2019-12-15
Se serve alla causa Sofri diventa persino sovranista
Nell'ultimo libro, il mandante dell'omicidio Calabresi liscia il pelo all'irredentismo sloveno. Ma l'anelito di libertà non giustifica delitti.La passione morbosa di Adriano Sofri per i delitti politici lo ha spinto a pubblicare Il martire fascista (Sellerio), nel quale ricostruisce la vicenda di un maestro siciliano, Francesco Sottosanti, andato a insegnare nel paese di Verpogliano di Vipacco presso Gorizia, annesso all'Italia dopo la Prima guerra mondiale ma con abitanti sloveni, e ucciso alle spalle sotto casa il 4 ottobre 1930. Era stato accusato da sloveni contrari al dominio italiano (di fatto nazionalisti, anche se antifascisti) di brutali violenze contro i piccoli alunni, «colpevoli» di non parlare italiano. Il fascismo, impegnato nell'italianizzazione della Venezia Giulia e dell'Alto Adige, ne fece un «martire». Un figlio del maestro ebbe notorietà perché implicato nelle indagini sulla strage di piazza Fontana a Milano nel 1969. E nel libro Sofri non manca di schizzare veleno contro Luigi Calabresi - che si sarebbe servito di «confidenti prezzolati» - e i carabinieri, descritti sempre come violenti. Cita addirittura, con tono comprensivo, il linciaggio di un carabiniere a piazzale Loreto nel 1920 perché reo di aver sparato a una folla di sovversivi che voleva disarmarlo. L'interesse del giornalista per l'episodio del 1930 è dovuto anche all'essere nato da una maestra a Trieste, dove ha vissuto parte dell'infanzia. Sofri ricorda quando da bambino ogni tanto incontrava qualche profugo malridotto che attraversava il confine sul Carso di soppiatto. Tralascia di spiegare, però, che quei derelitti fuggivano dai regimi comunisti dei Paesi dell'Est, in primis la confinante Jugoslavia. Così come non menziona affatto i profughi istriani, per lui gente che se l'era cercata. Vediamo di ricostruire meglio il quadro delineato da Sofri. L'irredentismo italiano della Venezia Giulia era di matrice liberaldemocratica e mazziniana. Trieste è un caso interessante: divenuta un grande porto dell'Impero degli Asburgo, richiamò gente di diversa provenienza che però, anziché dare vita a un non luogo multiculturale come si vorrebbe oggi, si riconobbe nella cultura e nell'identità italiane. L'irredentismo fu, come osservò Giorgio Pressburger, «un atto d'amore per la cultura mediterranea. Io non la vedo come un muro alzato per chiudere fuori dalla città quella capacità di convivenza tra etnie, culture, lingue e religioni diverse che l'Impero austroungarico era riuscito a creare. Ritornare all'Italia, per Trieste, significava soprattutto libertà, autodeterminazione. Era un grande atto d'amore». Il rapporto di Trieste con l'entroterra sloveno era quello tipico della città con la campagna, vista come arretrata e buffa: accadeva così dappertutto, non c'entra niente il razzismo.Nel 1924 Piero Gobetti notava come il fascismo a Gorizia si servisse di sloveni della campagna per eliminare dall'amministrazione comunale gli ex irredentisti seguaci di Gaetano Salvemini. In seguito il fascismo represse l'identità slovena degli abitanti dell'entroterra giuliano, causando la reazione violenta di gruppi nazionalisti sloveni lungo il confine. Intorno al 1930 si ebbe uno stillicidio di attacchi armati contro militari italiani e molti morirono. Il clima ce lo restituisce anche un curioso romanzo di Guido Testoni, Ai margini della Jugoslavia. I militanti sloveni antifascisti degli anni Trenta subirono le condanne a morte del Tribunale speciale fascista o la messa in ombra da parte del regime di Tito. Sofri non riesce a spiegarsi come mai la vicenda del maestro ucciso non venga ricordata oggi nel paesello dove avvenne. Gli sfugge che forse i paesani riconoscono che una vicenda del genere non sia proprio un atto eroico da celebrare. Tanto più, come Sofri stesso dimostra sulla base di documenti d'archivio, che quel maestro scontò colpe forse commesse da un fratello, anch'egli per breve tempo insegnante nel Goriziano e poi allontanato a seguito di lamentele dei paesani circa il suo comportamento. Si trattò dunque di un tragico scambio di persona.Anche durante il periodo fascista, aggiungiamo, non mancava qualche persona di buon senso. Nel 1942 il professor Giuseppe Scandol commentava: «Io sono triestino e nato sotto l'Austria. Nonostante i metodi coattivi usati dall'Austria, noi italiani siamo rimasti italiani e parecchi di noi anziani ignorano il tedesco. L'Italia ha cercato di italianizzare il retroterra giuliano, che, purtroppo, è sloveno, e c'è riuscita così bene che il Tribunale speciale si è ormai fissato a Trieste. Quindi, per esperienza remota, sono alieno da qualsiasi imposizione di carattere spirituale». Autogol di Sofri quando giustifica la reazione di alcuni sloveni contro un carabiniere brillo che li aveva insultati perché non rendevano omaggio agli ex combattenti italiani. Quegli sloveni erano sulla loro terra, si scandalizza Sofri. Come si può pretendere che rendano omaggio agli stranieri invasori che pretendono di appropriarsene? Un magnifico esempio di sovranismo, diremmo oggi. Bravo Sofri. Quegli anni in realtà videro un pullulare di problemi di minoranze etniche un po' dappertutto in Europa. Di lì a poco il compagno Stalin trovò un modo drastico per sbarazzarsi degli ucraini. Nel 1928 in Francia - la patria dei Diritti dell'uomo, no? - erano sotto processo i capi del movimento autonomista in Alsazia. La stessa Francia che al tempo della Rivoluzione aveva dichiarato la necessità, in nome della Nazione, di fare tabula rasa delle parlate locali, non solo i dialetti ma anche lingue come l'occitano, il bretone, il basco. In Alsazia ancora qualche tempo fa poteva capitare in un bar che le persone del posto, intente a conversare tra loro in dialetto tedesco, passassero a parlare in francese all'ingresso di un estraneo.Sofri non sembra al corrente della vita culturale slovena. Cita il sin troppo osannato Boris Pahor, ma ignora l'altro grande scrittore sloveno triestino, Alojz Rebula, recentemente scomparso, testimone sia delle angherie fasciste sia della brutalità del comunismo di Tito e capace di riaffermare strenuamente la propria identità slovena senza per questo negare i torti subiti dagli italiani da parte slovena con le foibe. Rebula ricordava come la madre aiutasse i soldati italiani fuggiaschi dopo l'8 settembre 1943 (ben diversamente accadde in Alto Adige) e nei suoi romanzi mise anche personaggi italiani non negativi (carabinieri compresi). Ma soprattutto ricordò i crimini del comunismo (verso cui non nutrì la minima simpatia, nemmeno nella versione del '68), in primis l'uccisione nel 1945 - rievocata dal recente film Il segreto della miniera - di decine di migliaia di sloveni (compresi donne e bambini) colpevoli di essere cattolici e contrari al comunismo. La strage era stata preceduta da uccisioni mirate di oppositori, rivendicate con lo slogan «Morte al fascismo! Libertà al popolo!». In quel frangente lo scrittore sloveno Narte Velikonja ebbe il coraggio di scrivere pubblicamente: «Non voglio una tale libertà, perché non ho nulla in comune con i criminali e non voglio delitti». Ne ricavò la morte (malgrado fosse invalido, povero e con famiglia numerosa) e l'ammirazione di chi sa che il delitto non è mai giustificato dall'amore per la libertà. Sofri farebbe bene a meditare su questo.