
Dopo Torino e Roma, anche il Comune del capoluogo lombardo decide di registrare i figli di «due madri e due padri» forzando la legge italiana in nome dei diritti. Nessuno protesta, poi però si indignano per un cartellone.Stamattina, prima di uscire di casa, controllate di avere bene appuntata sul petto la spilletta arcobaleno. Dovete assolutamente esibirla se non volete rimediare la figura dei retrogradi razzisti. Perché oggi si celebra la «giornata mondiale contro l'omofobia» e ogni Comune italiano che si rispetti (cioè che sia di orientamento progressista) ha messo in campo numerose iniziative ricchi premi e cotillons. Per l'occasione, il commissario europeo ai diritti umani del Consiglio europeo, Dunja Mijatović, ha inviato una letterina a tutti i Paesi membri dell'istituzione in cui spiega che «le autorità statali hanno il dovere di garantire che le persone gay, lesbiche, bisessuali, transgender e intersessuali (Lgbti) siano trattate allo stesso livello di tutte le altre persone. Nessuno di noi può vivere e godere di diritti e libertà se questi diritti non sono concessi a tutti».La signora aggiunge poi che gli Stati europei «dovrebbero investire maggiori sforzi nella lotta all'omofobia e alla transfobia nelle loro società», poiché «tutti gli esseri umani nascono con uguali diritti e pari dignità. Le persone Lgbti non rivendicano diritti nuovi o aggiuntivi. Hanno il diritto di godere delle stesse libertà e protezione di chiunque altro».In realtà, non è esattamente così. Di sicuro tutti gli esseri umani hanno diritto a non essere maltrattati o discriminati in virtù di ciò che fanno sotto le lenzuola o del loro orientamento sessuale. Ma non è proprio vero che la comunità Lgbti (ammesso e non concesso che rappresenti tutti gli omosessuali) rivendichi soltanto gli stessi diritti di cui godono tutti gli altri. Prendiamo il caso italiano. Da giorni si discute della decisione del sindaco di Torino, Chiara Appendino, di registrare all'anagrafe i bambini di alcune coppie omosessuali come «figli di due madri» o «di due padri». Decine di Comuni della Penisola - da Roma a Catania - hanno deciso di seguire l'esempio dell'Appendino. Giusto ieri, il Fatto quotidiano ha pubblicato una letterina firmata da Pierfrancesco Majorino, assessore alle Politiche sociali di Milano e dalla sua collega Roberta Cocco, assessore alla Trasformazione digitale. I due rispondono a un appello di Selvaggia Lucarelli a favore di Corinna Marrone Lisignoli, che vuole registrare all'anagrafe il piccolo Manfredi come figlio suo e della sua compagna Francesca. Majorino e la Cocco confermano «la volontà della Giunta comunale di procedere all'iscrizione anagrafica di Manfredi, riconoscendo quindi la genitorialità di entrambe le mamme». Non solo: aggiungono che «l'orientamento dell'amministrazione è quindi quello di tutelare i genitori e i loro bambini, adottando questa procedura per tutte le mamme come Corinna e Francesca». Non è la prima volta che il Comune di Milano registra il figlio di una coppia gay, ma la ditta Majorino&Cocco vuol segnare un cambio di passo. Il sindaco di Milano, Beppe Sala, approva festante: «Abbiamo deciso che quando ci saranno richieste di questo tipo, noi ci saremo. È una decisione su cui tutta la giunta è d'accordo». Ora, diteci: il diritto di avere due madri o due padri è o non è una pretesa nuova e diversa? Qui non si tratta di impedire una discriminazione ma di sovvertire l'ordine del mondo tramite certificato. Si presume che Majorino sappia come nascono i bambini, ma per fugare ogni dubbio glielo rispieghiamo, evitando riferimenti ai fiori e alle api. I piccini non si trovano sotto i cavoli né vengono portati dalla cicogna. Sono concepiti tramite rapporto sessuale o comunque scambio di fluidi tra un maschio e una femmina. Senza la femmina, niente bambino. Senza il maschio idem. Dunque non esistono bambini con due mamme o due papà. Al massimo, esistono bambini con un padre ignoto (un donatore di sperma) o una madre noleggiata per l'occasione (il cosiddetto utero in affitto, proibito dalla legge italiana). Fare finta che queste persone non esistano significa non riconoscerli come esseri umani e violare i loro diritti. Eppure, il Comune di Torino, quello di Milano e molti altri proseguono imperterriti, fregandosene dei cittadini italiani, delle leggi e del Parlamento. Si nascondono dietro «l'omofobia», dietro le pretese mascherate da diritti. Però sostenere che i figli nascono da un padre e da una madre non è «omofobia». Al massimo, siamo nel campo della biologia, ma agli attivisti Lgbti probabilmente non interessa. Ci sono poi alcuni fatti curiosi. A Roma si può dire che un bimbo ha due madri o due padri, anche se si tratta di una gigantesca bugia. Però non si può affiggere un manifesto - per altro piuttosto efficace - contro l'aborto. I cittadini possono offendersi se l'associazione Citizengo scrive che l'aborto è la prima causa di femminicidio. Ma non possono offendersi se il loro sindaco sceglie di approvare l'utero in affitto forzando una legge dello Stato. Monica Cirinnà, senatrice del Pd, ieri chiedeva che venisse istituita una legge contro l'omofobia per «impedire le discriminazioni». La signora in questione è la stessa «paladina dei diritti» secondo cui gli attivisti pro life devono stare «nelle fogne». Niente male, come doppia morale. Libertà di espressione per tutti, a patto che siano d'accordo con lei... Dunque celebriamo pure la giornata mondiale contro l'omofobia, ma ben coscienti che, almeno in Italia, si tratta di una pagliacciata. Ovunque, dalle nostre parti, si tengono manifestazioni di orgoglio omosessuale. I transessuali, che pure sono una minoranza della popolazione, hanno una visibilità incredibile, potendo contare su una marea di programmi televisivi dedicati (tra cui quello condotto da Sabrina Ferilli su Raitre, Storie del genere). Qui non siamo in Cecenia o in Pakistan, non ci sono pogrom né persecuzioni. Al contrario, le associazioni Lgbti pretendono di tappare la bocca a chiunque non approvi la loro visione del mondo. Comprese le rappresentanti di Arcilesbica, cacciate dalla sede storica del Cassero a Bologna perché contrarie alla gestazione per altri.Forza, scendete tutti in strada contro l'omofobia. E se per caso, lungo la via, vedete un manifesto antiabortista, stracciatelo. In nome dei diritti umani e del rispetto del prossimo, ovviamente.
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore.
Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner.
Tampone Covid (iStock)
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».
Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo.
La Marina colombiana ha cominciato il recupero del contenuto della stiva del galeone spagnolo «San José», affondato dagli inglesi nel 1708. Il tesoro sul fondo del mare è stimato in svariati miliardi di dollari, che il governo di Bogotà rivendica. Il video delle operazioni subacquee e la storia della nave.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Manifestazione ex Ilva (Ansa)
Ok del cdm al decreto che autorizza la società siderurgica a usare i fondi del prestito: 108 milioni per la continuità degli impianti. Altri 20 a sostegno dei 1.550 che evitano la Cig. Lavoratori in protesta: blocchi e occupazioni. Il 28 novembre Adolfo Urso vede i sindacati.
Proteste, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, blocchi stradali, annunci di scioperi. La questione ex Ilva surriscalda il primo freddo invernale. Da Genova a Taranto i sindacati dei metalmeccanici hanno organizzato sit-in per chiedere che il governo faccia qualcosa per evitare la chiusura della società. E il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al nuovo decreto sull’acciaieria più martoriata d’Italia, che autorizza l’utilizzo dei 108 milioni di euro residui dall’ultimo prestito ponte e stanzia 20 milioni per il 2025 e il 2026.






