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2022-01-01
Gli sfregi della guerra ancora visibili sui volti delle nostre città
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L'ingresso del rifugio di piazza Pretoria a Palermo durante la guerra. Nel riquadro l'interno del rifugio oggi (courtesy Wil Rothier)
Molte scritte di guerra, fino agli anni Settanta ancora ben leggibili sui muri dei palazzi delle città italiane, non sono sopravvissute alla piaga del vandalismo o alle ristrutturazioni delle facciate. Tuttavia nei grandi centri urbani l'opera di conservazione spinta da comitati e associazioni ha dato i suoi frutti e oltre alle scritte anche molti rifugi, riscoperti dopo decenni, sono stati recuperati e oggi sono visitabili. Permettendo così di poter rivivere quei momenti drammatici anche attraverso gli oggetti e le iscrizioni sfuggite alla furia del tempo.
Palermo
Palermo fu una delle città maggiormente colpite dai raid anglo-americani tra il 1942 e l’invasione dell’isola nel luglio del 1943. In seguito sarà bombardata anche dalla Luftwaffe. Il bilancio totale superò i 2.000 morti e i 30mila feriti. La popolazione cercò rifugio dove poteva, anche nelle cavità di roccia delle alture che circondano la città. Molte furono le vittime dei crolli degli scantinati, ma anche quelle che si trovavano nei grandi ricoveri pubblici. Tra questi fu teatro di una orribile strage il ricovero pubblico di Piazza Sett’Angeli, nel centro storico. Durante il bombardamento del 18 aprile 1943 un ordigno si infilò nella cavità di aerazione ed esplose, causando un numero mai precisato di vittime. Quel che rimaneva del ricovero fu coperto da una gettata di cemento ed oggi solo un cippo commemorativo ricorda l’ubicazione del rifugio. Diverso il discorso dell’altro grande ricovero pubblico del capoluogo siciliano, quello costruito nell’ipogeo di Piazza Pretoria, con tre accessi e la possibilità di ospitare 200 persone. Uno di questi ingressi si trovava presso i leoni di granito del palazzo delle Aquile. Riaperto al pubblico nel 2016 in occasione dell'anniversario del grande bombardamento su Palermo del 9 maggio 1943, oggi il rifugio si trova in buono stato di conservazione e nei pressi del rifugio è presente ancora una freccia di segnalazione in colore azzurro dipinta su un muro. La cooperativa Terradamare organizza visite guidate su prenotazione nel ricovero, caratterizzato dalle lunghe panche in pietra che ospitavano la cittadinanza durante le frequenti incursioni aeree. Una descrizione approfondita sui rifugi e sulla storia dei bombardamenti a Palermo è contenuta nel libro di Samule Romeo e Wilfried Rothier «Bombardamenti su Palermo. Un racconto per immagini» (Istituto Poligrafico Europeo).
Nel centro di Palermo è conservato anche un altro ricovero antiaereo, quello nel sottosuolo della Biblioteca Regionale Siciliana A.Bombace, caratterizzato dalla presenza di scritte particolari, in quanto il rifugio era condiviso con un liceo, il Vittorio Emanuele, e le indicazioni erano rivolte all'afflusso degli studenti divisi per classe. Ulteriore rarità della città di Palermo, per quanto riguarda i segni di guerra, è la conservazione di un’indicazione di rifugio di tipo luminoso. Si tratta di una sorta di piccolo lampione con la lettera “R” su tutti i lati, capace di una luce fioca a causa delle limitazioni imposte all'epoca che non permettevano una potenza superiore ai 5 watt. Si trova sul muro di un edificio di Piazza Leoni.
Napoli
La capitale partenopea ospita uno dei rifugi antiaerei più interessanti d’Italia. La particolarità della struttura è connessa alle caratteristiche geomorfologiche del sottosuolo napoletano dominato dalla presenza prevalente della roccia di tufo. Già nel medioevo, gli ipogei di Napoli erano stati utilizzati per mezzo della costruzione di lunghi tunnel e vasche di raccolta idrica, ancora oggi esistenti. Il rifugio antiaereo più importante della città (oggi visitabile su richiesta) si trova sotto il suolo degli storici Quartieri Spagnoli e precisamente in salita Sant’Anna di Palazzo nei pressi di via Chiaia. Fu riscoperto soltanto nel 1979 quando i Vigili del fuoco dovettero intervenire per un incendio scoppiato sul lato di via Chiaia dovuto alla combustione di rifiuti gettati abusivamente nei pozzi sotterranei. Ai loro occhi si aprì uno spettacolo unico, fermo nel tempo. Una scalinata a spirale dalla pianta quadrata portava nel “ventre” di Napoli, fino alla congiunzione con la fittissima rete di tunnel portata a termine alla metà dell’Ottocento da Ferdinando I di Borbone. Nel rifugio, oggi visitabile, trovarono riparo decine di migliaia di napoletani durante le oltre 200 devastanti incursioni che ferirono la città, importantissimo nodo portuale e militare. Nel rifugio di salita Sant’Anna sono ben visibili ancora le incisioni lasciate da uomini e donne che vi passarono lunghe ore, tra cui le caricature di Hitler, Mussolini e Hirohito e graffiti che ricordano la celebrazione di un matrimonio avvenuta sotto il fragore delle bombe.
Roma
la Città Eterna non fu risparmiata dai bombardamenti prima dell’ingresso degli Alleati nel giugno 1944. Nella storia rimarrà particolarmente impressa l’incursione del 19 luglio 1943 che colpì in modo particolare il quartiere San Lorenzo e dintorni, senza risparmiare il cimitero del Verano. Iconica rimase l’istantanea che ritraeva il pontefice Pio XII con le braccia spalancate di fronte alla popolazione atterrita. La capitale d’Italia conservava molti segni della guerra, sia in superficie che nel sottosuolo. Uno dei rifugi più famosi è certamente quello dell’Eur. Costruito per i responsabili di quell’esposizione universale del 1940 che non si tenne mai, fu scavato a circa 33 metri di profondità per la capienza di circa 300 persone, che grazie alle derrate presenti nel rifugio avrebbero potuto resistere nel sottosuolo per ben quattro mesi. I, bunker-rifugio di 475mq di superficie è visitabile periodicamente. Per le vie di Roma sono ancora osservabili alcune scritte di guerra, oggi sempre più minacciate dalla cancellazione dovuta alle ristrutturazioni delle facciate dei palazzi storici che le hanno ospitate per decenni. Fortunatamente alcune di esse, come il simbolo del super idrante da 6.000 litri il cui simbolo con doppio cerchio attorno alla lettera “I” è stato salvato e restaurato in extremis sulla facciata di un palazzo di Corso Vittorio Emanuele II. Alcune scritte interessanti si trovano ancora sulle facciate delle case d’epoca in quartieri come la Garbatella.
Genova
La Superba conserva un ricordo tragico legato ai rifugi antiaerei. Come nel caso di Napoli, la difesa antiaerea della città portuale fu organizzata sfruttando la capillare rete di gallerie preesistente. All’interno di una di queste, la Galleria delle Grazie, si consumò uno dei più terribili massacri civili dovuto alle incursioni belliche. Era la notte del 23 ottobre 1942 quando suonò il grande allarme sulla città, mentre numerosi Lancaster della Raf puntavano su Genova, come avevano fatto la sera precedente. La galleria, dall’ingresso superiore di Porta Soprana, era raggiungibile tramite una scalinata ripida che fu presa d’assalto dai cittadini che cercavano scampo nelle viscere dei rilievi genovesi. La caduta accidentale di alcuni generò una calca mortale che fece più morti delle bombe piovute dal cielo. Sulla rampa d’ingresso e fin dentro la galleria rimanevano i corpi esanimi di un numero imprecisato di vittime, variabili secondo le stime tra i 350 e i 500 morti. La galleria fu murata nel dopoguerra, ricordata da una lapide a Porta Soprana ancora oggi presente. Parte della Galleria delle Grazie è stata riaperta con gli scavi della Metropolitana di Genova, la cui linea corre per un tratto lungo quel tunnel. Nella città della Lanterna, dal 2008 si cerca di salvaguardare le scritte murali del centro storico, che riguardano soprattutto indicazioni dipinte a stencil dagli Americani al fine di tenere lontane le truppe dai vicoli più malfamati del centro, dove spesso si erano verificati episodi di furto e violenze. Altri segni attualmente presenti che riportano all’ultima guerra sono i bunker delle batterie costiere a difesa del porto di Genova, la più famosa quella del Monte Moro sopra l’abitato di Quinto al Mare. Ancora raggiungibili, le batterie si trovano a due differenti livelli (basse e alte). Le prime furono utilizzate dalla 200a batteria costiera con pezzi da 152/40 mentre i bunker alti ospitarono i pezzi da 90/50 antiaerei e una grande piazzola che avrebbe dovuto ospitare un gigantesco pezzo da 381/40 di origine navale.
Milano
Le incursioni a tappeto sulla città cominciarono il 24 ottobre 1942 per terminare alla fine del conflitto, con punte devastanti nell’agosto del 1943 che determinarono il danneggiamento di importanti edifici e monumenti, tra cui Santa Maria delle Grazie (il Cenacolo si salvò per poco) il Teatro alla Scala, Palazzo Marino, la Galleria Vittorio Emanuele II. Molti erano i ricoveri pubblici, tra cui uno molto capiente costruito sotto la pavimentazione di Piazza del Duomo, la cui area è oggi occupata dalla stazione della Metropolitana Linea 1 che ne conserva in parte la struttura, visibile da alcune colonne basse che fungevano da sostegno alla soletta antibomba in cemento armato. L’opera, che doveva essere il più grande rifugio della città, non fu mai terminata.
A Milano e nella periferia cittadina si possono vedere ancora oggi alcuni manufatti a protezione dei dipendenti delle grandi fabbriche o delle strutture militari. Un esempio sono i rifugi conici di superficie presenti a Lambrate ed oggi ben conservati all’interno di una caserma ad oggi operativa, che durante la guerra servirono alla protezione delle Officine Meccaniche Piaggio a ridosso della grande fabbrica Innocenti. Di simile costruzione la torre del Quartiere Adriano, a Nordest della città. Questa, durante la guerra in uso alla Magneti Marelli, oltre ad essere perfettamente conservata e visibile. è stata restaurata dalla catena di supermercati che ne ha acquistato l’area pochi anni fa. Particolare, per la tipologia costruttiva a "matita", è la cosiddetta "torre delle sirene", rifugio fuori terra ancora oggi presente nel cortile di palazzo Isimbardi, sede della Prefettura cittadina nella centralissima corso Monforte. La torre fortificata era sede dei sistemi di allarme aereo ed ospitava la centrale operativa che mandava i segnali di allarme e cessato allarme agli avvisatori acustici della città. Dal cortile della Prefettura uscì per l'ultima volta Benito Mussolini in occasione della tentata fuga in Svizzera finita con l'arresto a Dongo e la fucilazione a Giulino di Mezzegra. Opere in cemento si possono trovare anche presso l’aeroporto cittadino di Bresso, che durante la guerra ospitava un importante reparto di caccia e all’interno di un complesso sportivo di via Mecenate, che sorge dove un tempo le batterie contraeree difendevano l’azienda di costruzioni aeronautiche Caproni. Diversi sono i ricoveri pubblici recuperati e visitabili. Come il rifugio n.53, costruito già nel 1936 nel sottosuolo di Piazza Grandi o come quello di Viale Bodio, noto come n.87, costruito nei sotterranei di una scuola e recuperato recentemente. Inghiottito dalla furia delle bombe fu invece quello di Piazza Tricolore, centrato in pieno durante il bombardamento inglese (diurno) del 24 ottobre 1942. Una bomba si infilò in un condotto di aerazione causando il crollo della struttura e lo schiacciamento o soffocamento di decine di persone. A Milano resistono, seppure a fatica minacciate dai writers, dal tempo e dalle mani di vernice anche molti segni murali che indicavano uscite di sicurezza, idranti e altre strutture di soccorso. Tra gli esempi più interessanti quelli presenti sui muri dei vecchi padiglioni dell’ospedale Policlinico, dove si possono notare quadrati rossi inclusi in un cerchio bianco ad indicare la struttura ospedaliera e una scritta “roggia” in corrispondenza di una presa d’acqua per le pompe dei Vigili del fuoco. Anche nel caso di Milano, passeggiando per le vie, è ancora possibile imbattersi nelle frecce dipinte in bianco e nero ad indicare rifugi e uscite di soccorso degli scantinati adibiti a ricovero privato. Ben conservate le scritte in via Valtellina (zona Isola-Farini), Piazzale di Porta Lodovica (a poca distanza dal crollo di alcuni palazzi nell'incursione dell'ottobre 1942), via San Michele del Carso, via Maddalene e molte altre ancora, alcune di esse conservate e in alcuni casi restaurate dai condomini.
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Sempre meno visibili a causa di vandalismi o ristrutturazioni, le grandi città italiane conservano ancora le scritte e i rifugi dell'ultima guerra. Un excursus da Sud A Nord nelle grandi città, allora martoriate dalle bombe. Ecco cosa rimane...Molte scritte di guerra, fino agli anni Settanta ancora ben leggibili sui muri dei palazzi delle città italiane, non sono sopravvissute alla piaga del vandalismo o alle ristrutturazioni delle facciate. Tuttavia nei grandi centri urbani l'opera di conservazione spinta da comitati e associazioni ha dato i suoi frutti e oltre alle scritte anche molti rifugi, riscoperti dopo decenni, sono stati recuperati e oggi sono visitabili. Permettendo così di poter rivivere quei momenti drammatici anche attraverso gli oggetti e le iscrizioni sfuggite alla furia del tempo.PalermoPalermo fu una delle città maggiormente colpite dai raid anglo-americani tra il 1942 e l’invasione dell’isola nel luglio del 1943. In seguito sarà bombardata anche dalla Luftwaffe. Il bilancio totale superò i 2.000 morti e i 30mila feriti. La popolazione cercò rifugio dove poteva, anche nelle cavità di roccia delle alture che circondano la città. Molte furono le vittime dei crolli degli scantinati, ma anche quelle che si trovavano nei grandi ricoveri pubblici. Tra questi fu teatro di una orribile strage il ricovero pubblico di Piazza Sett’Angeli, nel centro storico. Durante il bombardamento del 18 aprile 1943 un ordigno si infilò nella cavità di aerazione ed esplose, causando un numero mai precisato di vittime. Quel che rimaneva del ricovero fu coperto da una gettata di cemento ed oggi solo un cippo commemorativo ricorda l’ubicazione del rifugio. Diverso il discorso dell’altro grande ricovero pubblico del capoluogo siciliano, quello costruito nell’ipogeo di Piazza Pretoria, con tre accessi e la possibilità di ospitare 200 persone. Uno di questi ingressi si trovava presso i leoni di granito del palazzo delle Aquile. Riaperto al pubblico nel 2016 in occasione dell'anniversario del grande bombardamento su Palermo del 9 maggio 1943, oggi il rifugio si trova in buono stato di conservazione e nei pressi del rifugio è presente ancora una freccia di segnalazione in colore azzurro dipinta su un muro. La cooperativa Terradamare organizza visite guidate su prenotazione nel ricovero, caratterizzato dalle lunghe panche in pietra che ospitavano la cittadinanza durante le frequenti incursioni aeree. Una descrizione approfondita sui rifugi e sulla storia dei bombardamenti a Palermo è contenuta nel libro di Samule Romeo e Wilfried Rothier «Bombardamenti su Palermo. Un racconto per immagini» (Istituto Poligrafico Europeo).Nel centro di Palermo è conservato anche un altro ricovero antiaereo, quello nel sottosuolo della Biblioteca Regionale Siciliana A.Bombace, caratterizzato dalla presenza di scritte particolari, in quanto il rifugio era condiviso con un liceo, il Vittorio Emanuele, e le indicazioni erano rivolte all'afflusso degli studenti divisi per classe. Ulteriore rarità della città di Palermo, per quanto riguarda i segni di guerra, è la conservazione di un’indicazione di rifugio di tipo luminoso. Si tratta di una sorta di piccolo lampione con la lettera “R” su tutti i lati, capace di una luce fioca a causa delle limitazioni imposte all'epoca che non permettevano una potenza superiore ai 5 watt. Si trova sul muro di un edificio di Piazza Leoni. NapoliLa capitale partenopea ospita uno dei rifugi antiaerei più interessanti d’Italia. La particolarità della struttura è connessa alle caratteristiche geomorfologiche del sottosuolo napoletano dominato dalla presenza prevalente della roccia di tufo. Già nel medioevo, gli ipogei di Napoli erano stati utilizzati per mezzo della costruzione di lunghi tunnel e vasche di raccolta idrica, ancora oggi esistenti. Il rifugio antiaereo più importante della città (oggi visitabile su richiesta) si trova sotto il suolo degli storici Quartieri Spagnoli e precisamente in salita Sant’Anna di Palazzo nei pressi di via Chiaia. Fu riscoperto soltanto nel 1979 quando i Vigili del fuoco dovettero intervenire per un incendio scoppiato sul lato di via Chiaia dovuto alla combustione di rifiuti gettati abusivamente nei pozzi sotterranei. Ai loro occhi si aprì uno spettacolo unico, fermo nel tempo. Una scalinata a spirale dalla pianta quadrata portava nel “ventre” di Napoli, fino alla congiunzione con la fittissima rete di tunnel portata a termine alla metà dell’Ottocento da Ferdinando I di Borbone. Nel rifugio, oggi visitabile, trovarono riparo decine di migliaia di napoletani durante le oltre 200 devastanti incursioni che ferirono la città, importantissimo nodo portuale e militare. Nel rifugio di salita Sant’Anna sono ben visibili ancora le incisioni lasciate da uomini e donne che vi passarono lunghe ore, tra cui le caricature di Hitler, Mussolini e Hirohito e graffiti che ricordano la celebrazione di un matrimonio avvenuta sotto il fragore delle bombe.Romala Città Eterna non fu risparmiata dai bombardamenti prima dell’ingresso degli Alleati nel giugno 1944. Nella storia rimarrà particolarmente impressa l’incursione del 19 luglio 1943 che colpì in modo particolare il quartiere San Lorenzo e dintorni, senza risparmiare il cimitero del Verano. Iconica rimase l’istantanea che ritraeva il pontefice Pio XII con le braccia spalancate di fronte alla popolazione atterrita. La capitale d’Italia conservava molti segni della guerra, sia in superficie che nel sottosuolo. Uno dei rifugi più famosi è certamente quello dell’Eur. Costruito per i responsabili di quell’esposizione universale del 1940 che non si tenne mai, fu scavato a circa 33 metri di profondità per la capienza di circa 300 persone, che grazie alle derrate presenti nel rifugio avrebbero potuto resistere nel sottosuolo per ben quattro mesi. I, bunker-rifugio di 475mq di superficie è visitabile periodicamente. Per le vie di Roma sono ancora osservabili alcune scritte di guerra, oggi sempre più minacciate dalla cancellazione dovuta alle ristrutturazioni delle facciate dei palazzi storici che le hanno ospitate per decenni. Fortunatamente alcune di esse, come il simbolo del super idrante da 6.000 litri il cui simbolo con doppio cerchio attorno alla lettera “I” è stato salvato e restaurato in extremis sulla facciata di un palazzo di Corso Vittorio Emanuele II. Alcune scritte interessanti si trovano ancora sulle facciate delle case d’epoca in quartieri come la Garbatella. GenovaLa Superba conserva un ricordo tragico legato ai rifugi antiaerei. Come nel caso di Napoli, la difesa antiaerea della città portuale fu organizzata sfruttando la capillare rete di gallerie preesistente. All’interno di una di queste, la Galleria delle Grazie, si consumò uno dei più terribili massacri civili dovuto alle incursioni belliche. Era la notte del 23 ottobre 1942 quando suonò il grande allarme sulla città, mentre numerosi Lancaster della Raf puntavano su Genova, come avevano fatto la sera precedente. La galleria, dall’ingresso superiore di Porta Soprana, era raggiungibile tramite una scalinata ripida che fu presa d’assalto dai cittadini che cercavano scampo nelle viscere dei rilievi genovesi. La caduta accidentale di alcuni generò una calca mortale che fece più morti delle bombe piovute dal cielo. Sulla rampa d’ingresso e fin dentro la galleria rimanevano i corpi esanimi di un numero imprecisato di vittime, variabili secondo le stime tra i 350 e i 500 morti. La galleria fu murata nel dopoguerra, ricordata da una lapide a Porta Soprana ancora oggi presente. Parte della Galleria delle Grazie è stata riaperta con gli scavi della Metropolitana di Genova, la cui linea corre per un tratto lungo quel tunnel. Nella città della Lanterna, dal 2008 si cerca di salvaguardare le scritte murali del centro storico, che riguardano soprattutto indicazioni dipinte a stencil dagli Americani al fine di tenere lontane le truppe dai vicoli più malfamati del centro, dove spesso si erano verificati episodi di furto e violenze. Altri segni attualmente presenti che riportano all’ultima guerra sono i bunker delle batterie costiere a difesa del porto di Genova, la più famosa quella del Monte Moro sopra l’abitato di Quinto al Mare. Ancora raggiungibili, le batterie si trovano a due differenti livelli (basse e alte). Le prime furono utilizzate dalla 200a batteria costiera con pezzi da 152/40 mentre i bunker alti ospitarono i pezzi da 90/50 antiaerei e una grande piazzola che avrebbe dovuto ospitare un gigantesco pezzo da 381/40 di origine navale.MilanoLe incursioni a tappeto sulla città cominciarono il 24 ottobre 1942 per terminare alla fine del conflitto, con punte devastanti nell’agosto del 1943 che determinarono il danneggiamento di importanti edifici e monumenti, tra cui Santa Maria delle Grazie (il Cenacolo si salvò per poco) il Teatro alla Scala, Palazzo Marino, la Galleria Vittorio Emanuele II. Molti erano i ricoveri pubblici, tra cui uno molto capiente costruito sotto la pavimentazione di Piazza del Duomo, la cui area è oggi occupata dalla stazione della Metropolitana Linea 1 che ne conserva in parte la struttura, visibile da alcune colonne basse che fungevano da sostegno alla soletta antibomba in cemento armato. L’opera, che doveva essere il più grande rifugio della città, non fu mai terminata. A Milano e nella periferia cittadina si possono vedere ancora oggi alcuni manufatti a protezione dei dipendenti delle grandi fabbriche o delle strutture militari. Un esempio sono i rifugi conici di superficie presenti a Lambrate ed oggi ben conservati all’interno di una caserma ad oggi operativa, che durante la guerra servirono alla protezione delle Officine Meccaniche Piaggio a ridosso della grande fabbrica Innocenti. Di simile costruzione la torre del Quartiere Adriano, a Nordest della città. Questa, durante la guerra in uso alla Magneti Marelli, oltre ad essere perfettamente conservata e visibile. è stata restaurata dalla catena di supermercati che ne ha acquistato l’area pochi anni fa. Particolare, per la tipologia costruttiva a "matita", è la cosiddetta "torre delle sirene", rifugio fuori terra ancora oggi presente nel cortile di palazzo Isimbardi, sede della Prefettura cittadina nella centralissima corso Monforte. La torre fortificata era sede dei sistemi di allarme aereo ed ospitava la centrale operativa che mandava i segnali di allarme e cessato allarme agli avvisatori acustici della città. Dal cortile della Prefettura uscì per l'ultima volta Benito Mussolini in occasione della tentata fuga in Svizzera finita con l'arresto a Dongo e la fucilazione a Giulino di Mezzegra. Opere in cemento si possono trovare anche presso l’aeroporto cittadino di Bresso, che durante la guerra ospitava un importante reparto di caccia e all’interno di un complesso sportivo di via Mecenate, che sorge dove un tempo le batterie contraeree difendevano l’azienda di costruzioni aeronautiche Caproni. Diversi sono i ricoveri pubblici recuperati e visitabili. Come il rifugio n.53, costruito già nel 1936 nel sottosuolo di Piazza Grandi o come quello di Viale Bodio, noto come n.87, costruito nei sotterranei di una scuola e recuperato recentemente. Inghiottito dalla furia delle bombe fu invece quello di Piazza Tricolore, centrato in pieno durante il bombardamento inglese (diurno) del 24 ottobre 1942. Una bomba si infilò in un condotto di aerazione causando il crollo della struttura e lo schiacciamento o soffocamento di decine di persone. A Milano resistono, seppure a fatica minacciate dai writers, dal tempo e dalle mani di vernice anche molti segni murali che indicavano uscite di sicurezza, idranti e altre strutture di soccorso. Tra gli esempi più interessanti quelli presenti sui muri dei vecchi padiglioni dell’ospedale Policlinico, dove si possono notare quadrati rossi inclusi in un cerchio bianco ad indicare la struttura ospedaliera e una scritta “roggia” in corrispondenza di una presa d’acqua per le pompe dei Vigili del fuoco. Anche nel caso di Milano, passeggiando per le vie, è ancora possibile imbattersi nelle frecce dipinte in bianco e nero ad indicare rifugi e uscite di soccorso degli scantinati adibiti a ricovero privato. Ben conservate le scritte in via Valtellina (zona Isola-Farini), Piazzale di Porta Lodovica (a poca distanza dal crollo di alcuni palazzi nell'incursione dell'ottobre 1942), via San Michele del Carso, via Maddalene e molte altre ancora, alcune di esse conservate e in alcuni casi restaurate dai condomini.
Ansa
Suo figlio, Naveed Akram, 24 anni, è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza della polizia. Le piste investigative principali restano due. Da un lato, la cosiddetta pista iraniana, ritenuta plausibile da ambienti israeliani; dall’altro, l’ipotesi di un coinvolgimento dello Stato islamico, avanzata da alcuni media, anche se l’organizzazione jihadista - che solitamente rivendica con rapidità le proprie azioni - non ha diffuso alcun messaggio di rivendicazione. Un elemento rilevante emerso dalle indagini è il ritrovamento, nell’auto di Naveed Akram, di una bandiera nera del califfato e di ordigni poi disinnescati dagli artificieri.
In attesa di chiarire chi vi sia realmente dietro la strage di Hanukkah, quanto accaduto domenica in Australia non appare come un evento isolato o imprevedibile. Al contrario, si inserisce in una lunga scia di attacchi e intimidazioni antisemite contro la comunità ebraica e le sue istituzioni. Più in generale, rappresenta l’esito di almeno vent’anni di progressiva penetrazione jihadista nel Paese. A dimostrarlo sono anche i numeri dei foreign fighter australiani: circa 200 cittadini avrebbero raggiunto, tra il 2011 e il 2019, la Siria e l’Iraq per unirsi a organizzazioni jihadiste come lo Stato islamico e il Fronte Al Nusra. In Australia, per motivi incomprensibili le autorità non monitorano da anni ambienti di culto radicalizzati dove si inneggia ad Al Qaeda, Isis, Hamas, Hezbollah e Iran, alimentando un clima di radicalizzazione che ha prodotto gravi conseguenze.
Tra i principali predicatori radicali figura Wisam Haddad, noto anche come Abu Ousayd, leader spirituale di una rete pro Isis, individuata da un’inchiesta della Abc. Nonostante fosse sotto osservazione da decenni, non è mai stato formalmente accusato di terrorismo, un’anomalia che evidenzia l’inerzia dello Stato. Haddad feroce antisemita, predica una visione intransigente della Sharia, rifiutando il concetto di Stato e nazionalismo, attirando giovani radicalizzati e facilmente manipolabili. La sua rete ha contribuito al passaggio dalla radicalizzazione verbale al reclutamento operativo. Uno degli attori chiave di questa rete è Youssef Uweinat, ex reclutatore dell’Isis. Conosciuto come Abu Musa Al Maqdisi, ha adescato minorenni australiani, spingendoli alla violenza tramite chat criptate e propaganda jihadista, con messaggi espliciti, immagini di decapitazioni e video di bambini addestrati all’uso delle armi. Condannato nel 2019, Uweinat è stato rilasciato nel 2023 senza misure di sorveglianza severe e ha riallacciato i contatti con Haddad. Inoltre, Uweinat faceva parte di una cellula Isis infiltrata da una fonte dell’Asio, l’intelligence australiana, che ha documentato i piani di attacco e i legami con jihadisti all’estero.
Anche Joseph Saadieh, ex leader giovanile dell’ Al Madina Dawah Centre, ha fatto parte della rete. Arrestato nel 2021 con prove di supporto all’Isis, è stato rilasciato dopo un patteggiamento per un reato minore. L’inchiesta Abc riporta inoltre il ritorno di figure storiche del jihadismo australiano, come Abdul Nacer Benbrika, condannato per aver guidato un gruppo terroristico a Melbourne, e Wassim Fayad, presunto leader di una cellula Isis a Sydney. Questi ritorni indicano un tentativo di rilancio della rete jihadista. Secondo l’Asio, l’Isis ha recuperato capacità operative, aumentando il rischio di attentati in Australia. Tuttavia, nonostante l’allarme lanciato dalle agenzie, lo Stato australiano non sembra in grado di fermare le figure chiave del jihadismo domestico. Haddad continua a predicare liberamente, nonostante accuse di incitamento all’odio antisemita, e i suoi interlocutori principali sono ex detenuti per terrorismo senza misure di sorveglianza. Questo scenario solleva molti interrogativi sulla sostenibilità di una strategia che si limita a monitorare senza intervenire sui nodi ideologici e relazionali del jihadismo interno. La storia di Uweinat, Saadieh e altre figure simili suggerisce che la minaccia jihadista non emerge dal nulla, ma prospera nelle zone grigie lasciate dall’inerzia istituzionale, sollevando preoccupazioni sulla sicurezza e sulla capacità dello Stato di affrontare la radicalizzazione interna in modo efficace. Tutto questo ridimensiona la retorica dell’Australia come Paese blindato, dove entrano solo «i migliori» e solo a determinate condizioni. La realtà racconta ben altro: reti jihadiste attive, predicatori radicali liberi di operare e militanti già condannati che tornano a muoversi senza alcun argine. Non si tratta di una falla nei controlli di frontiera, ma di una resa dello Stato sul fronte interno. La radicalizzazione è stata lasciata prosperare come testimoniano le recenti manifestazioni in cui simboli dell’Isis e di Al Qaeda sono stati mostrati senza conseguenze, rendendo il contesto ancora più esplosivo.
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Ansa
La polizia ha chiarito che gli attentatori erano padre e figlio. Si tratta di Sajid Akram, 50 anni, di origine pakistana, residente in Australia da molti anni, e di Naveed Akram, 24 anni, nato in Australia e residente nel sobborgo di Bonnyrigg, nella zona occidentale di Sydney. Secondo quanto riferito dagli investigatori, entrambi risultavano ideologicamente affiliati all’Isis e radicalizzati da tempo. Almeno uno dei due era noto ai servizi di sicurezza australiani, pur non essendo stato classificato come una minaccia imminente. Sajid Akram è stato ucciso durante l’intervento delle forze dell’ordine, mentre il figlio Naveed è rimasto ferito ed è attualmente ricoverato in ospedale sotto stretta sorveglianza: verrà formalmente interrogato non appena le sue condizioni cliniche lo consentiranno. Le autorità stanno cercando di chiarire il ruolo di ciascuno dei due nella pianificazione dell’attacco e se vi siano stati fiancheggiatori o complici. Nel corso delle perquisizioni effettuate ieri in diversi quartieri di Sydney, in particolare a Bonnyrigg e Campsie, la polizia ha rinvenuto armi ed esplosivi all’interno dei veicoli utilizzati dagli attentatori. Gli ordigni sono stati neutralizzati dagli artificieri e non risulta che siano stati attivati. Un elemento che, secondo gli inquirenti, conferma come il piano fosse più articolato e mirasse a provocare un numero ancora maggiore di vittime. Restano sotto la lente d’ingrandimento anche le misure di sicurezza adottate per l’evento: si parla, infatti, di una sparatoria durata diversi minuti prima che la situazione venisse definitivamente messa sotto controllo. Il che non può che sollevare numerosi interrogativi sulla tempestività dell’intervento e sull’adeguatezza dei controlli preventivi.
La strage, non a caso, ha fatto piovere parecchie critiche addosso al governo laburista guidato da Anthony Albanese, accusato dalle opposizioni e da parte della comunità ebraica di non aver rafforzato la protezione di un evento sensibile malgrado l’aumento degli episodi di antisemitismo registrati negli ultimi mesi in Australia. L’esecutivo ha espresso cordoglio e solidarietà, ma si trova ora a dover rispondere all’accusa di aver sottovalutato il pericolo. Albanese, intanto, ha annunciato una riunione straordinaria del National cabinet per discutere misure urgenti in materia di sicurezza e di controllo delle armi, mentre il governo del Nuovo Galles del Sud ha disposto un rafforzamento immediato della vigilanza attorno a sinagoghe, scuole e centri ebraici.
Numerose le reazioni anche dall’estero. Il premier italiano, Giorgia Meloni, ha condannato l’attentato parlando di «un atto vile e barbaro di terrorismo antisemita» e ribadendo che «l’Italia è al fianco della comunità ebraica e dell’Australia nella lotta contro ogni forma di odio e fanatismo». Parole di ferma condanna sono arrivate anche dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in un messaggio ufficiale ha espresso «profondo cordoglio per le vittime innocenti» e ha sottolineato come «la violenza terroristica, alimentata dall’odio antisemita, rappresenti una minaccia per i valori fondamentali delle nostre democrazie».
Intanto, a Bondi Beach e in altre città australiane, si moltiplicano veglie e momenti di raccoglimento in memoria delle vittime. Molte iniziative pubbliche legate alla festività di Hanukkah sono state annullate o trasformate in cerimonie di lutto, mentre resta alta l’allerta delle forze di sicurezza in vista dei prossimi giorni.
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