2020-09-01
Bertolaso: «Se mancano i bus, lo Stato li requisisca»
Guido Bertolaso (Getty images)
L'ex capo della Protezione civile: «Dopo il terremoto abbiamo fatto così, creando pure lavoro. Il Cts mette becco dove non dovrebbe, come sui rientri nelle classi. Gli ospedali anti Covid che ho realizzato serviranno. Sono ancora vivo grazie a Zangrillo e alla clorochina».«Prenda per esempio la questione dei termometri». Intende i famosi termometri per misurare la temperatura nelle scuole, dottor Bertolaso?«Proprio quelli. Io credo che siano un esempio perfetto di come avrebbero dovuto funzionare, e non hanno funzionato, i rapporti tra la politica e il governo». In che senso? «Ma le pare che una struttura come il Comitato tecnico scientifico debba intervenire persino sui termometri?».A lei non pare? «Ma certo che no! Tu sei uno scienziato, devo darmi un parere scientifico: e questo parere - ad esempio - è che con 37.5 il bambino non deve entrare a scuola. Bene, una volta che tu, Comitato, hai stabilito questo, il tuo lavoro è finito».Cosa intende dire?«Come si misura la temperatura, e dove, lo decido io: il governo, la politica. E devo avere la competenza e la forza per poterlo fare». Potrei essere d'accordo con lei, ma mi spieghi perché. «Perché poi i provvedimenti vanno calati nella realtà, nel Paese, nelle famiglie, e - possibilmente - anche con una buona dose di senso pratico». E lei non crede che il Cts lo abbia? «Io credo che non lo debba proprio avere, è diverso. Non spetta a loro. Non è il loro lavoro. Non sono stati formati per questo». E chi lo dice? (Sorride) «Io. Sono scienziati: il loro compito è vagliare ricerche e studi, non occuparsi di questioni organizzative. Di dare disposizioni. Nello specifico, ad esempio ho un'idea».Quale? «Io sono d'accordo con quello che hanno detto il professor Massimo Galli e il professor Andrea Crisanti: la temperatura va misurata a scuola, per tutti, allo stesso modo, e per tutti con un unico criterio uniforme. Ma scherziamo?»Il Cts paventa le file agli ingressi.«Ma quali file? Non ci sono file negli aeroporti, negli ospedali, nelle fabbriche. Ecco, se ci sono file lo facciamo decidere a chi si occupa delle file per mestiere». Cioè lei? «Cioè quelli che si occupano delle questioni organizzative. Perché ricordi: in una emergenza, una buona idea, se non è praticabile, diventa sempre una pessima idea». Però provi a immaginare anche i lati positivi di questa misurazione a domicilio. (Ride) «Come no. Mi immagino la soddisfazione delle società che fabbricano i termometri. Guadagnano otto milioni di clienti! Vorrei investire sui termometri a pistola...».Non scherzi, e facciamo la controprova: come si sarebbe potuta risolvere la questione degli scuolabus?«Semplicissimo, è quello che abbiamo già fatto, in scala ridotta, nelle aree colpite dal terremoto. Requisisci ogni mezzo in nome dell'interesse pubblico. Fra l'altro indennizzando i proprietari e gli autisti che - invece di sopravvivere con i sussidi - potrebbero tornare a lavorare». L'Italia è un Paese grande e variegato. «Senta, in Abruzzo abbiamo fatto di più. Per poter servire i paesini più piccoli e sperduti ci siamo arrivati con i mezzi dell'esercito. Ha funzionato tutto, e benissimo. Così la finiremmo con queste dispute sui coefficienti di riempimento e sulle idee bislacche del tipo «smontate i finestrini»». Guido Bertolaso sembra stia meglio di quando partì per Milano, prima di contagiarsi con il Covid nell'ospedale della Fiera. Si arrabbia, diventa serissimo nel racconto dell'epidemia, ma poi scherza anche su sé stesso, dice: «Sono fortunato. Se avessi guidato io questa emergenza mi avrebbero decapitato in tre giorni». Bertolaso, come è stata l'esperienza della malattia? (Pausa, sospiro) «Se non fossi andato a Milano, da Alberto Zangrillo, sarei sicuramente morto. Oggi, invece che farmi intervista, lei al massimo potrebbe scrivere un coccodrillo». Come come? «Mi sono ammalato in tre giorni. Non all'ospedale della Fiera, come si è detto, visto che non c'è stato un solo positivo. Dai miei calcoli è stato durante un giro che ho fatto tra i medici in prima linea». Pentito?«Sta scherzando? In quei giorni da loro non ci andava nessuno, per me era un dovere». Un rischio. (Sospiro) «Quando affronti una emergenza così devi mettere in conto tutto, anche la sfiga». Ma perché dice che sarebbe morto? «Perché quelli della mia età, in quel periodo, statisticamente sono morti. Poi se ci vogliamo raccontare un'altra storia, raccontiamocela». È quel che ha detto - fra mille polemiche - Giorgio Gori? Parla del triage? «Ma certo. Ovvio che ci sia stato. Non c'erano respiratori per tutti. E in quel momento in respiratore era la vita. Sono un medico, tutto questo mi era chiaro». E lei come si è salvato? «Mi sono fatto una autodiagnosi mentre traversavo la Lombardia in macchina. Quando ho valutato i sintomi e ho visto che la febbre non calava sono corso da Galli a fare il tampone». E poi? «Mi sono messo in mano a Zangrillo e mi sono ricoverato al San Raffaele. Vedi, i polmoni sono come degli alberi: questo terribile male non colpisce le foglie, ma il fusto e i rami. È difficile arrivare ai rami di quell'albero, anche con la farmacologia che abbiamo oggi. Hai bisogno di tempo. Le terapie intensive regalano tempo a dei sicuri candidati alla morte. Semplice e terribile». E per questo lei si è messo nelle mani del re degli intensivisti. «Di Alberto Zangrillo. E di Moreno Tresoldi, l'infettivologo del San Raffaele, lui è la sua équipe sono la squadra vincente. Quanto a Zangrillo, ha il massimo del rigore, una severità e una lucidità diagnostica sorprendente. Ma poi è il tipo di medico che capisce di cosa hai bisogno e ti porta i toast in corsia alle due di notte». Dice per dire?«No, no! Lo ha fatto davvero. Gli ho scritto, nel cuore della notte: “Ho fame, ho fame". E lui si è presentato subito, con i due toast». Magari solo con lei. «No, con tutti i suoi malati. Voi non avete idea di chi è Zangrillo». Però era anche il principale critico dell'idea dell'ospedale della fiera.«Questo non ha nulla a che fare con le competenze mediche, è una sua opinione che rispetto». Diceva Zangrillo che una vera terapia intensiva funziona solo se ha alle spalle il sistema ospedale. «Parliamoci chiaro. A Roma si dice: “Se mio nonno avesse le ruote sarebbe una carriola". Sarebbe meglio avere cento policlinici, ma questa guerra è arrivata senza preavviso e - in mancanza del resto - ogni letto salva una vita». Quindi lei dice che l'ospedale della Fiera servirà? «So che il governo ha un piano per avere un ospedale di quel tipo in ogni regione. E io lo condivido in tutti e per tutti. Anzi: si sbrighino a finirlo. Fino ad oggi gli unici ospedali anti Covid già pronti sono i due che ho costruito a Milano e nelle Marche. Serviranno». Sente aria di seconda ondata? «Guardi, io non ho la sfera di cristallo. Ma so che delle nostre 35.000 vittime almeno 15.000 sono morte perché non hanno trovato un letto, e se lo hanno trovato questo è accaduto troppo tardi». Cos'altro l'ha salvata? «I farmaci. Il Remdesivir, per esempio. E poi la clorochina».Il farmaco più controverso, soprattutto dopo le esternazioni di Donald Trump. «Lasci perdere Trump, che capisce di medicina quanto io di quantistica. Il punto è che questo farmaco ha tre doti straordinarie: è un potente inibitore, è un antipiretico portentoso e disinfetta». Nel suo caso cos'è accaduto? «L'ho preso nei giorni più difficili, quelli cruciali. Passavo il tempo, nel mio letto a scrutare l'ossimetro sul dito, il misuratore della percentuale di ossigeno nel sangue. Clorochina-ossimetro... Clorochina-ossimetro.... Clorochina-ossimetro... quando ho visto che sono andato stabilmente sopra 90 ho fatto tié!». Questo raffinato gesto dell'ombrello? «Ah, ah ah... certo. E adesso, facciamo gli scongiuri, sto meglio di prima». Ma come spiega tutte le polemiche contro la clorochina? «Questo farmaco ha un problema enorme». Effetti collaterali? «Macché. Costa troppo poco. Anzi, non costa nulla». E dice che questo è il principale ostacolo? «Caro Telese, ma lei crede alle fate? Pensa che questo virus non sia anche una guerra brutta sporca e cattiva, una battaglia di commesse, dispositivi, fatturati, affari?».Ne sono convinto. «Ha idea di quanto sarà salato il conto quando arriverà il momento di pagarlo? Le dico solo una ultima cosa, sa da dove viene il termine malaria? È latino: è la combinazione di un aggettivo e di un sostantivo: “mala" e “aria". Per gli antichi romani voleva dire epidemia. E la malaria, come abbiamo visto si curava con la china». La «mala aria» era l'epidemia. «E sulle epidemie sono nate e morte le civiltà, si sono fatti e disfatti i destini del mondo, nella storia, ma anche nell'età moderna. Anche ora per noi». Perché me lo dice? (Sospiro) «Non sottovaluti mai il peso che nella storia possono avere un termometro e un farmaco. Soprattutto se usati nel modo giusto e nel tempo giusto».