
Con lo stop all'adesione Ue, il premier macedone in bilico. Nuova inchiesta per corruzione. Bloccando l'apertura dei negoziati d'adesione all'Ue della Macedonia all'ultimo Consiglio europeo, Macron ha rovinato i piani della Merkel nei Balcani. Il premier Macedone, Zoran Zaev, dopo aver sentito per telefono il consiglio della Cancelliera Merkel e alcuni altri capi di governo ha deciso di non sentirsi responsabile della situazione creatasi. Alla riunione di oggi presso il capo di Stato, Stevo Pendarovski, proporrà le elezioni anticipate (ma con modalità che gli diano la possibilità di non dimettersi e di gestire la consultazione escludendo l'opposizione). Tuttavia nessuna capitale estera oramai conta più sulla presenza di Zaev. Il colpo finale al futuro del premier dovrebbe giungere dall'inchiesta - seguita sin dalle origini dalla Verità - che alcune settimane addietro ha portato in carcere la vicepresidente del Parlamento, la socialista Frosina Remenska, fidata collaboratrice di Zaev. Il marito della Remenska - divenuto sotto Zaev capo dell'unità antiterrorismo - si è visto successivamente affidare la responsabilità di formare u nuovo servizio segreto (Anb) nel quale far confluire solo le persone fedeli al capo di governo, delegittimando la storica agenzia Ubk, rea di eccessiva indipendenza politica. Come chiarito dalle intercettazioni da noi pubblicate in estate, la Remenska era presidente onoraria dell'associazione caritativa Alleanza internazionale, attraverso la quale sono state incanalate negli anni le somme delle numerose attività di estorsione portate avanti, su commissione del vertice politico giudiziario, dal personaggio televisivo Bojan Jovanovski, in arte Boki 13. La Remenska è stata arrestata all'interno di un caso nel quale un imprenditore immobiliare, Siljan Micevski, nel mese di novembre 2018 ha pagato ad un'anziana signora di nome Liljana Todorovska ben 750.000 euro a compenso di un'eccezionale idea che la signora avrebbe avuto per il futuro sviluppo delle case di riposo. La signora, ricevuto il denaro sul proprio conto, è stata accompagnata in banca dai rappresentanti dell'Alleanza nazionale - cui ha dovuto consegnare l'intero ammontare - e che in seguito sono spariti con i soldi. Nel caso sono ufficialmente indagati il padre di Boki 13 e Jasna Mandič, una collega televisiva di Boki 13. Ad oggi l'arresto della Remenska parrebbe una strategia diversiva con cui Zaev tenterebbe, ancora una volta, di distogliere da sé le responsabilità penali. Nell'attività giornalistica della Verità degli ultimi mesi, abbiamo avuto conferma del fatto che l'amministrazione finanziaria Ufr, sulla base del sospetto di illeciti, aveva congelato il pagamento di 750.000 euro effettuato a favore della Todorovska. Rispettando le procedure legali, la Ufr ha comunicato la notizia del potenziale reato e dell'avvenuto fermo alla procuratrice generale per il crimine organizzato Vilma Ruskovska, la quale avrebbe potuto esercitare il suo potere di conferma del fermo a tempo indeterminato (ovvero far partire delle indagini). Tuttavia, secondo le informazioni di cui siamo entrati in possesso e che successivamente il giudice Naum Panovski avrebbe confermato con testimonianza spontanea resa di fronte al procuratore generale della repubblica Joveski, il giorno dopo Zoran Zaev in persona avrebbe chiamato Vilma Ruskovska ordinandole di sbloccare i soldi. La Ruskovska, voluta non a caso da Zaev al posto di Katica Janeva quale procuratrice speciale e al momento in carcere a causa delle nostre rivelazioni, successivamente avrebbe ordinato al giudice incaricato della questione, Naum Panovski, di eseguire gli ordini ricevuti da Zaev. Conseguentemente nessuna ulteriore attività investigativa fu ritenuta necessaria e i soldi vennero trasferiti sul conto del destinatario nelle successive 48 ore. Tali testimonianze attesterebbero la connessione diretta tra il premier Zaev e l'attività estorsiva portata innanzi da Boki 13, ma soprattutto proverebbero la vicinanza personale tra i due, da Boki 13 sempre confermata anche con materiale fotografico. Alla luce dei fatti svelati dalla Verità ad agosto il giudice Panovski, in preda ad un caso di coscienza personale, ha preferito riportare i fatti di cui era a conoscenza al procuratore generale. La procura della repubblica dinanzi alla richiesta di commentare le notizie pubblicate dal nostro giornale si è chiusa nel silenzio più assoluto.
Francesco Zambon (Getty Images)
Audito dalla commissione Covid Zambon, ex funzionario dell’agenzia Onu. Dalle email prodotte emerge come il suo rapporto, critico sulle misure italiane, sia stato censurato per volontà politica, onde evitare di perdere fondi per la sede veneziana dell’Organizzazione.
Riavvolgere il nastro e rivedere il film della pandemia a ritroso può essere molto doloroso. Soprattutto se si passano al setaccio i documenti esplosivi portati ieri in commissione Covid da Francesco Zambon, oggi dirigente medico e, ai tempi tragici della pandemia, ufficiale tecnico dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Di tutte le clamorose notizie diffusamente documentate in audizione, ne balzano agli occhi due: la prima è che, mentre gli italiani morivano in casa con il paracetamolo o negli ospedali nonostante i ventilatori, il governo dell’epoca guidato da Giuseppe Conte (M5s) e il ministro della salute Roberto Speranza (Pd) trovavano il tempo di preoccuparsi che la reputazione del governo, messa in cattiva luce da un rapporto redatto da Zambon, non venisse offuscata, al punto che ne ottennero il ritiro. La seconda terribile evidenza è che la priorità dell’Oms in pandemia sembrava proprio quella di garantirsi i finanziamenti.
Quest’anno in Brasile doppio carnevale: oltre a quello di Rio, a Belém si terrà la Conferenza Onu sul clima Un evento che va avanti da 30 anni, malgrado le emissioni crescano e gli studi seri dicano che la crisi non esiste.
Due carnevali, quest’anno in Brasile: quello già festeggiato a Rio dei dieci giorni a cavallo tra febbraio e marzo, come sempre allietato dagli sfrenati balli di samba, e quello - anch’esso di dieci giorni - di questo novembre, allietato dagli sfrenati balli dei bamba che si recheranno a Belém, attraversata dall’equatore, per partecipare alla Cop30, la conferenza planetaria che si propone di salvarci dal riscaldamento del clima.
La deposizione in mare della corona nell'esatto luogo della tragedia del 9 novembre 1971 (Esercito Italiano)
Il 9 novembre 1971 si consumò il più grave incidente aereo per le forze armate italiane. Morirono 46 giovani parà della «Folgore». Oggi sono stati ricordati con una cerimonia indetta dall'Esercito.
L'articolo contiene una gallery fotografica.
Quarantasei giovani parà della «Folgore» inghiottiti dalle acque del mar Tirreno. E con loro sei aviatori della Royal Air Force, altrettanto giovani. La sciagura aerea del 9 novembre 1971 fece così impressione che il Corriere della Sera uscì il giorno successivo con un corsivo di Dino Buzzati. Il grande giornalista e scrittore vergò alcune frasi di estrema efficacia, sconvolto da quello che fino ad oggi risulta essere il più grave incidente aereo per le Forze Armate italiane. Alle sue parole incisive e commosse lasciamo l’introduzione alla storia di una catastrofe di oltre mezzo secolo fa.
(…) Forse perché la Patria è passata di moda, anzi dà quasi fastidio a sentirla nominare e si scrive con la iniziale minuscola? E così dà fastidio la difesa della medesima Patria e tutto ciò che vi appartiene, compresi i ragazzi che indossano l’uniforme militare? (…). Buzzati lamentava la scarsa commozione degli Italiani nei confronti della morte di giovani paracadutisti, paragonandola all’eco che ebbe una tragedia del 1947 avvenuta ad Albenga in cui 43 bambini di una colonia erano morti annegati. Forti le sue parole a chiusura del pezzo: (…) Ora se ne vanno, con i sei compagni stranieri. Guardateli, se ci riuscite. Personalmente mi fanno ancora più pietà dei leggendari piccoli di Albenga. Non si disperano, non singhiozzano, non maledicono. Spalla a spalla si allontanano. Diritti, pallidi sì ma senza un tremito, a testa alta, con quel passo lieve e fermissimo che nei tempi antichi si diceva appartenesse agli eroi e che oggi sembra completamente dimenticato (…)
Non li hanno dimenticati, a oltre mezzo secolo di distanza, gli uomini della Folgore di oggi, che hanno commemorato i caduti di quella che è nota come la «tragedia della Meloria» con una cerimonia che ha coinvolto, oltre alle autorità, anche i parenti delle vittime.
La commemorazione si è conclusa con la deposizione di una corona in mare, nel punto esatto del tragico impatto, effettuata a bordo di un battello in segno di eterno ricordo e di continuità tra passato e presente.
Nelle prime ore del 9 novembre 1971, i parà del 187° Reggimento Folgore si imbarcarono sui Lockheed C-130 della Raf per partecipare ad una missione di addestramento Nato, dove avrebbero dovuto effettuare un «lancio tattico» sulla Sardegna. La tragedia si consumò poco dopo il decollo dall’aeroporto militare di Pisa-San Giusto, da dove in sequenza si stavano alzando 10 velivoli denominati convenzionalmente «Gesso». Fu uno di essi, «Gesso 5» a lanciare l’allarme dopo avere visto una fiammata sulla superficie del mare. L’aereo che lo precedeva, «Gesso 4» non rispose alla chiamata radio poiché istanti prima aveva impattato sulle acque a poca distanza dalle Secche della Meloria, circa 6 km a Nordovest di Livorno. Le operazioni di recupero dei corpi furono difficili e lunghissime, durante le quali vi fu un’altra vittima, un esperto sabotatore subacqueo del «Col Moschin», deceduto durante le operazioni. Le cause della sciagura non furono mai esattamente definite, anche se le indagini furono molto approfondite e una nave pontone di recupero rimase sul posto fino al febbraio del 1972. Si ipotizzò che l’aereo avesse colpito con la coda la superficie del mare per un errore di quota che, per le caratteristiche dell’esercitazione, doveva rimanere inizialmente molto bassa.
Continua a leggereRiduci
Teresa Ribera (Ansa)
Il capo del Mef: «All’Ecofin faremo la guerra sulla tassazione del gas naturale». Appello congiunto di Confindustria con le omologhe di Francia e Germania.
Chiusa l’intesa al Consiglio europeo dell’Ambiente, resta il tempo per i bilanci. Il dato oggettivo è che la lentezza della macchina burocratica europea non riesce in alcun modo a stare al passo con i competitor mondiali.
Chiarissimo il concetto espresso dal ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti: «Vorrei chiarire il criterio ispiratore di questo tipo di politica, partendo dal presupposto che noi non siamo una grande potenza, e non abbiamo nemmeno la bacchetta magica per dire alla Ue cosa fare in termini di politica industriale. Ritengo, ad esempio, che sulla politica commerciale, se stiamo ad aspettare cosa accade nel globo, l’industria in Europa nel giro di cinque anni rischia di scomparire». L’intervento avviene in Aula, il contesto è la manovra di bilancio, ma il senso è chiaro. Le piccole conquiste ottenute nell’accordo sul clima non sono sufficienti e nei due anni che bisogna aspettare per la nuova revisione può succedere di tutto.










