, più ricotta, meno zucchero. Il dolce è fatto di equilibrio, nella ricetta e nella dimensione. Non mi voglio incensare, ma vengono anche da fuori Italia a mangiare la mia sfogliatella. Oggi con il dolce non ci si deve saziare, si deve rimanere leggeri, pur apprezzando il gusto. La mia sfogliatella è talmente leggera che se ne possono mangiare due». Come un bon bon, un cioccolatino? «L’attenzione che si mette nel preparare un dolce determina la soddisfazione di quando lo si porta a tavola. Qualunque tipo di dolce è tipicamente fatto con 4 o 5 ingredienti e si devono sentire tutti. Poniamo la sfogliatella: devo sentire l’involucro, che sia riccia o che sia frolla, devo sentire il ripieno, la ricotta, lo zucchero, i canditi di qualità, gli aromi, che però non devono mai sopraffare. Come la bagna nella torta, che deve inzuppare e profumare, ma non deve esaltare troppo il gusto del liquore sugli altri, se no li va a coprire. Questo vale per il babà, per la pastiera, per tutto». La pasticceria napoletana ha una grande protagonista, la pastiera. Ma è pure ricca di pasticcini, monoporzioni originalissime e con storie molto particolari. Quanto alla sfogliatella, ha alcune varianti già «canonizzate». Può illustrarcele? «Va bene l’innovazione, ma non bisogna strafare perché un dolce deve rimanere tale. Anche io la faccio, ma bisogna dare il giusto contributo all’innovazione. Il ripieno della sfogliatella riccia è uguale a quello della frolla, è solo un poco meno sostenuto quello della frolla, perché la frolla deve scendere un po’, mentre la riccia deve rimanere più compatta». Sì, perché se no quando andiamo a mordere la riccia l’involucro molto croccante schiaccia troppo fuori un ripieno poco sostenuto... «Esatto. Ma si tratta di poco, giusto un poco più di zucchero da una parte e un poco meno dall’altra. C’è tanto lavoro dietro una sfogliatella riccia. È un impasto duro, che poi si deve raffinare. Si ottiene questa sorta di lingua e quando è pronta si va a laminare e sono metri e metri e metri di impasto sottile. Due dolci importanti si fanno con la farina forte, la manitoba, il babà e la sfogliatella riccia. Il babà ha bisogno di questa forza altrimenti questa spugna non terrebbe nel momento in cui va nella bagna, collasserebbe. Anche nella sfogliatella riccia c’è bisogno della forza, perché il suo impasto deve essere sottile come un foglio di carta, trasparente, talmente è sottile. È un impasto elastico, che si avvolge e si avvolge fino a ricavare come un grosso salame. Si lascia riposare, poi si ottengono tante fettine e di ogni fettina facciamo una campanella, un cono, un tappo». Estendendo la fettina con le dita, piano piano... «E pensare che adesso abbiamo i macchinari che ci aiutano a laminare, ma un tempo questo impasto si faceva a mano. Si impastava a mano, si raffinava a mano e si laminava a mano. Se questo impasto non è raffinato bene, nel momento in cui si va a laminare, che sia con la sfogliatrice o con il mattarello, si rompe. Come si ottiene questa lingua così pesante e dura? In un impasto brioche siamo intorno ai 650 grammi di liquido da assorbire, nell’impasto della sfogliatella riccia abbiamo 380 grammi, massimo 400 grammi di liquidi. Mancano circa 200/ 250 grammi rispetto a un impasto più tenero: questo rende l’impasto più forte, più secco e perciò si può raffinare e laminare bene, tirando tirando per ottenere una sfoglia sottilissima. Quando poi questa sfoglia si arrotolerà, ci si stenderà prima lo strutto sopra, per far sì che l’impasto non si attacchi. E quando le sfogliatelle ricce che si ottengono da questo impasto andranno in forno si apriranno». E la struttura del ripieno? «Grazie alla semola si ottiene un ripieno di ricotta e zucchero più strutturato». Parlando sempre di struttura, la sfogliatella frolla è invece una crostata con guscio formato monoporzione e non si deve impastare con la manitoba, giusto? «No, manitoba solo per sfogliatella riccia e babà. Le frolle devono essere appunto frollose e perciò ci vogliono farine molto deboli. Io uso la farina Caputo da 46 anni e conosco i Caputo da 30. Questa è una farina di qualità che mi ha sempre dato grande soddisfazione». E il ripieno della frolla? «Ci vuole un pochino di zucchero in più, la frolla si deve sedere un pochino... Quello degli impasti è un mondo. Un mondo di conoscenze. Anche il babà è un impasto molto particolare. Si usa una farina forte, ma si deve impastare bene altrimenti può collassare lo stesso. La pasticceria è fatta di regole. Se io pretendo di impastare un babà e fargli assorbire liquidi come una spugna, non posso rischiare di rompere la maglia glutinica. Allora si impasta un po’ alla volta, prima si struttura l’impasto formando la maglia glutinica, poi si aggiungono i liquidi». Sembra che si parli di malte e cemento, d’altronde anche in pasticceria si edificano strutture. Babà, sfogliatella riccia e liscia: quali sono i dolci della pasticceria napoletana che tutti dovrebbero conoscere? «Babà, sfogliatelle e pastiera sono i tre dolci per i quali gli stranieri vengono apposta a Napoli, oggi li conoscono anche tramite i social». Sono le fondamenta. «Sì, ho avuto grandi soddisfazioni in America insegnando a chef americani. Un anno abbiamo fatto anche la colazione, con brioche, cornetti e graffe». La graffa è un’altra chicca dolce napoletana! «Sì, anche la graffa ha un impasto particolare. Qualunque impasto, dal bignè al panettone, ha una sua struttura e alla fine deve risultare liscio e asciutto, in questo modo in forno hanno la forza per “esplodere”, cioè per svilupparsi senza che collassi niente». Sabatino, pasticceria Sirica è stata per 30 anni la pasticceria del Napoli. «Anche negli anni di Maradona». Qual era il dolce preferito di Maradona tra i suoi? «La torta di panna e fragola. Di Maradona, Higuain, Mertens e tutti i grandi calciatori che si sono susseguiti nel Napoli. La preparo da 46 anni ed è una torta che ho definito storica. Permettimi di aggiungere che sono anche un pasticcere Unicef, in occasione delle celebrazioni per la Convenzione per i diritti dei bambini ho preparato 10 grandi torte per simboleggiare i diritti. Non faccio business in pasticceria, io i soldi non li guardo proprio, guardo solo la passione». La pasticceria è buona non solo nel senso di bontà di gusto, ma anche di sentimento? «Sì. Io ringrazio Dio per quello che ho dato e voglio dare ancora».
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