2022-04-05
Se gli Usa non ricercano la pace è per il solito spirito da crociata
Washington non sembra apprezzare gli sforzi in direzione di una cessazione delle ostilità in Ucraina. E non è solo per motivi economici: contro Vladimir Putin ci sono ragioni ideologiche ben precise.Se c’è una cosa certa, con riguardo all’attuale situazione di guerra tra Russia e Ucraina, è che gli Usa non solo non mostrano alcun interesse a che essa abbia fine con un accordo tra i due contendenti, ma danno chiaramente a intendere di essere a ciò del tutto contrari. Non una sola parola, infatti, è venuta dall’attuale presidente degli Usa o da altri suoi collaboratori a sostegno dei ripetuti tentativi di mediazione posti in essere dalla Turchia e da Israele, nonostante che entrambi questi Paesi siano legati da antichi rapporti di amicizia con l’America e, il primo, sia addirittura membro della Nato. Per converso, si è assistito ad una vera e propria escalation di ingiuriose invettive da parte del presidente Biden nei confronti di Putin, accompagnate da sempre più larghe promesse di forniture militari a sostegno dell’Ucraina; promesse che devono aver avuto, almeno in parte, attuazione, avendo le forze armate ucraine imprevedibilmente mostrato una sempre maggiore capacità di resistenza a quelle avversarie. Significativo, del resto (e alquanto preoccupante) appare il fatto che il presidente ucraino Zelensky abbia ultimamente proclamato la sua volontà di non accettare altra soluzione del conflitto che non sia quella di una sua completa «vittoria», escludendo ogni possibilità di compromesso sulla «integrità territoriale» dell’Ucraina, laddove, in precedenza, aveva più volte manifestato disponibilità a discutere con la controparte circa la destinazione della Crimea e della regione del Donbass, entrambe abitate da popolazioni russofone. È opinione diffusa che l’atteggiamento degli Usa sia dovuto essenzialmente a motivi di carattere geopolitico ed economico, legati, questi ultimi, specialmente all’industria delle armi e a quella dell’estrazione del gas con il sistema del cosiddetto fracking; gas che, in caso di necessità, verrebbe «generosamente» fornito all’Europa in sostituzione di quello russo, ma a prezzo, ovviamente, maggiorato. Si tratta di un’opinione che appare, in effetti, più che plausibile, ma la spiegazione da essa fornita non appare, tuttavia, esaustiva. L’atteggiamento in questione, infatti, prima ancora che a interessi meramente utilitaristici, per loro natura variabili e contingenti, è riconducibile ad una caratteristica permanente dello spirito americano, risalente alle sue stesse origini e consistente nel radicato convincimento che l’America rappresenti, per definizione, l’incarnazione del bene, per cui qualunque nemico esterno è, automaticamente, un’incarnazione del male. E, nella lotta tra il bene ed il male, è ammissibile che, per avversa fortuna, il primo resti talvolta soccombente, ma non è ammissibile che venga comunque a patti con il male, dal momento che lo scopo della lotta dev’essere quello della sua totale e definitiva sconfitta, accompagnata, per l’eternità, dal marchio dell’infamia; così come è avvenuto, in effetti, all’esito della prima e della seconda guerra mondiale e anche, in epoca successiva, all’esito delle guerre condotte con varie motivazioni, sempre di apparente natura morale, contro la Serbia di Milosevic, l’Iraq di Saddam Hussein e la Libia di Gheddafi. Di qui l’assoluta incomprensibilità, dal punto di vista americano, della diversa visione della guerra maturatasi nella tradizione europea, per lo meno da quando sono cessate le guerre di religione; visione sintetizzabile nella notissima affermazione di Von Clausevitz, secondo cui: «la guerra non è che la prosecuzione della politica con altri mezzi». E se la politica, secondo un’altra notissima espressione (attribuita, stavolta, al cancelliere Bismarck) è «l’arte del possibile», deve ritenersi normale, in tale visione, che anche in guerra, come in politica, si operi sulla base di valutazioni di pura convenienza, secondo il variare delle circostanze e tenendo sempre presente che il nemico di oggi può essere l’alleato di domani, e viceversa. Ora, che Putin rappresenti, agli occhi di Biden e di tutto l’establishment del partito democratico che lo sostiene, un nemico dell’America, è cosa che appare di assoluta evidenza. Quel che forse non è, però, altrettanto evidente è che l’attribuzione di tale ruolo, seppure enormemente facilitata dall’aver egli intrapreso l’attacco militare contro l’Ucraina, considerata un’alleata de facto degli Usa e membro, in pectore, della Nato, ha origini più antiche, che prescindono anche dalle sue scelte politiche di fondo in materia di rapporti internazionali e dal suo apparire come soggetto non particolarmente rispettoso dei diritti degli oppositori interni. E queste origini sono da ricercare nella sua dichiarata e praticata avversione a tutto il complesso di quelli che, per il mondo liberal americano, costituiscono ormai valori di fondamentale importanza ai quali non può non prestarsi pubblica e deferente adesione: l’omosessualismo, il transessualismo, il genderismo, il diritto indiscriminato all’aborto, il femminismo radicale e rabbioso, l’ecologismo catastrofista, l’antirazzismo autofustigatorio, e così via. Potrebbe tuttavia obiettarsi, a questo punto, che tali presunti valori sono ben lungi dall’essere riconosciuti anche in Paesi che l’America continua, ciononostante, a considerare suoi amici, quali, ad esempio, la Turchia e l’Arabia saudita. L’apparente contraddizione trova, però, una facile spiegazione considerando che l’amicizia con tali Paesi ha la sua ragion d’essere in profonde ragioni di ordine geopolitico, storico ed economico da ritenersi, nell’ottica americana, di prioritaria importanza rispetto ad ogni altro genere di valutazioni; ragioni che invece, nel caso della Russia, non appaiono sussistenti, mentre appare sussistente, per converso, il pericolo che la Russia, data la sua importanza, costituisca, finché dura il potere di Putin, l’ultimo, consistente ostacolo frapposto all’affermarsi, su scala planetaria, della dittatura del politicamente corretto, potentemente (e non disinteressatamente) sostenuta dalla finanza internazionale avente le sue basi principali proprio negli Usa. Putin, quindi, deve sparire dalla scena politica così come sono scomparsi (anche fisicamente) gli altri nemici dell’America di cui si è fatto cenno in precedenza. In questo caso, però, non potendosi certo pensare di ottenere lo scopo usando direttamente la forza contro la Russia, poiché ciò darebbe luogo alla terza guerra mondiale, si spera, con ogni evidenza, che il risultato possa essere raggiunto facendo sì che il conflitto Russia-Ucraina duri fino al punto in cui, mancando un accordo che Putin possa in qualche modo far apparire come un sia pur parziale successo, ne derivi per lui, a seguito di rivolgimenti interni, la perdita del potere. Se così dovesse avvenire varrebbe per l’«operazione speciale» contro l’Ucraina voluta dal presidente russo quel che fu detto dal ministro Fouchet a Napoleone quando questi fece rapire e fucilare senza processo il duca D’Enghien: «Sire, è peggio che un delitto; è un errore».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)