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2022-01-01
Gli sfregi della guerra ancora visibili sui volti delle nostre città
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L'ingresso del rifugio di piazza Pretoria a Palermo durante la guerra. Nel riquadro l'interno del rifugio oggi (courtesy Wil Rothier)
Molte scritte di guerra, fino agli anni Settanta ancora ben leggibili sui muri dei palazzi delle città italiane, non sono sopravvissute alla piaga del vandalismo o alle ristrutturazioni delle facciate. Tuttavia nei grandi centri urbani l'opera di conservazione spinta da comitati e associazioni ha dato i suoi frutti e oltre alle scritte anche molti rifugi, riscoperti dopo decenni, sono stati recuperati e oggi sono visitabili. Permettendo così di poter rivivere quei momenti drammatici anche attraverso gli oggetti e le iscrizioni sfuggite alla furia del tempo.
Palermo
Palermo fu una delle città maggiormente colpite dai raid anglo-americani tra il 1942 e l’invasione dell’isola nel luglio del 1943. In seguito sarà bombardata anche dalla Luftwaffe. Il bilancio totale superò i 2.000 morti e i 30mila feriti. La popolazione cercò rifugio dove poteva, anche nelle cavità di roccia delle alture che circondano la città. Molte furono le vittime dei crolli degli scantinati, ma anche quelle che si trovavano nei grandi ricoveri pubblici. Tra questi fu teatro di una orribile strage il ricovero pubblico di Piazza Sett’Angeli, nel centro storico. Durante il bombardamento del 18 aprile 1943 un ordigno si infilò nella cavità di aerazione ed esplose, causando un numero mai precisato di vittime. Quel che rimaneva del ricovero fu coperto da una gettata di cemento ed oggi solo un cippo commemorativo ricorda l’ubicazione del rifugio. Diverso il discorso dell’altro grande ricovero pubblico del capoluogo siciliano, quello costruito nell’ipogeo di Piazza Pretoria, con tre accessi e la possibilità di ospitare 200 persone. Uno di questi ingressi si trovava presso i leoni di granito del palazzo delle Aquile. Riaperto al pubblico nel 2016 in occasione dell'anniversario del grande bombardamento su Palermo del 9 maggio 1943, oggi il rifugio si trova in buono stato di conservazione e nei pressi del rifugio è presente ancora una freccia di segnalazione in colore azzurro dipinta su un muro. La cooperativa Terradamare organizza visite guidate su prenotazione nel ricovero, caratterizzato dalle lunghe panche in pietra che ospitavano la cittadinanza durante le frequenti incursioni aeree. Una descrizione approfondita sui rifugi e sulla storia dei bombardamenti a Palermo è contenuta nel libro di Samule Romeo e Wilfried Rothier «Bombardamenti su Palermo. Un racconto per immagini» (Istituto Poligrafico Europeo).
Nel centro di Palermo è conservato anche un altro ricovero antiaereo, quello nel sottosuolo della Biblioteca Regionale Siciliana A.Bombace, caratterizzato dalla presenza di scritte particolari, in quanto il rifugio era condiviso con un liceo, il Vittorio Emanuele, e le indicazioni erano rivolte all'afflusso degli studenti divisi per classe. Ulteriore rarità della città di Palermo, per quanto riguarda i segni di guerra, è la conservazione di un’indicazione di rifugio di tipo luminoso. Si tratta di una sorta di piccolo lampione con la lettera “R” su tutti i lati, capace di una luce fioca a causa delle limitazioni imposte all'epoca che non permettevano una potenza superiore ai 5 watt. Si trova sul muro di un edificio di Piazza Leoni.
Napoli
La capitale partenopea ospita uno dei rifugi antiaerei più interessanti d’Italia. La particolarità della struttura è connessa alle caratteristiche geomorfologiche del sottosuolo napoletano dominato dalla presenza prevalente della roccia di tufo. Già nel medioevo, gli ipogei di Napoli erano stati utilizzati per mezzo della costruzione di lunghi tunnel e vasche di raccolta idrica, ancora oggi esistenti. Il rifugio antiaereo più importante della città (oggi visitabile su richiesta) si trova sotto il suolo degli storici Quartieri Spagnoli e precisamente in salita Sant’Anna di Palazzo nei pressi di via Chiaia. Fu riscoperto soltanto nel 1979 quando i Vigili del fuoco dovettero intervenire per un incendio scoppiato sul lato di via Chiaia dovuto alla combustione di rifiuti gettati abusivamente nei pozzi sotterranei. Ai loro occhi si aprì uno spettacolo unico, fermo nel tempo. Una scalinata a spirale dalla pianta quadrata portava nel “ventre” di Napoli, fino alla congiunzione con la fittissima rete di tunnel portata a termine alla metà dell’Ottocento da Ferdinando I di Borbone. Nel rifugio, oggi visitabile, trovarono riparo decine di migliaia di napoletani durante le oltre 200 devastanti incursioni che ferirono la città, importantissimo nodo portuale e militare. Nel rifugio di salita Sant’Anna sono ben visibili ancora le incisioni lasciate da uomini e donne che vi passarono lunghe ore, tra cui le caricature di Hitler, Mussolini e Hirohito e graffiti che ricordano la celebrazione di un matrimonio avvenuta sotto il fragore delle bombe.
Roma
la Città Eterna non fu risparmiata dai bombardamenti prima dell’ingresso degli Alleati nel giugno 1944. Nella storia rimarrà particolarmente impressa l’incursione del 19 luglio 1943 che colpì in modo particolare il quartiere San Lorenzo e dintorni, senza risparmiare il cimitero del Verano. Iconica rimase l’istantanea che ritraeva il pontefice Pio XII con le braccia spalancate di fronte alla popolazione atterrita. La capitale d’Italia conservava molti segni della guerra, sia in superficie che nel sottosuolo. Uno dei rifugi più famosi è certamente quello dell’Eur. Costruito per i responsabili di quell’esposizione universale del 1940 che non si tenne mai, fu scavato a circa 33 metri di profondità per la capienza di circa 300 persone, che grazie alle derrate presenti nel rifugio avrebbero potuto resistere nel sottosuolo per ben quattro mesi. I, bunker-rifugio di 475mq di superficie è visitabile periodicamente. Per le vie di Roma sono ancora osservabili alcune scritte di guerra, oggi sempre più minacciate dalla cancellazione dovuta alle ristrutturazioni delle facciate dei palazzi storici che le hanno ospitate per decenni. Fortunatamente alcune di esse, come il simbolo del super idrante da 6.000 litri il cui simbolo con doppio cerchio attorno alla lettera “I” è stato salvato e restaurato in extremis sulla facciata di un palazzo di Corso Vittorio Emanuele II. Alcune scritte interessanti si trovano ancora sulle facciate delle case d’epoca in quartieri come la Garbatella.
Genova
La Superba conserva un ricordo tragico legato ai rifugi antiaerei. Come nel caso di Napoli, la difesa antiaerea della città portuale fu organizzata sfruttando la capillare rete di gallerie preesistente. All’interno di una di queste, la Galleria delle Grazie, si consumò uno dei più terribili massacri civili dovuto alle incursioni belliche. Era la notte del 23 ottobre 1942 quando suonò il grande allarme sulla città, mentre numerosi Lancaster della Raf puntavano su Genova, come avevano fatto la sera precedente. La galleria, dall’ingresso superiore di Porta Soprana, era raggiungibile tramite una scalinata ripida che fu presa d’assalto dai cittadini che cercavano scampo nelle viscere dei rilievi genovesi. La caduta accidentale di alcuni generò una calca mortale che fece più morti delle bombe piovute dal cielo. Sulla rampa d’ingresso e fin dentro la galleria rimanevano i corpi esanimi di un numero imprecisato di vittime, variabili secondo le stime tra i 350 e i 500 morti. La galleria fu murata nel dopoguerra, ricordata da una lapide a Porta Soprana ancora oggi presente. Parte della Galleria delle Grazie è stata riaperta con gli scavi della Metropolitana di Genova, la cui linea corre per un tratto lungo quel tunnel. Nella città della Lanterna, dal 2008 si cerca di salvaguardare le scritte murali del centro storico, che riguardano soprattutto indicazioni dipinte a stencil dagli Americani al fine di tenere lontane le truppe dai vicoli più malfamati del centro, dove spesso si erano verificati episodi di furto e violenze. Altri segni attualmente presenti che riportano all’ultima guerra sono i bunker delle batterie costiere a difesa del porto di Genova, la più famosa quella del Monte Moro sopra l’abitato di Quinto al Mare. Ancora raggiungibili, le batterie si trovano a due differenti livelli (basse e alte). Le prime furono utilizzate dalla 200a batteria costiera con pezzi da 152/40 mentre i bunker alti ospitarono i pezzi da 90/50 antiaerei e una grande piazzola che avrebbe dovuto ospitare un gigantesco pezzo da 381/40 di origine navale.
Milano
Le incursioni a tappeto sulla città cominciarono il 24 ottobre 1942 per terminare alla fine del conflitto, con punte devastanti nell’agosto del 1943 che determinarono il danneggiamento di importanti edifici e monumenti, tra cui Santa Maria delle Grazie (il Cenacolo si salvò per poco) il Teatro alla Scala, Palazzo Marino, la Galleria Vittorio Emanuele II. Molti erano i ricoveri pubblici, tra cui uno molto capiente costruito sotto la pavimentazione di Piazza del Duomo, la cui area è oggi occupata dalla stazione della Metropolitana Linea 1 che ne conserva in parte la struttura, visibile da alcune colonne basse che fungevano da sostegno alla soletta antibomba in cemento armato. L’opera, che doveva essere il più grande rifugio della città, non fu mai terminata.
A Milano e nella periferia cittadina si possono vedere ancora oggi alcuni manufatti a protezione dei dipendenti delle grandi fabbriche o delle strutture militari. Un esempio sono i rifugi conici di superficie presenti a Lambrate ed oggi ben conservati all’interno di una caserma ad oggi operativa, che durante la guerra servirono alla protezione delle Officine Meccaniche Piaggio a ridosso della grande fabbrica Innocenti. Di simile costruzione la torre del Quartiere Adriano, a Nordest della città. Questa, durante la guerra in uso alla Magneti Marelli, oltre ad essere perfettamente conservata e visibile. è stata restaurata dalla catena di supermercati che ne ha acquistato l’area pochi anni fa. Particolare, per la tipologia costruttiva a "matita", è la cosiddetta "torre delle sirene", rifugio fuori terra ancora oggi presente nel cortile di palazzo Isimbardi, sede della Prefettura cittadina nella centralissima corso Monforte. La torre fortificata era sede dei sistemi di allarme aereo ed ospitava la centrale operativa che mandava i segnali di allarme e cessato allarme agli avvisatori acustici della città. Dal cortile della Prefettura uscì per l'ultima volta Benito Mussolini in occasione della tentata fuga in Svizzera finita con l'arresto a Dongo e la fucilazione a Giulino di Mezzegra. Opere in cemento si possono trovare anche presso l’aeroporto cittadino di Bresso, che durante la guerra ospitava un importante reparto di caccia e all’interno di un complesso sportivo di via Mecenate, che sorge dove un tempo le batterie contraeree difendevano l’azienda di costruzioni aeronautiche Caproni. Diversi sono i ricoveri pubblici recuperati e visitabili. Come il rifugio n.53, costruito già nel 1936 nel sottosuolo di Piazza Grandi o come quello di Viale Bodio, noto come n.87, costruito nei sotterranei di una scuola e recuperato recentemente. Inghiottito dalla furia delle bombe fu invece quello di Piazza Tricolore, centrato in pieno durante il bombardamento inglese (diurno) del 24 ottobre 1942. Una bomba si infilò in un condotto di aerazione causando il crollo della struttura e lo schiacciamento o soffocamento di decine di persone. A Milano resistono, seppure a fatica minacciate dai writers, dal tempo e dalle mani di vernice anche molti segni murali che indicavano uscite di sicurezza, idranti e altre strutture di soccorso. Tra gli esempi più interessanti quelli presenti sui muri dei vecchi padiglioni dell’ospedale Policlinico, dove si possono notare quadrati rossi inclusi in un cerchio bianco ad indicare la struttura ospedaliera e una scritta “roggia” in corrispondenza di una presa d’acqua per le pompe dei Vigili del fuoco. Anche nel caso di Milano, passeggiando per le vie, è ancora possibile imbattersi nelle frecce dipinte in bianco e nero ad indicare rifugi e uscite di soccorso degli scantinati adibiti a ricovero privato. Ben conservate le scritte in via Valtellina (zona Isola-Farini), Piazzale di Porta Lodovica (a poca distanza dal crollo di alcuni palazzi nell'incursione dell'ottobre 1942), via San Michele del Carso, via Maddalene e molte altre ancora, alcune di esse conservate e in alcuni casi restaurate dai condomini.
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Sempre meno visibili a causa di vandalismi o ristrutturazioni, le grandi città italiane conservano ancora le scritte e i rifugi dell'ultima guerra. Un excursus da Sud A Nord nelle grandi città, allora martoriate dalle bombe. Ecco cosa rimane...Molte scritte di guerra, fino agli anni Settanta ancora ben leggibili sui muri dei palazzi delle città italiane, non sono sopravvissute alla piaga del vandalismo o alle ristrutturazioni delle facciate. Tuttavia nei grandi centri urbani l'opera di conservazione spinta da comitati e associazioni ha dato i suoi frutti e oltre alle scritte anche molti rifugi, riscoperti dopo decenni, sono stati recuperati e oggi sono visitabili. Permettendo così di poter rivivere quei momenti drammatici anche attraverso gli oggetti e le iscrizioni sfuggite alla furia del tempo.PalermoPalermo fu una delle città maggiormente colpite dai raid anglo-americani tra il 1942 e l’invasione dell’isola nel luglio del 1943. In seguito sarà bombardata anche dalla Luftwaffe. Il bilancio totale superò i 2.000 morti e i 30mila feriti. La popolazione cercò rifugio dove poteva, anche nelle cavità di roccia delle alture che circondano la città. Molte furono le vittime dei crolli degli scantinati, ma anche quelle che si trovavano nei grandi ricoveri pubblici. Tra questi fu teatro di una orribile strage il ricovero pubblico di Piazza Sett’Angeli, nel centro storico. Durante il bombardamento del 18 aprile 1943 un ordigno si infilò nella cavità di aerazione ed esplose, causando un numero mai precisato di vittime. Quel che rimaneva del ricovero fu coperto da una gettata di cemento ed oggi solo un cippo commemorativo ricorda l’ubicazione del rifugio. Diverso il discorso dell’altro grande ricovero pubblico del capoluogo siciliano, quello costruito nell’ipogeo di Piazza Pretoria, con tre accessi e la possibilità di ospitare 200 persone. Uno di questi ingressi si trovava presso i leoni di granito del palazzo delle Aquile. Riaperto al pubblico nel 2016 in occasione dell'anniversario del grande bombardamento su Palermo del 9 maggio 1943, oggi il rifugio si trova in buono stato di conservazione e nei pressi del rifugio è presente ancora una freccia di segnalazione in colore azzurro dipinta su un muro. La cooperativa Terradamare organizza visite guidate su prenotazione nel ricovero, caratterizzato dalle lunghe panche in pietra che ospitavano la cittadinanza durante le frequenti incursioni aeree. Una descrizione approfondita sui rifugi e sulla storia dei bombardamenti a Palermo è contenuta nel libro di Samule Romeo e Wilfried Rothier «Bombardamenti su Palermo. Un racconto per immagini» (Istituto Poligrafico Europeo).Nel centro di Palermo è conservato anche un altro ricovero antiaereo, quello nel sottosuolo della Biblioteca Regionale Siciliana A.Bombace, caratterizzato dalla presenza di scritte particolari, in quanto il rifugio era condiviso con un liceo, il Vittorio Emanuele, e le indicazioni erano rivolte all'afflusso degli studenti divisi per classe. Ulteriore rarità della città di Palermo, per quanto riguarda i segni di guerra, è la conservazione di un’indicazione di rifugio di tipo luminoso. Si tratta di una sorta di piccolo lampione con la lettera “R” su tutti i lati, capace di una luce fioca a causa delle limitazioni imposte all'epoca che non permettevano una potenza superiore ai 5 watt. Si trova sul muro di un edificio di Piazza Leoni. NapoliLa capitale partenopea ospita uno dei rifugi antiaerei più interessanti d’Italia. La particolarità della struttura è connessa alle caratteristiche geomorfologiche del sottosuolo napoletano dominato dalla presenza prevalente della roccia di tufo. Già nel medioevo, gli ipogei di Napoli erano stati utilizzati per mezzo della costruzione di lunghi tunnel e vasche di raccolta idrica, ancora oggi esistenti. Il rifugio antiaereo più importante della città (oggi visitabile su richiesta) si trova sotto il suolo degli storici Quartieri Spagnoli e precisamente in salita Sant’Anna di Palazzo nei pressi di via Chiaia. Fu riscoperto soltanto nel 1979 quando i Vigili del fuoco dovettero intervenire per un incendio scoppiato sul lato di via Chiaia dovuto alla combustione di rifiuti gettati abusivamente nei pozzi sotterranei. Ai loro occhi si aprì uno spettacolo unico, fermo nel tempo. Una scalinata a spirale dalla pianta quadrata portava nel “ventre” di Napoli, fino alla congiunzione con la fittissima rete di tunnel portata a termine alla metà dell’Ottocento da Ferdinando I di Borbone. Nel rifugio, oggi visitabile, trovarono riparo decine di migliaia di napoletani durante le oltre 200 devastanti incursioni che ferirono la città, importantissimo nodo portuale e militare. Nel rifugio di salita Sant’Anna sono ben visibili ancora le incisioni lasciate da uomini e donne che vi passarono lunghe ore, tra cui le caricature di Hitler, Mussolini e Hirohito e graffiti che ricordano la celebrazione di un matrimonio avvenuta sotto il fragore delle bombe.Romala Città Eterna non fu risparmiata dai bombardamenti prima dell’ingresso degli Alleati nel giugno 1944. Nella storia rimarrà particolarmente impressa l’incursione del 19 luglio 1943 che colpì in modo particolare il quartiere San Lorenzo e dintorni, senza risparmiare il cimitero del Verano. Iconica rimase l’istantanea che ritraeva il pontefice Pio XII con le braccia spalancate di fronte alla popolazione atterrita. La capitale d’Italia conservava molti segni della guerra, sia in superficie che nel sottosuolo. Uno dei rifugi più famosi è certamente quello dell’Eur. Costruito per i responsabili di quell’esposizione universale del 1940 che non si tenne mai, fu scavato a circa 33 metri di profondità per la capienza di circa 300 persone, che grazie alle derrate presenti nel rifugio avrebbero potuto resistere nel sottosuolo per ben quattro mesi. I, bunker-rifugio di 475mq di superficie è visitabile periodicamente. Per le vie di Roma sono ancora osservabili alcune scritte di guerra, oggi sempre più minacciate dalla cancellazione dovuta alle ristrutturazioni delle facciate dei palazzi storici che le hanno ospitate per decenni. Fortunatamente alcune di esse, come il simbolo del super idrante da 6.000 litri il cui simbolo con doppio cerchio attorno alla lettera “I” è stato salvato e restaurato in extremis sulla facciata di un palazzo di Corso Vittorio Emanuele II. Alcune scritte interessanti si trovano ancora sulle facciate delle case d’epoca in quartieri come la Garbatella. GenovaLa Superba conserva un ricordo tragico legato ai rifugi antiaerei. Come nel caso di Napoli, la difesa antiaerea della città portuale fu organizzata sfruttando la capillare rete di gallerie preesistente. All’interno di una di queste, la Galleria delle Grazie, si consumò uno dei più terribili massacri civili dovuto alle incursioni belliche. Era la notte del 23 ottobre 1942 quando suonò il grande allarme sulla città, mentre numerosi Lancaster della Raf puntavano su Genova, come avevano fatto la sera precedente. La galleria, dall’ingresso superiore di Porta Soprana, era raggiungibile tramite una scalinata ripida che fu presa d’assalto dai cittadini che cercavano scampo nelle viscere dei rilievi genovesi. La caduta accidentale di alcuni generò una calca mortale che fece più morti delle bombe piovute dal cielo. Sulla rampa d’ingresso e fin dentro la galleria rimanevano i corpi esanimi di un numero imprecisato di vittime, variabili secondo le stime tra i 350 e i 500 morti. La galleria fu murata nel dopoguerra, ricordata da una lapide a Porta Soprana ancora oggi presente. Parte della Galleria delle Grazie è stata riaperta con gli scavi della Metropolitana di Genova, la cui linea corre per un tratto lungo quel tunnel. Nella città della Lanterna, dal 2008 si cerca di salvaguardare le scritte murali del centro storico, che riguardano soprattutto indicazioni dipinte a stencil dagli Americani al fine di tenere lontane le truppe dai vicoli più malfamati del centro, dove spesso si erano verificati episodi di furto e violenze. Altri segni attualmente presenti che riportano all’ultima guerra sono i bunker delle batterie costiere a difesa del porto di Genova, la più famosa quella del Monte Moro sopra l’abitato di Quinto al Mare. Ancora raggiungibili, le batterie si trovano a due differenti livelli (basse e alte). Le prime furono utilizzate dalla 200a batteria costiera con pezzi da 152/40 mentre i bunker alti ospitarono i pezzi da 90/50 antiaerei e una grande piazzola che avrebbe dovuto ospitare un gigantesco pezzo da 381/40 di origine navale.MilanoLe incursioni a tappeto sulla città cominciarono il 24 ottobre 1942 per terminare alla fine del conflitto, con punte devastanti nell’agosto del 1943 che determinarono il danneggiamento di importanti edifici e monumenti, tra cui Santa Maria delle Grazie (il Cenacolo si salvò per poco) il Teatro alla Scala, Palazzo Marino, la Galleria Vittorio Emanuele II. Molti erano i ricoveri pubblici, tra cui uno molto capiente costruito sotto la pavimentazione di Piazza del Duomo, la cui area è oggi occupata dalla stazione della Metropolitana Linea 1 che ne conserva in parte la struttura, visibile da alcune colonne basse che fungevano da sostegno alla soletta antibomba in cemento armato. L’opera, che doveva essere il più grande rifugio della città, non fu mai terminata. A Milano e nella periferia cittadina si possono vedere ancora oggi alcuni manufatti a protezione dei dipendenti delle grandi fabbriche o delle strutture militari. Un esempio sono i rifugi conici di superficie presenti a Lambrate ed oggi ben conservati all’interno di una caserma ad oggi operativa, che durante la guerra servirono alla protezione delle Officine Meccaniche Piaggio a ridosso della grande fabbrica Innocenti. Di simile costruzione la torre del Quartiere Adriano, a Nordest della città. Questa, durante la guerra in uso alla Magneti Marelli, oltre ad essere perfettamente conservata e visibile. è stata restaurata dalla catena di supermercati che ne ha acquistato l’area pochi anni fa. Particolare, per la tipologia costruttiva a "matita", è la cosiddetta "torre delle sirene", rifugio fuori terra ancora oggi presente nel cortile di palazzo Isimbardi, sede della Prefettura cittadina nella centralissima corso Monforte. La torre fortificata era sede dei sistemi di allarme aereo ed ospitava la centrale operativa che mandava i segnali di allarme e cessato allarme agli avvisatori acustici della città. Dal cortile della Prefettura uscì per l'ultima volta Benito Mussolini in occasione della tentata fuga in Svizzera finita con l'arresto a Dongo e la fucilazione a Giulino di Mezzegra. Opere in cemento si possono trovare anche presso l’aeroporto cittadino di Bresso, che durante la guerra ospitava un importante reparto di caccia e all’interno di un complesso sportivo di via Mecenate, che sorge dove un tempo le batterie contraeree difendevano l’azienda di costruzioni aeronautiche Caproni. Diversi sono i ricoveri pubblici recuperati e visitabili. Come il rifugio n.53, costruito già nel 1936 nel sottosuolo di Piazza Grandi o come quello di Viale Bodio, noto come n.87, costruito nei sotterranei di una scuola e recuperato recentemente. Inghiottito dalla furia delle bombe fu invece quello di Piazza Tricolore, centrato in pieno durante il bombardamento inglese (diurno) del 24 ottobre 1942. Una bomba si infilò in un condotto di aerazione causando il crollo della struttura e lo schiacciamento o soffocamento di decine di persone. A Milano resistono, seppure a fatica minacciate dai writers, dal tempo e dalle mani di vernice anche molti segni murali che indicavano uscite di sicurezza, idranti e altre strutture di soccorso. Tra gli esempi più interessanti quelli presenti sui muri dei vecchi padiglioni dell’ospedale Policlinico, dove si possono notare quadrati rossi inclusi in un cerchio bianco ad indicare la struttura ospedaliera e una scritta “roggia” in corrispondenza di una presa d’acqua per le pompe dei Vigili del fuoco. Anche nel caso di Milano, passeggiando per le vie, è ancora possibile imbattersi nelle frecce dipinte in bianco e nero ad indicare rifugi e uscite di soccorso degli scantinati adibiti a ricovero privato. Ben conservate le scritte in via Valtellina (zona Isola-Farini), Piazzale di Porta Lodovica (a poca distanza dal crollo di alcuni palazzi nell'incursione dell'ottobre 1942), via San Michele del Carso, via Maddalene e molte altre ancora, alcune di esse conservate e in alcuni casi restaurate dai condomini.
Sergio Mattarella (Ansa)
Si torna quindi all’originale, fedeli al manoscritto autografo del paroliere, che morì durante l’assedio di Roma per una ferita alla gamba. Lo certifica il documento oggi conservato al Museo del Risorgimento di Torino.
La svolta riguarderà soprattutto le cerimonie militari ufficiali. Lo Stato Maggiore della Difesa, in un documento datato 2 dicembre, ha infatti inviato l’ordine a tutte le forze armate: durante gli eventi istituzionali e le manifestazioni militari nelle quali verrà eseguito l’inno nella versione cantata - che parte con un «Allegro marziale» -, il grido in questione dovrà essere omesso. E viene raccomandata «la scrupolosa osservanza» a tutti i livelli, fino al più piccolo presidio territoriale, dalla Guardia di Finanza all’Esercito. Ovviamente nessuno farà una piega se allo stadio i tifosi o i calciatori della nazionale azzurra (discorso che vale per tutti gli sport) faranno uno strappo alla regola, anche se la strada ormai è tracciata.
Per confermare la bontà della decisione del Colle basta ricordare le indicazioni che il Maestro Riccardo Muti diede ai 3.000 coristi (professionisti e amatori, dai 4 agli 87 anni) radunati a Ravenna lo scorso giugno per l’evento dal titolo agostiniano «Cantare amantis est» (Cantare è proprio di chi ama). Proprio in quell’occasione, come avevamo raccontato su queste pagine, il grande direttore d’orchestra - che da decenni cerca di spazzare via dall’opera italiana le aggiunte postume, gli abbellimenti non richiesti e gli acuti non scritti dagli autori, ripulendo le partiture dalle «bieche prassi erroneamente chiamate tradizioni» - ordinò a un coro neonato ma allo stesso tempo immenso: «Il “sì” finale non si canta, nel manoscritto non c’è».
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Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
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Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
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Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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