2021-05-01
Se vogliamo ripartire con slancio non sprechiamo questa pausa forzata
La pandemia, con il suo corollario di vita in cattività, è solo l'ultima battuta di arresto: il mondo sta rallentando da anni, sotto il peso di un certo capitalismo disfunzionale. Ma se comprendiamo questo potremo riprenderci. L'ultimo anno e mezzo ci obbliga a riconoscere dove ci troviamo oggi, con Covid vagante annesso. Il cambiamento più evidente è che il mondo (tutto, non solo quello occidentale), non è più in corsa verso chissà quale meraviglioso mondo futuro, ma sta vistosamente rallentando nella maggior parte dei settori (tranne - probabilmente non a caso - bitcoin e altre monete virtuali: i «valori» inesistenti). Il problema ormai non è più andare troppo in fretta, ma non esagerare con le frenate, perché potrebbero esserci tamponamenti e qualcuno rischia di farsi male. Dobbiamo (tutti) imparare a rallentare bene. Certo l'Italia deve addirittura ripartire, e forse ora potrebbe anche riuscirci, se si rinunciasse a fare i furbi. Anche per rimettersi in marcia, però, occorre capire dove si è oggi. Per esempio l'intera riconversione ecologica, con stili di vita connessi, diventa incomprensibile e inaccettabile se non si capisce che il sistema è già da un pezzo «imballato», semifermo, e che per ripartire davvero occorre cambiarlo. In realtà sono almeno 50 anni che il mondo sta rallentando. La fine degli anni Sessanta, con il suo misto di euforia e terrore, già annunciava il cambiamento. Fu anche per reazione alla fiacca recita di quel capitalismo arrembante e psicologicamente inflazionato che allora decine di migliaia di ragazzi corsero in India. Non solo per drogarsi, ma perché lì tutto andava finalmente adagio, c'erano poche macchine, si mangiava meno, ci si poteva vestire con tre stracci e nessuno trovava da ridire. Finalmente non dovevano sembrare niente di speciale; invece della tv potevano guardare il mare, o i riti meditativi dei tibetani o degli indiani. Un comportamento anche ingenuo, spesso seguito da drammi, ma premonitore di ciò che ormai cominciava a accadere: il consumismo non era già più l'obiettivo di tutti. Neppure Marx e il comunismo c'entravano, anch'essi di lì a poco travolti dallo stesso fenomeno, assieme alle rispettive visioni e ideologie. A molti di quei ragazzi, della «lotta di classe« così come della «società dei consumi», non gliene poteva importare di meno. Da allora, il rallentamento si è fatto più visibile, anche se a lungo nascosto. È David Quammen, avventuroso cronista della pandemie contemporanee, a raccontare in Perché non eravamo pronti i ritardi e le omissioni nel ridurre le aggressioni alla natura, concausa decisiva delle pandemie e del rallentamento, da parte della globalizzazione inaugurata in quegli anni e continuata finora. Così, poi, è arrivato il drammatico 2020, con il suo ultimo Coronavirus d'annata, e molti si sono ritrovati a passare l'ultimo anno tra tuta e pigiama, con obbligo di maschera, e le istituzioni che ingiungevano di stare a casa e non fare nulla se non di virtuale. Qualcuno ci ha anche preso gusto, e ciò alimenta malesseri e psicoterapie. Sulla questione di fondo, però, non c'è più discussione: il rallentamento universale è un fatto, di cui si occupano autori di grido come Jonathan S. Foer, ma anche puntuali geografi e demografi come Danny Dorling, professore a Oxford, che al tema ha ora dedicato il documentato volume: Rallentare. La fine della grande accelerazione e perché è un bene. (Cortina editore). Anche la Cina, e gli altri Paesi rimasti indietro nello sviluppo, sono impigliati nella stessa inesorabile tendenza. Il meccanismo è inceppato, e non per ragioni ideologiche: è l'interesse all'ideologia (consumismo o comunismo che sia) ad essersi spento. Forse (come ha sempre intuito la storiografia realista, da Machiavelli a Pareto a Aron), l'uomo quando il gioco si fa duro per farcela ha bisogno di scopi più sostanziosi dei simboli di status: la salute del corpo e quella dell'anima. Infatti dai Paesi che finora hanno attraversato meglio l'epidemia (Israele o la Svizzera, ad esempio), sembra che la soluzione migliore sia osservare e seguire la semplice, elementare lotta per la vita, senza permettere alle ideologie (compreso quelle sanitarie, con relative organizzazioni e corporazioni), di mettere al secondo posto la spinta vitale (morte compresa). Rallentano intanto le nascite, i consumi, la propensione a indebitarsi, le invenzioni, l'allungamento della vita: tutto. Forse, però, non è il caso di spaventarsi. Non perché la «decrescita» sia obbligatoriamente «felice», come sostenevano qualche decina di anni fa altre ideologie dell'addormentamento. Ma perché il rallentamento dopo la corsa è naturale come l'arrivo dell'inverno dopo l'estate, per preparare la primavera successiva. «Le belle stagioni per l'espansione umana e per le sempre più importanti innovazioni tecnologiche, stanno rallentando, stabilizzandosi» constata Dorling; e aggiunge: «Ma non dobbiamo avere paura». «L'alternativa - una popolazione umana in costante crescita, società ancora più divise economicamente, un consumo pro capite sempre maggiore - sarebbe catastrofica». Rallentando la pazza corsa invece, si va «verso qualcosa di più stabile e sensato». Servirà a «capire che non si può trovare la felicità acquisendo nuovi oggetti e esperienze esotiche ». I rapporti tra i periodi di accelerazione-sviluppo seguiti da inevitabili di crisi-rallentamento sono illustrati nelle grandi tavole cronologiche di Rallentare, con l'indicazione di anni, quantità, tendenze. Ne nascono dei serpentoni che nell'espansione salgono e tendono sempre più alla destra della pagina, verso i numeri alti, fino a quando arriva la crisi e devono ripiegare in tutti i campi: demografia, fecondità, economia. geopolitica, vita. Non svoltando troppo a sinistra altrimenti non c'è più l'indispensabile ricambio per pareggiare i vivi coi morti. Così il serpente tende a assomigliare (nel mio sguardo fiducioso e boschivo), a un albero, che punta direttamente verso il cielo invece di zizzagare tra il troppo e l'insufficiente.Se poi si unisce l'enorme documentazione presentata da Dorling in Rallentare agli altri lavori degli ultimi anni, da David Quammen in Spillover a Jared Diamond con Collasso. Come le società scelgono di vivere o di morire, si vede come le crisi, coi loro rallentamenti nei vari campi, siano sempre più (fin dalla prima: l'Hiv degli anni Ottanta) gli effetti economici delle malattie, che le provocano e accompagnano. È il nostro corpo martoriato dalla stupidità il grande accusatore del nostro stile di vita, sistema economico e modello culturale. Le patologie contemporanee sono patologie della fretta, del disprezzo per la natura, del materialismo e dell'avidità aggressiva. Dobbiamo rallentare, se vogliamo continuare a vivere. Se possibile bene.